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 2016  febbraio 14 Domenica calendario

Arrivati a una certa età, se volgiamo lo sguardo all’indietro, agli anni dell’infanzia, non sono molte le figure dai contorni nitidi che ci corrono incontro al galoppo

Arrivati a una certa età, se volgiamo lo sguardo all’indietro, agli anni dell’infanzia, non sono molte le figure dai contorni nitidi che ci corrono incontro al galoppo. Fra queste, il maestro delle scuole elementari è quella che più di altre ci procura un moto spontaneo di riconoscenza. Ne ho avuto conferma osservando su questo giornale lo sguardo mite e austero di Emilio Perlini, morto a 92 anni e rimpianto da tutta la popolazione del suo paese, Mozzecane. Il necrologio recava un epitaffio, «Domine, exaudi orationem meam», tradotto in «Signor, dame ’na man», dal titolo di un libro del defunto, che non soltanto ha speso la sua vita a educare intere generazioni, come ho letto in un articolo poche pagine più avanti, ma ha anche saputo rendere in dialetto veronese il lirismo dei Salmi e di altri testi biblici. Parlo non a caso del maestro, anzi del signor maestro, perché questa figura è quasi estinta, sopravvive solo nella memoria di noi adulti, nel Giulio Perboni del Cuore deamicisiano che nessuno legge più. Le statistiche attestano che su 100 insegnanti degli istituti statali, 79 sono femmine e 21 maschi. Ma fra i docenti della scuola primaria le percentuali si riducono drasticamente: 96 donne e appena 4 uomini. Le conseguenze mi furono ben descritte 12 anni fa da Maurizio Boscherini, un maestro della provincia di Forlì-Cesena, che da Santa Sofia venne trasferito «per incompatibilità ambientale» a Premilcuore, un toponimo un programma, 40 minuti di auto, tornanti e curve, neve e ghiaccio, il Passo delle Forche da valicare. La sua colpa? Siccome le 20 colleghe avevano il malvezzo di fargli firmare circolari e pagelle sotto la dizione «Le insegnanti», con un comprensibile sussulto di dignità virile e zelo sintattico Boscherini aveva preteso che fosse corretta in «Gli insegnanti». Apriti cielo. «La scuola sta morendo di ipocrazia, ipocrisia più burocrazia, cioè poco potere, ipo krátos, nel senso dello scadimento di autorità», mi raccontò Boscherini. «Il maestro pretende, la maestra tollera. Nella famiglia tradizionale la mamma era dolce, il papà severo. Oggi il mammo ha preso il posto del babbo. La donna s’è indurita, l’uomo intenerito. Più che un babbo, un babbeo. I genitori non sanno educare. Bocciare è vietato. Chi boccia è un cattivo maestro. Nella scuola dell’obbligo anche la promozione è obbligatoria. Io mi sento un educatore missionario. Ma i genitori preferiscono l’impiegato burocrate». Morto il maestro, quale figura maschile di riferimento resta ai ragazzi d’oggi? Il padre? Quello è assente per definizione. La femminilizzazione della scuola, cominciata negli anni Sessanta, ha come conseguenza la scomparsa di un modello comportamentale per gli adulti di domani. Ignoro quanto pesi tutto ciò nella babele dei generi che affligge l’odierna società. Ma se Alessio anziché sposarsi con Valentina preferisce diventare Alessia per poter convolare a nozze con Davide che fino a ieri si chiamava Valentina - è successo pochi giorni fa nel municipio di Orbetello (Grosseto) - forse un’anamnesi anche scolastica sui novelli sposi meriterebbe di essere fatta. Bei tempi quando nelle aule delle elementari esercitavano la loro patria potestà virtuale personaggi come Antonio Manzi, Gianni Rodari, don Lorenzo Milani, Mario Lodi, Danilo Dolci. A costoro aggiungerei di diritto Plinio Patuzzi, maestro veronese che in 42 anni di onorato servizio ha insegnato dapprima all’Ipai, poi nelle scuole Massalongo, Mazzini, Rodari e Carducci, infine nel Cpia Alighieri. Nei giorni scorsi è andato in pensione e ha deciso di congedarsi a modo suo dalla missione che ha impegnato più di due terzi della sua vita. Ha convocato nella chiesa di Alcenago tutte le colleghe che lo hanno accompagnato nella carriera. Prima di chiudere il registro per sempre, voleva insieme a loro assegnare un 10 e lode al Padreterno per avergli consentito «di fare il lavoro più bello del mondo», e anche ringraziare l’angelo custode che per quasi mezzo secolo ha vegliato non tanto su di lui, donandogli competenza pedagogica e nervi saldi, quanto sugli alunni, impedendo che si facessero del male durante giochi, esercizi ginnici, gite, esperimenti di scienze e spedizioni sul greto dell’Adige per studiare insetti e vermi. Un’ex alunna gli ha scritto una mail dal Connecticut, dove oggi è ricercatrice universitaria, confessandogli che la passione per la biologia gli è venuta proprio lì, con i piedi affondati nel limo del nostro fiume. Al congedo era presente Rosa Pavan, insegnante dell’Istituto comprensivo 16, nella triplice veste di sua ex allieva, di sua collega alle Rodari e di mamma di uno dei suoi ultimi alunni. Patuzzi ha voluto che, almeno per un giorno, le maestre non fossero costrette a sdoppiarsi nel ruolo di lavoratrici e di casalinghe, quindi che non si mettessero ai fornelli, e le ha portate a pranzo in trattoria, ovviamente a proprie spese. Per