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 2016  febbraio 15 Lunedì calendario

STERLINA, FINANZA, COMMERCIO TRA LONDRA E BRUXELLES CHI PAGA IL CONTO DELLA BREXIT

Un gadget per la campagna dei sostenitori del Brexit Londra E ntro qualche mese la Gran Bretagna dovrà prendere una decisione che, a seconda dei punti di vista, potrebbe trasformarla in una Corea del Nord o in una grande e ancora più florida Hong Kong. Il referendum sull’appartenenza all’Unione Europea promette di risolvere una volta per tutte il conflittuale rapporto di Londra con il resto del continente di cui fa geograficamente e culturalmente parte ma con il quale ha sempre faticato a identificarsi politicamente. Il primo ministro, David Cameron, si è impegnato a battersi per il sì alla Unione Europea, a patto però di una riuscita rinegoziazione delle relazioni con Bruxelles. C ameron cioè si impegnerà per la sconfitta del referendum, voluto dagli “autonomisti” e che lui si era impegnato a tenere due anni fa in sede di rielezione, solo se riuscirà a rinegoziare le relazioni con Bruxelles ottenendo sostanzialmente maggiore autonomia dai vincoli dell’Unione Europea, che anche qui e non solo in Italia o altrove sono visti come troppo stringenti, oltre che precisi limiti all’immigrazione. Nei giorni scorsi la trattativa sembrava essersi avvicinata a un’intesa, con un compromesso che verte su un “freno d’emergenza” a certi benefici assistenziali (integrazione dei salari più bassi, assegni familiari per i figli, diritto ad alloggi popolari di stato). Se questo servirà o meno a diminuire l’immigrazione è controverso: secondo un rapporto soltanto 84 mila famiglie di immigrati comunitari hanno usufruito fino ad ora di simili misure. E l’intesa deve ricevere il voto di approvazione del Consiglio d’Europa al summit in programma il 18 e 19 febbraio. Per il premier britannico si tratta di poter presentare al proprio popolo l’accordo come una vittoria: in tal caso indirà la consultazione probabilmente per il prossimo 23 giugno. E se si votasse oggi, vincerebbero con il 45% gli euroscettici contro il 36% di “fedeli” all’Europa. In teoria, l’esito del referendum dipende da una valutazione strettamente economica: la Gran Bretagna trarrebbe più vantaggi dal restare nell’Unione o dall’uscirne? Ma la risposta non è così facile. Se si dà retta a euroscettici ed eurofobi, l’uscita dalla Ue farà del Regno Unito una nuova e più grande Hong Kong, un’isola del capitalismo in grado di avere relazioni commerciali più libere con tutti. Se si ascoltano i difensori dell’Europa, l’uscita dall’Unione precipiterebbe questo paese in una condizione da Corea del Nord comunista, distruggendo il suo import-export. Sull’argomento sono usciti studi autorevoli che cercano di fornire un giudizio più equo. Anche quelli, tuttavia, dipendono da incognite al momento non prevedibili. La Banca d’Inghilterra, che si sforza di apparire un osservatore neutrale, ammonisce che la crescita economica britannica potrà soffrire ancora prima del referendum, per effetto delle ansie suscitate dal risultato. I mercati finanziari, che hanno l’abitudine di muoversi in anticipo rispetto al business, sono chiaramente preoccupati: fra novembre e febbraio la sterlina ha conosciuto nei confronti delle principali valute esetere il maggiore declino dalla grande recessione del 2008 a oggi. Contro il dollaro, negli ultimi tre mesi, ha perso il 7. Contro l’euro, il 3 per cento. Un’analisi della banca di investimenti Goldman Sachs (che è tra i finanziatori della campagna per il sì alla Ue, dunque non un commentatore neutrale) avverte che il Brexit (Britain exit, cioè Britannia esce – sottinteso dall’Europa) provocherebbe un ritorno della sterlina a livelli non più visti dal lontano 1985. Lord Stuart Rose, direttore di “Britain stronger in Europe”, come si chiama la campagna per il sì all’Unione, e