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 2016  aprile 27 Mercoledì calendario

UNA COSA DIVERTENTE CHE SPERO DI RIFARE

Tra i privilegi del dirigere una rivista come IL c’è quello di ricevere continuamente inviti a visitare posti incredibili, cose che noi umani eccetera. Solo che io non ci vado mai, o quasi. Non per snobismo né per sottolineare che del sottotitolo di questa rivista tengo più alla parte «idee» che a quella «lifestyle», ma tendenzialmente perché non ho tempo: c’è sempre un numero da chiudere, una riunione di marketing da preparare, un investitore pubblicitario da incontrare. In realtà non è nemmeno una questione di tempo, perché quando le cose mi interessano il tempo lo trovo eccome e non mi perdo mai una partita di calcio, una primaria americana, una serie tv. Diciamo che non ci vado e basta, anche se non ho mai ben capito perché.
Ogni volta ringrazio cortesemente dell’invito al weekend a Cortina, alla visita a Berlino, all’opening a Londra, alla prova automobilistica alle Canarie, all’apertura del nuovo ristorante a Roma, al trattamento nella spa di lusso al lago e anche al corso di guida sportiva al Circolo polare artico. Ogni volta penso di essere un po’ scemo, ma finisce sempre così: non ci vado.
Talvolta, però, ci sono offerte che non si possono rifiutare. Per un paio di anni, per esempio, mi hanno invitato ad assistere al torneo di Wimbledon e l’estate scorsa finalmente ho accettato. Naturalmente è stato meraviglioso (Grazie, Lavazza!).
Qualche settimana fa mi è stato chiesto se ero interessato a partecipare a una regata di superyacht nientemeno che alle Isole Vergini Britanniche, cioè in Paradiso. Ho detto subito di sì.
A invitarmi è stato Loro Piana, il marchio del lusso italiano da un paio d’anni entrato a far parte del gruppo francese LVMH di Bernard Arnault. Vi assicuro che, a parte l’offerta paradisiaca, è difficile dire di no al team comunicazione di Loro Piana. Raramente ho visto un gruppo di pierre così combattivo: avreste dovuto vederle, queste ragazze, mentre contrattavano con le indolenti autorità caraibiche la liberazione di un giornalista turco bloccato alla frontiera per la mancanza del visto.
Insomma, sono andato a Virgin Gorda. Alle British Virgin Islands. Mar dei Caraibi. Ci sono andato senza sensi di colpa, anche perché il numero di IL era appena chiuso, rispondendo «#Lifestyle» agli amici invidiosi che mi insultavano via Whatsapp.
Ho avuto solo qualche rimorso a chiedere a un deputato della Repubblica italiana di rimandare un seminario alla Camera sulle elezioni americane cui mi aveva invitato come relatore, ma alla fine con un viaggio di ritorno lungo 30 ore sono riuscito a fare entrambe le cose («no, onorevole, non ho preso sole seguendo le primarie della Florida»).
Loro Piana è sponsor della Loro Piana Super Yacht Regatta, organizzata dallo Yacht Club di Porto Cervo dell’Aga Khan che di recente ha aperto una sua dépendance invernale nel North Sound di Virgin Gorda (e fa impressione sentire ai Caraibi l’accento sardo mentre ti servono malloreddus alla campidanese). Loro Piana non è solo sponsor, partecipa anche alla gara. Ma come avrei scoperto soltanto durante la regata, Pier Luigi Loro Piana, vicepresidente dell’azienda fondata nel 1924 dallo zio Pietro, non è semplicemente l’armatore né soltanto un’autorità sulla vicuña e sulle capre cachemire, è anche il timoniere dell’imbarcazione dal primo all’ultimo minuto della regata.
Sono arrivato a Virgin Gorda di notte, dopo un viaggio di tre scali aerei e di una tappa in motoscafo, sbarcando al Bitter End, luogo mitico del North Sound con le credenziali giuste per velisti affluenti globali. Il North Sound è un meraviglioso porto naturale, con un enorme specchio di mare protetto da quattro isole e dalla barriera corallina. E per questo, nonostante un gran vento, il mare rimane piatto.
