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 2016  aprile 27 Mercoledì calendario

PREGUSTARSI I GIN TONIC FUTURI


Ieri mio figlio di quattro anni si è arrampicato sull’albero davanti alla scuola di suo fratello. Ero quasi certa che si sarebbe fatto male nel momento di saltare giù. Lo sapevo perché i miei occhi lavorano in tandem con il cervello, che ha registrato l’esperienza di arrampicarsi, saltare e cadere quand’ero bambina. Sapevo anche che mio figlio non padroneggia ancora alla perfezione l’atterraggio tipo commando con capriola incorporata: difficilmente si sarebbe rotto una gamba, ma quasi sicuramente avrebbe fatto un bel tonfo. L’ho lasciato saltare, anche se gli occhi spalancati e i grugniti di disapprovazione degli altri genitori intorno mi mettevano in guardia dalla mia passività. Quei genitori correrebbero dinoccolati in soccorso del bambino per salvarlo dal dolore passeggero di un errore di valutazione, ma io preferisco vedere i miei figli imparare da questo dolore e usarlo per crescere. Non evito ai miei figli di farsi un livido, ma sono la prima ad accorrere per confortarli. Se li lascio cadere e farsi male, avranno imparato qualcosa sull’insuccesso e su come gestirlo. Lo chiamo «educare i figli per il domani».
In concreto significa che a ogni pasto guardo il mio figlio più piccolo versare il latte fuori dalla tazza perché ancora non ha risolto alla perfezione il rompicapo volume/tazza/ inclinazione/flusso. Significa che non corro a scuola a portare i compiti che l’altro figlio, di 7 anni, ha dimenticato a casa, anche se so che si beccherà inevitabilmente una sgridata. Significa che se uno di loro viene a chiedermi di aiutarlo a fare qualcosa, costruire il Chima Tiger Tank della Lego oppure allacciarsi le scarpe, lo incoraggio a riprovarci da solo (e lo guardo mentre si fa prendere dallo sconforto) e resisto all’impulso di intervenire e fare tutto io.
Non sono una mamma pigra, anzi: nel profondo dell’anima, sono un’intransigente maniaca del controllo. Semplicemente non voglio fare al posto loro cose che farebbero bene a fare da soli: sfida e fallimento sono gli elementi costitutivi della resilienza. Nel rivoluzionario saggio The Gift of Failure, Jessica Lahey, giornalista, madre e insegnante statunitense, sostiene che oggi l’educazione dei figli è «caratterizzata da un livello di iperprotettività senza precedenti. Ogni volta che corriamo in aiuto dei nostri figli, gli gironzoliamo intorno o evitiamo loro la fatica di doversi cimentare con qualcosa, inviamo un messaggio molto chiaro: li riteniamo incompetenti, incapaci e immeritevoli della nostra fiducia».
Ho scoperto che il mio metodo di educazione corrisponde a quello che un esercito di psicologi infantili definisce «educare all’autonomia», cioè dare ai bambini il potere di fare le loro scelte (nei limiti della sicurezza e della ragionevolezza). Non vuol dire che se venite a casa nostra assisterete a una rievocazione del Signore delle mosche. Qualche paletto ai miei figli lo impongo: non possono maneggiare coltelli o toccare il ferro da stiro. Semplicemente li metto alla prova fornendo loro la possibilità di fare errori. Invece di scandire un «no» secco quando mi chiedono se possono scivolare per le scale dentro il sacco a pelo, chiedo: «Se lo fate, il braccio/il buonumore/il cane ne usciranno sani e salvi?». E se tutti e tre pensiamo che la risposta sia positiva, vado a preparare la cena.
Sempre più ricerche indicano che i figli di genitori che educano all’autonomia hanno probabilità molto maggiori di diventare persone che non s’arrendono di fronte agli ostacoli e alle frustrazioni e sono in grado di portare a termine un compito con le proprie forze. Al contrario, i figli di genitori che hanno la mania del controllo o sono ossessivamente dipendenti dai figli si fanno prendere dallo sconforto senza l’aiuto di mamma e papà, e rinunciano. Insomma: smussando le asperità nella vita dei nostri figli li rendiamo incapaci, in futuro, di cavarsela da soli nei momenti belli e brutti. Mi sembra logico: è difficile inculcare il concetto di resilienza in un bambino che sperimenta soltanto il successo o che viene costantemente applaudito per il suo talento, quando in realtà il suo disegno o il suo dettato sono poco più che mediocri.
È contro ogni logica aspettarsi che un bambino impari da solo quando ogni volta che cincischia, si impunta o si comporta male, arriviamo noi e gli tiriamo su la lampo del cappotto al posto suo. Eppure è quello che impone l’educazione odierna. A nostro figlio agganciamo la cintura di sicurezza, a nostro figlio asciughiamo il sedere, allacciamo le scarpe, prendiamo i vestiti che ha abbandonato sul pavimento della stanza e li mettiamo nel cesto dei panni sporchi, anche quando è già fisicamente in grado da anni di svolgere da solo questi compiti. Lo proteggiamo dai piccoli insuccessi applaudendo la mediocrità, lo difendiamo dalle critiche esterne di altri adulti che fanno parte della sua vita, e in generale lo teniamo dentro casa per non correre il rischio che la pioggia o l’onnipresente minaccia di estranei possano fargli del male. Eppure, nonostante tutto questo, ci aspettiamo che cresca, migliori e acquisti fiducia nelle proprie capacità, e ci chiediamo perché al contrario sia così viziato e insicuro.
Nel saggio Il potere del carattere, Paul Tough analizza il legame fra le esperienze che facciamo nei primi anni di vita e i risultati della vita adulta. Scrive: «Quel che conta è se siamo in grado di aiutare il bambino a sviluppare diverse qualità, tra cui la perseveranza, l’autocontrollo, la curiosità, la coscienziosità, la grinta e l’autostima”. Queste qualità, almeno dal mio punto di vista, non nascono unicamente dal fatto di essere passati attraverso traumi e avversità, ma si possono imparare affrontando piccole sfide, valutando e interpretando il rischio e imparando dagli errori: la cosa importante è saper gestire il fallimento, non evitarlo.
Così, se vi affacciaste nel mio giardino potreste vedere i miei figli nella casa sull’albero che mescolano pozioni di fango e magari si mangiano qualche pianta (a proposito, sono più di vent’anni che in Inghilterra nessun bambino muore per questo). Certamente li vedrete saltare dall’altalena, a volte da un’altezza preoccupante, mentre io continuo a stendere i panni con la schiena girata dall’altra parte, neutralizzando il rumore con un buon podcast.
Il mio masterplan è questo: un giorno, quando le madri maniache del controllo si lamenteranno perché la camera degli ospiti è occupata dal loro bamboccione trentenne che non ha il coraggio di andare a un colloquio di lavoro senza qualcuno che gli allacci le scarpe, io starò a bermi gin tonic alle quattro del pomeriggio, dedicandomi al giardinaggio e all’ascolto di Radio 4 mentre mi godo il silenzio (e la pulizia) del mio nido vuoto. E i miei figli saranno felicemente sposati con mogli riconoscenti che mi ringrazieranno per aver insegnato ai loro mariti a essere adulti, lasciando che percorressero le loro colline e vallate senza essere portati a cavalluccio durante tutta la strada.