sdebitarsi, le commensali avevano pensato a un regalo. Non c’è stato verso: il neopensionato le ha pregate di devolvere il corrispettivo alla scuola di Goiás, in Brasile, dove dal 1992 insegna la veronese Lucia Agostini. Ecco, se ognuno di noi è quello che è, una larga parte del merito va sicuramente ascritto a un maestro Patuzzi che tutti abbiamo avuto alle elementari. Il mio si chiamava Gennaro Cioffi. Era napoletano. Devo a lui il miracolo d’essere riuscito a mantenere una famiglia con la scrittura, il più pleonastico degli esercizi umani. Assegnandomi tre temi a settimana, mi ha allenato a tradurre in italiano le cose che pensavo in dialetto e a metterle in bella copia con la stilografica sui fogli protocollo dopo averle pasticciate sui quaderni Pigna che il Patronato scolastico donava ai figli delle famiglie provviste del libretto comunale di povertà. Cioffi mi ha fatto amare il libro dei libri, lo Zingarelli («ogni giorno ci trovo dentro qualcosa che non so», mi ripeteva sempre Giulio Nascimbeni, per una vita capo della terza pagina del Corriere della Sera). Entrando in classe, ci faceva deporre in un barattolo un biglietto sul quale dovevamo scrivere una parola a noi ignota; a fine lezione pescava i rotolini di carta come se fossero i numeri della tombola e ci dava le definizioni. Ricordo che una volta, volendo dimostrarmi preparato, proposi un vocabolo, luteo, pescato a casaccio su un dizionario mezzo sfasciato dei miei fratelli. Il maestro sentenziò: «Luteo. Di color giallo zafferano. Dicesi pure di cosa che non devi sapere», con riferimento al corpo luteo, corpuscolo del follicolo ovarico. E borbottò sottovoce: «Mannaggia, ma a cchist’ chi ce le dà le parole?». Allora la scuola elementare Giosue Carducci di Borgo Venezia mi appariva come un porto sicuro proprio perché sulla tolda della corazzata vi erano ammiragli - Cioffi, Micheloni, La Greca, Ruggiero, Grillo - che, sestante alla mano, indicavano la rotta da seguire. Quanto alle rare ammiraglie, erano del tutto assimilabili, per autorevolezza, severità e uniforme, ai colleghi maschi - penso all’arcigna maestra Gina Vanni, di origini toscane, in grado di scorticarti con la sola pronuncia - e venivano destinate di norma alle classi femminili. Poi un giorno arrivava a sorpresa l’ispezione del super-mega-extra-maxi-magnum Direttore Didattico, Mario Carraroli, con i suoi occhialetti alla Himmler, che interrogava su tutti i rami dello scibile, dalle guerre puniche alla tavola pitagorica, incutendo il timor panico nella scolaresca schierata sull’attenti. Non so, magari mi fa velo il fatto di aver frequentato in anni lontani l’istituto magistrale Montanari. Lì compresi che l’insegnante maschio rappresenta, per i bambini, una figura imprescindibile. Accadde quando la docente di didattica, Annamaria Castelletti, ci portò a vedere sul campo, alla scuola elementare Segala, come andava esercitata la scienza dell’educazione. La prima volta ci fece entrare in punta di piedi nella classe del maestro Nino Cenni, che in seguito avrei conosciuto anche come fine pubblicista nella redazione dell’Arena. Stava intrattenendo il suo infantile uditorio sulle bellezze della lingua italiana. Che magia! Era una recita teatrale, non una lezione: musica per le orecchie, spettacolo per gli occhi, godimento per lo spirito, come se William Shakespeare e Carlo Goldoni, attraverso il suo eloquio forbito e rutilante, i suoi gesti eleganti e misurati, si fossero materializzati fra i banchi convocativi da Berto Barbarani. Che fortuna per questi bambini, mi dissi, avere un insegnante così. Alla seconda uscita la professoressa Castelletti ci fece conoscere il maestro Alessandro Crescimbeni. Circonfuso dalla polvere di gesso, dispiegava sulla lavagna la sapienza dei numeri con la stessa tecnica persuasiva del suo collega Manzi a Non è mai troppo tardi. Anche in quell’aula non volava una mosca. Tutto il contrario della caciara nella notte di San Silvestro di qualche anno appresso, allorché, per un ghiribizzo della sorte, mi ritrovai in casa Crescimbeni invitato da uno dei suoi figli e, sulle note di Angie dei Rolling Stones, mi fidanzai con quella che sarebbe diventata mia moglie, andando ad abitare dopo il matrimonio nel medesimo condominio. Quando si dice il destino. Chiedo venia per le digressioni personali. Volevo solo testimoniare che il maestro ha contato davvero tanto nelle nostre vite, orientandole e arricchendole. Credo di poter concludere che questa Italia abbia bisogno, oggi più di ieri, di altri Cenni, di altri Crescimbeni, di altri Patuzzi, e perciò prego il Maestro per eccellenza di provvedere al più presto. LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Attualmente in Marsilio come consigliere dell’editore. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Ultimi libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio). LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Attualmente in Marsilio come consigliere dell’editore. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Quindici libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio) i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.