In camera, con una vista come si dice «mozzafiato» ma di cui mi sarei accorto solo l’indomani mattina, ho trovato l’uniforme ufficiale da regata della barca, naturalmente Loro Piana total look. Short in lino beige, con tasche dove ho immaginato che i velisti esperti custodissero strumenti tecnici, corde o pezzi di cima e dove io invece ho subito pensato di metterci la crema solare e l’acqua minerale da turista imbranato e disidratato. Polo bianca a manica lunga, di un cotone leggerissimo che il dottor Loro Piana mi spiegherà aver trovato in California dopo lunghi anni di ricerca. E poi un gilet tecnico blu in seta trattata, con interno bianco in cachemire, perfetto per proteggersi da vento e salsedine ma volendo adatto anche alla prima della Scala. Naturalmente anche un cappello con visiera tipo baseball, ma da vela. Difficile battere il team Loro Piana, almeno quanto a classe ed eleganza.
La regata alle Isole Vergini Britanniche è una gara di tre giorni con superyacht da 30 a 67 metri. Sembrano portaerei, non barche a vela. Il primo giorno mi hanno portato a vedere la partenza a bordo di un catamarano a motore dello Yacht Club, dove ho bevuto molto champagne Ruinart (gruppo LVMH pure questo: sinergia) che mi ha aiutato a convincere i non italiani del gruppo a tenersi lontani dai tocchetti gommosi di pizza dello Yacht Club. Le improbabili pizzette ce le hanno riproposte per giorni, anche alla cena di gala dove il tavolo dei giornalisti è stato preso d’assalto da terribili formiche rosse tipo zanzare tigre che hanno pizzicato violentemente le gambe dei cronisti, il vostro compreso. La spiacevole situazione, l’unica in verità dell’intero viaggio, è stata risolta brillantemente dal team comunicazione Loro Piana che ha prontamente spostato i giornalisti a un tavolo centrale in teoria destinato a qualche miliardario asiatico o tedesco. Tra i vantaggi della nuova posizione, oltre all’assenza di formiche rosse, anche una maggiore vicinanza, anche umana, ai commensali di un tavolo di affluenti statunitensi impegnati a intonare ‘O Sole Mio su crudele sollecitazione di un pianista showman di Dover.
Tornando al primo giorno in barca, dopo la partenza della gara siamo andati a farci il bagno ai famosi Baths, i massi giganteschi di granito che sono la principale attrazione dell’area, e a Cooper Island.
Ero l’unico italiano tra i giornalisti e mi sembrava di stare in una barzelletta: c’erano una francese, una spagnola, un’inglese, una sud coreana, un giapponese, un cinese, un giamaicano e poi è arrivato anche il turco, finalmente liberato dalle grinfie delle autorità locali grazie all’intervento delle amazzoni Loro Piana. Improvvisamente mi sono ricordato il motivo per cui non accetto questi inviti esclusivi che mi riempiono la casella della posta: non so mai di che cosa parlare con i giornalisti al seguito, di solito specializzati in materie a me sconosciute. Ma questa volta è andata bene e non solo perché a cena, a cominciare dalla signora Loro Piana, tutti sembravano sinceramente interessati a conoscere le ultime sulle elezioni americane, e io ero appena tornato dal caucus in Iowa e dalle primarie in New Hampshire (o forse erano solo molto gentili?).
La giornalista inglese, Lydia Gard, era molto simpatica, come sanno esserlo solo certi inglesi, e io avendo appena chiuso il numero di IL contro la Brexit ero anche preparato sui problemi economici e sociali della Gran Bretagna. Ne ho approfittato per chiederle un articolo sul parenting, che trovate nella storia di copertina di questo numero. Ma anche la spagnola, il cinese, la sud coreana e la francese sono stati un’ottima compagnia. Il gruppo, insomma, era perfetto, e mi sono davvero emozionato davanti alla grandezza di chi ha chiesto alle pierre di autorizzargli, alla spa del resort, un trattamento benessere al viso «perché stasera devo farmi una foto col dottor Loro Piana». Un vero professionista, da segnalare a Camilla Baresani per un eventuale sequel del suo romanzo Gli Sbafatori.
