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 2016  febbraio 10 Mercoledì calendario

INTERVISTA A GIANLUCA VIALLI

Se Gianluca Vialli in questa intervista parla tanto di Roberto Mancini, oggi allenatore dell’Inter, sappiate che è colpa mia. Mi autodenuncio subito: sono genovese, cresciuta con un padre sampdoriano sfegatato. Durante tutta la mia adolescenza questi due nomi legati indissolubilmente insieme – Vialli e Mancini – hanno riecheggiato nelle mie orecchie all’infinito, idoli incontrastati di una tifoseria blucerchiata destinata a scoprire, per la prima volta nella vita, come ci si sente in cima all’Olimpo. Perché la Samp in quegli anni, grazie ai gemelli del gol (così era stata battezzata la coppia), vinse tutto: tre Coppe Italia, nel 1990 la Coppa delle Coppe, nel ’91 il primo (e unico) scudetto e la Supercoppa Italiana, arrivando a sfiorare nel ’92 la Coppa dei Campioni, persa in finale con il Barcellona.
Vialli aveva 28 anni quando lasciò la Samp per la Juventus. Nella sua carriera di attaccante, proseguita poi in Inghilterra con il Chelsea, dove ha fatto anche l’allenatore, ha segnato 286 gol ed è tra i nove giocatori italiani che hanno vinto tutte e tre le principali competizioni Uefa per club. Nel 2002 ha lasciato il calcio per diventare commentatore sportivo per Sky. La sua prossima sfida è sempre televisiva e si chiama Squadre da incubo: gira l’Italia, nei panni di direttore sportivo, assieme all’ex calciatore Lorenzo Amoruso, che fa da allenatore, andando in soccorso di squadre dilettanti di periferia sull’orlo del baratro. Con appena sette giorni per salvarle.
Ultimo di cinque figli, quattro maschi e una femmina: era il più coccolato?
«Se mai, il figlio non previsto. Mia madre ci ha avuti tutti dai suoi venti ai trent’anni, con me credo avesse finito le energie. Questo però mi ha forgiato: la necessità di farmi notare in famiglia mi ha dato stimoli più forti, che forse gli altri miei fratelli non hanno avuto».
Come hanno vissuto a casa il suo successo?
«Bene, anche se non erano certo i genitori che sognavano un figlio calciatore, loro ci tenevano soprattutto che studiassi. Mi permisero di interrompere le superiori solo quando mi fecero il contratto da professionista alla Cremonese. A 28 anni, all’apice della carriera, presi il diploma da geometra».
Suo padre non amava il calcio?
«Zero, pensava solo al lavoro, era un costruttore. Oggi ho il rimpianto di non averli coinvolti abbastanza: loro non chiedevano di venire a vedere le partite, io ero concentrato sugli allenamenti e non ho mai insistito, forse avrei dovuto: nella mia famiglia non siamo stati bravi a dimostrarci l’affetto».
Se non avesse fatto il calciatore...
«Sarei andato quasi sicuramente a lavorare con mio padre. Ma pensavo solo al calcio: dopo la scuola, a Cremona, andavo all’oratorio e giocavo tutto il giorno. Il talento è importante, ma se non giochi tanto non ce la fai. Oggi i bambini hanno troppe distrazioni, per questo ci sono meno calciatori».
Il suo background familiare la rendeva diverso dal calciatore medio. Se ne accorgeva?
«La verità è che, appena entriamo in uno spogliatoio, diventiamo parecchio simili. Alla Samp, poi, avevamo tutti più o meno la stessa età, la stessa filosofia di vita, ed eravamo legati da un senso di appartenenza che aveva saputo creare il nostro presidente, Paolo Mantovani. Bastava parlargli mezz’ora e uscivi dal suo ufficio pensando di poter camminare sull’acqua».
Sta parlando di carisma?
«Per noi era un padre che ci aveva dato una missione: sfidare lo status quo e dimostrare che anche una squadra piccola può competere e battere le grandi. Per questo, per anni, abbiamo tutti rifiutato le offerte delle altre squadre: dovevamo prima vincere lo scudetto».
Mantovani si comportava diversamente con lei e con Mancini?
«Sì, perché avevamo caratteri differenti. Con me, che sono sempre stato concreto, preferiva essere pragmatico. Con Roby, che aveva lasciato casa quando aveva 14 anni, era sicuramente più affettuoso e presente. Credo che Roberto lo divertisse di più, ma si fidasse più di me, perché ero più costante».
In che senso lo divertiva?
«Intanto in campo: Mancini nasce come un grandissimo centravanti e un giorno, forse per un’illuminazione divina, decide che farà il numero dieci. Lui era l’artista, io il muratore. Anche quando non giocava, Roby aveva sempre delle idee, era fantasioso e sorprendente: io ero sicuramente parecchio più
prevedibile».
Vi chiamavano i gemelli del gol. Siete sempre andati d’accordo?
«Sì, perché ci completiamo a vicenda. Non c’è mai stata gelosia: quando giocavamo in attacco insieme era più importante per noi vincere che segnare. Ci stimavamo, e poi abbiamo vissuto tante cose insieme: Nazionale, coppe, sconfitte, crisi. Questo ha rafforzato il nostro rapporto. Tanto che, quando ci siamo separati, abbiamo continuato a restare amici».