uno dei businessmen più noti del Regno Unito, pubblica previsioni altrettanto drastiche: il divorzio dalla Ue costerebbe alla Gran Bretagna 11 miliardi di sterline soltanto in tariffe doganali, l’equivalente di una perdita di 176 sterline l’anno per ogni cittadino britannico e di 426 sterline l’anno per ogni famiglia. Studi del fronte opposto indicano che Londra risparmierebbe esattamente 11 miliardi di sterline l’anno dal non dover più contribuire alle casse della Ue. Ma “essere o non essere insieme in Europa”, per citare il cinguettio affidato a Twitter dal presidente del Consiglio d’Europa Donald Tusk, non basta a definire quello che potrebbe accadere dopo il referendum. Il Financial Times, che segue passo passo la fase negoziale, ha consultato una commissione di esperti per spiegarlo più concretamente. Tutti gli studi che calcolano i costi economici di un no alla Ue, afferma il quotidiano finanziario, sono incompleti o parziali. Il referendum scozzese del 2014 per la secessione dalla Gran Bretagna, aiuta a capire perché. Gli indipendentisti volevano mantenere la quasi totalità dello status quo: la monarchia come sistema, la regina come capo di stato, la sterlina come moneta, la supervisione della banca d’Inghilterra, le frontiere aperte, pur diventando uno stato sovrano, separato da Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord. È verosimile che il Regno Unito chiederebbe la stessa cosa alla Ue nell’eventualità di una vittoria degli euroscettici nel referendum. Il giorno dopo si aprirebbe un negoziato con tre possibili opzioni: entrare a far parte dell’Area Economica Europea, come la Norvegia, avendo accesso al mercato comune (ma ciò costringerebbe Londra a contribuire al budget Ue senza avere voce nel determinarne le regole); un accordo bilaterale come quello che ha la Svizzera con la Ue, che però ridurrebbe l’accesso al mercato comune; o una rottura totale, e questo comporterebbe il ripristino di tariffe doganali sui prodotti britannici destinati all’esportazione, con le conseguenze paventate dall’europeista lord Rose. Lo scenario più chiaro sul Brexit viene dalla think tank londinese Open Europe, secondo la quale il pil britannico potrebbe ridursi del 2,2 per cento nel 2030 se il Regno Unito lasciasse l’Unione Europea e non riuscisse a negoziare un successivo accordo di tipo norvegese o svizzero, mentre potrebbe aumentare dell’1,6 per cento, sempre nel 2030, se riuscisse a raggiungere un accordo simile a quelli di Oslo o Berna. Ma un calcolo più realistico, ammette Open Europe, sarebbe di un calo dello 0,8 per cento del pil in caso di Brexit senza accordi doganali o di un aumento dello 0,6 per cento del pil con accordi: una differenza non così sensibile. Né Corea del Nord, né Hong Kong, dunque: divorziando dalla Ue, la Gran Bretagna resterebbe probabilmente la Gran Bretagna. Pretendere di poter decidere come votare nel referendum sulla base di presunti futuri vantaggi o svantaggi economici sembra insomma un esercizio sterile quasi quanto il compromesso del “freno di emergenza” ai contributi previdenziali, presentato come una grande vittoria da Cameron mentre di fatto cambierà poco o nulla come freno all’immigrazione. Il “to be or not be”, con l’Europa o fuori, è più politica che economica: Londra deve decidere se in un mondo globalizzato è meglio fare parte di un blocco di 500 milioni di abitanti o ragione come isola di 60 milioni di sudditi di Sua Maestà. Il problema è che le questioni politiche, diversamente da quelle economiche, sono influenzate più dalle emozioni che dai fatti. Qualunque episodio altamente emozionale nei giorni prima del voto (uno sbarco di migranti, un attentato, una serie di violenze) potrebbe pesare sul risultato. Molto di più degli studi economici per stabilire se il Brexit conviene o meno.
Enrico Franceschini, Affari&Finanza – la Repubblica 15/2/2016