Poi è arrivato il secondo giorno.
Con l’uniforme da regata, sono salito a bordo del Windfall, il superyacht battente bandiera maltese che Loro Piana ha noleggiato per sfidare le portaerei avversarie. È un’imbarcazione del 2013, con vele da competizione un po’ usurate, almeno così mi hanno detto prefigurando una sconfitta inevitabile. Pier Luigi Loro Piana in realtà ha un suo superyacht, My Song, ma lo ha lasciato nelle acque del Mediterraneo, ed è comunque in attesa di un My Song 2 di cui si dicono meraviglie anche se è ancora in costruzione nei cantieri navali del Baltico. A bordo, dopo essermi tolto con provata ma finta naturalezza le scarpe che ho scoperto non avrei dovuto togliere, la squadra Loro Piana era pronta a salpare. La cosa che non avevo capito era che il team della regata non era un team qualsiasi. I ragazzi che mi salutavano, rilassati e un poco perplessi nel vedermi salire con l’aria incosciente del novizio, erano né più né meno che i migliori velisti italiani. C’erano ex partecipanti alle Olimpiadi ed erano tutti veterani della Coppa America. Uno addirittura ne aveva fatte otto di Coppe America, da Azzurra ad Alinghi, passando per il Moro di Venezia e Luna Rossa. Il tattico era Tommaso Chieffi, che pure io che non so niente di vela ho visto più volte in televisione ai tempi del Moro di Venezia che vinse la Louis Vuitton Cup e sfidò America3 nella Coppa America. Il team manager Giorgio Benussi mi ha spiegato che questa è più o meno la nazionale italiana di vela. A dire il vero non ricordo se me l’ha detto lui o se invece è stato il tattico Chieffi a raccontarmi la biografia professionale dei suoi, perché dal momento in cui siamo salpati non ho capito più niente.
Partecipare a una regata professionistica di questo livello, avrebbe detto Mao Tse Tung, non è un pranzo di gala. E non solo perché in alto mare, tra una strambata e un’orzata, l’equipaggio faceva girare un sacchetto di plastica trasparente pieno di caramelle gommose alla frutta, barrette Snickers alle arachidi e pane in cassetta che misto alla crema solare spalmata sul viso avevano un sapore disgustoso. Questa era una competizione vera. Con professionisti top. E io, intruso, non avevo nessuna idea di che cosa fare.
Era come se fossi andato a giocare una partita di calcio nella stessa squadra di Pirlo e Marchisio, di Buffon e Verratti: mica mi avrebbero detto come calciare la palla, come colpirla con l’interno del piede o come piegare il busto; avrebbero immaginato che lo sapessi fare, per il solo fatto di essere lì, in campo. Ecco, la stessa cosa è avvenuta su Windfall. Tutti erano convinti che sapessi muovermi su una barca da regata, invece non ne sapevo nulla. A dire il vero, il giornalista giamaicano che aveva regatato su Windfall il giorno precedente mentre io ero con gli altri a bere champagne ed evitare pizzette, la sera prima mi aveva avvertito, con la tipica faccia rilassata post trattamento benessere, che per me sarebbe stata durissima, così inesperto. A bordo, mi ha detto, non avrei mai potuto indossare gli occhiali da vista perché mi sarebbero volati via e nei giorni successivi non avrei più visto il paradiso caraibico. Durante le virate, poi, avrei rischiato lividi, lesioni e fratture varie.
La mattina in cui è toccato a me salire su Windfall mi è stato detto solo di stare seduto «sopravento», a «poppa», e di attendere ordini. Ho pensato che tutto sommato fosse semplice e ho seguito passo passo la giornalista inglese, Lydia, e il pianista della cena di gala, Oliver, immaginando che in quanto compatrioti di Horatio Nelson sapessero come comportarsi in barca.