Davvero non avete mai litigato?
«Una sola volta, uno scazzo in allenamento. Per me finiva lì, ma Roby se la prese e non mi parlò per tre giorni. Me la ricordo perché è stata l’unica».
Che Mancini sia fumantino si sa, e si è visto anche di recente, con le sue reazioni poco eleganti al derby milanese.
«Roby è genuino, spontaneo, va dove lo porta il cuore, non è un calcolatore. Una volta De Rossi ha detto: “Volete che sia un esempio per gli altri, o che vinca le partite?”. Abbiamo il sangue nelle vene, ci sta avere reazioni emotive per l’adrenalina. Poi è giusto che siano criticate e sanzionate, come è bello che uno sappia chiedere scusa».
Chi aveva più successo con le ragazze?
«Roberto è più attraente, io dovevo fare leva sulla simpatia. Ma lui non ha mai fatto vita mondana, ero più io quello che andava in discoteca. Poi si è sposato presto, nel ’90, cercava certezze affettive. Sono stato suo testimone di nozze e anche padrino del suo primogenito, Filippo».
Quel matrimonio è da poco finito. Le è dispiaciuto?
«Non saprei cosa dire. Non ci siamo mai frequentati in coppia, con le famiglie. Io mi sono sposato tardi».
Ai tempi della Samp era fidanzato con una ragazza di Cremona, Giovanna, con cui è stato 13 anni ma che alla fine non ha sposato.
«Ero innamorato, ma la mia priorità in quegli anni è sempre stata il calcio, e quasi senza accorgermene ho evitato tutto quello che avrebbe potuto essere una distrazione: matrimonio, figli. Ho iniziato a pensarci solo quando ho smesso, ma a quel punto il sentimento con Giovanna si era spento».
Ha conosciuto sua moglie Cathryn, sudafricana, a Londra.
«Si stupì che non l’avessi baciata la prima sera, da buon italiano. Ma io non sono mai stato aggressivo con le ragazze, e poi sentivo molto la responsabilità di essere giocatore e allenatore del Chelsea, non mi sentivo pronto. Alla fine però è successo».
Non crede nel detto «moglie e buoi dei paesi tuoi»?
«Le differenze culturali ci sono, tutto sta nel non considerarle un problema ma un’opportunità per migliorarsi. Mia moglie è molto britannica: è una donna solida, saldamente legata alla famiglia, piuttosto timida e riservata. Vuole stare a Londra e anch’io mi trovo bene a vivere in un Paese dove il senso civico è più alto che da noi. E poi le scuole inglesi danno opportunità eccezionali per le mie due figlie».
Ha cercato il terzo, un maschio magari?
«Sono felicissimo e ringrazio il Signore per avermi dato due figlie: con loro ho imparato a relazionarmi meglio con il genere femminile, prima il mio rapporto con le donne era abbastanza superficiale».
In che modo lo ha imparato?
«Grazie a questo amore incondizionato che ho nei loro confronti. Eccedo nelle manifestazioni d’affetto, anche fisiche, forse per compensare il fatto di averne ricevuto poco nella mia famiglia d’origine. Mi dispiace un po’ che non parlino bene l’italiano, ma lo impareranno quando vorranno un fidanzatino italiano».
Sua moglie sa di essere molto invidiata?
«Guardi che tra i due il fortunato sono io. Non sono poi così speciale: sono spesso sotto stress, ho forti oscillazioni, up and down. Il calcio, giocarlo, consuma: è una centrifuga di cui diventi dipendente. Io, per una serie di circostanze, ne sono uscito, mi sono disintossicato. Ho scelto la Tv e ho capito che posso essere felice anche fuori, ma è stata la strada più facile».
Che cosa intende?
«Rimanere “in trincea”, ad allenare per esempio, è più faticoso. Girare città diverse, affrontare sconfitte, essere cacciati, vedere la tua famiglia soffrire: la mia scelta l’ho fatta soprattutto per proteggere i miei cari. E poi il calcio italiano non è cristallino, non sai mai se vinci o perdi per merito, come dimostrano anche le inchieste degli ultimi tempi. Detto questo, certo mi manca il rapporto con la squadra, i 90 minuti della partita, essere leader di un gruppo».
Esclude di tornare nell’arena?
«Spero un giorno di farlo da dirigente sportivo, magari con Mancini allenatore. Ci vedremo il 22 febbraio per un’occasione emozionante, che lo sarà ancora di più perché la vivremo insieme: entreremo nella Hall of Fame del calcio, lui come allenatore, io come calciatore».
Non conta di più il riconoscimento da calciatore?
«Basta essere lì, tra quelli che hanno fatto qualcosa per lo sport: con la crisi di mezza età, ti viene la paura che la gente si ricordi di te solo perché hai tirato dei calci al pallone».
Le viene il dubbio di non aver fatto qualcosa di importante? Regalare emozioni alla gente ha il suo valore.
«Certo, quella è una grande cosa, e spero di avere inciso nella vita di tanti giovani. Cerco di pensarlo anche io, di convincermi. Ma alla fine noi calciatori siamo come gli attori, uomini di spettacolo. Sono altri quelli che fanno cose importanti».