Stavamo seduti sul lato del Windfall da dove spirava il vento, con gambe e testa fuori bordo, aggrappati come cozze a una specie di ringhiera formata da cavi di metallo sostenuti da strutture, sempre in metallo, che poi avrei scoperto chiamarsi «candelieri» e «pulpiti». I cavi invece si chiamano «draglie», e non si è mai capito perché in barca non si parli una lingua normale.
Ma quelli non sarebbero stati gli unici termini marinari a me incomprensibili. «Ready to tack», ha urlato a un certo punto qualcuno dell’equipaggio, passando alla ciurma gli ordini del timoniere. Ready? Come no? Certo che ero pronto, ma a fare che cosa? Non avevo idea di che cosa volesse dire «tack», e la fonetica simile al «taaac» del cumenda milanese da cinepanettone non era di prontissimo aiuto. Ho capito soltanto quando, al comando «tack», ho visto gli energumeni a bordo – gli stessi che fino a un secondo prima si contendevano come mocciosi alla ricreazione le caramelle gommose alla frutta – fiondarsi su scotte e non so che cos’altro e spostarsi alla velocità della luce sul lato opposto dell’imbarcazione, naturalmente a testa china per non prendersi in faccia il gigantesco boma che regge una randa grande quanto un trilocale. Ecco, che cosa dovevo fare: al comando «tack», correre da un fianco all’altro della barca, mentre il superyacht virava portando la prua in direzione del vento, passando da un’inclinazione di 45 gradi a una di pari angolo sul lato opposto. Naturalmente dovevo stare attento a non inciampare sulle drizze o sulle scotte, insomma sulle corde, e a non prendere le gomitate degli energumeni in astinenza da gommosi.
Non vi racconto nemmeno che cosa è successo nel pozzetto, almeno credo si chiami così la parte centrale della barca, quando l’equipaggio ha ammainato lo spinnaker e poi lo ha raccolto e piegato in un battibaleno. È successo tutto così velocemente da non essere riuscito a memorizzare i movimenti. La scena, però, mi ha ricordato la mattanza a Favignana, con i marinai impegnati a domare lo spi invece dei tonni.
Vedere questi professionisti in azione è stato uno spettacolo, ancora più dello scenario naturale dei Caraibi. Chieffi, il tattico, guardava le onde del mare e annunciava che in 15 secondi sarebbe arrivata una raffica di vento: «... 10... 5... ora». E in effetti arrivava. Il dottor Loro Piana, cui Cheffi si rivolgeva costantemente con un amichevole «Pigi», era l’unico con i pantaloni lunghi, di lino beige uguali ai nostri short, ma lunghi. Da capitano.
Uno dei trimmer, Tano Granara, controllava e regolava l’angolo del genoa e del gennaker, delle vele, scandendo «139, 140, 139» o altri numeri a me incomprensibili, ma con il melodico accento palermitano da circolo Lauria di Mondello. Lo stratega misurava con un binocolo le distanze e le mosse degli avversari e dialogava col tattico; il quale, a sua volta, suggeriva le manovre al timoniere. Il navigatore, posizionato dietro lo skipper e il tattico, controllava un tablet che prevedeva tutto il prevedibile, mentre all’albero c’erano tre grandi display che tra le altre cose mostravano angoli e velocità del vento.
A un certo punto c’è stato un errore di comunicazione, e a prua hanno ammainato una vela mezzo minuto prima del dovuto. Si è avvertita un po’ di agitazione e ne ho approfittato per agguantare una gelatina Haribo al limone.
La seconda giornata di regata è durata circa tre ore. Siamo arrivati quarti, nella nostra categoria. Eravamo delusi e amareggiati, ma personalmente mai come quando, una volta scesi a terra, ci hanno offerto ancora le pizzette dello Yacht Club.
La rivincita sarà a giugno, nelle acque amiche della Costa Smeralda. Se mi invitano di nuovo, e cambiano pizzaiolo, ci torno. #Lifestyle.