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 2016  febbraio 12 Venerdì calendario

«HO IMPARATO A RACCONTARE DA NONNO “PEPERONCINO”, POI FRANCO PARENTI MI HA CAMBIATO LA VITA. E ADESSO RIFACCIO I QUADRI PERDUTI DI CHAGALL»

[Dario Fo ] –
Fosse qui la buonanima dello Zio Trombone, perché così lo chiamavano tutti per la passione con cui buttava fiato nell’ottone, sarebbe proprio contento di vedere cosa ne è stato di quel nipotino al quale, nei primissimi Anni 30, regalò «un’enorme scatola di colori a tempera, un mazzo di pennelli e dei cartoncini su cui dipingere».
Avvolto in un grembiulone color panna, i barattolini posati su uno sgabello, le dita macchiate di blu, il bambinetto che compirà i novant’anni il mese prossimo è dalle sette e mezzo di mattina affaccendato a finire un quadro che gli serve per il prossimo spettacolo teatrale. Circondato da decine e decine di altri dipinti: «Credo di averne fatti almeno cinquemila». Molti sono accasati in un grande appartamento al piano di sotto. Altri un po’ qua un po’ là: «La Svezia si è offerta di prenderli tutti per farci un museo dedicato per intero a me. E proprio oggi è qui il direttore di un grande museo di New York per scegliere delle opere da esporre in una personale». E l’Italia? Nessuna offerta? «Boh…»
Era sicuro, lo Zio Trombone, che il piccolo Dario Fo sarebbe diventato un gran pittore. E mise subito in cornice quel primo disegno fatto coi colori nuovi che aveva «qualcosa di Kandinsky». Ma certo non avrebbe mai potuto immaginare che il nipote sarebbe finito un giorno nell’elenco del Telegraph dei «geni viventi». Men che meno che, pur seguitando a considerarsi «un pittore prestato al teatro», avrebbe addirittura avuto il Nobel per la letteratura. Dettaglio sfuggito perfino alla maga che moltissimo tempo fa, come avrebbe raccontato Jacopo Fo, predisse alla madre dell’artista che uno dei suoi figli «sarebbe diventato famoso in tutto il mondo».
Alla vigilia del compleanno, però, i ricordi di Dario Fo vanno soprattutto a quel nonno materno che lui stesso fissò in un ritratto quando aveva undici anni. Una specie di Omero familiare che coltivava e vendeva frutta e verdura e che lo portò a scoprire il mondo, o almeno la Lomellina, «su un enorme carro a due ruote, tirato da un cavallo grandissimo, come quelli della Gondrand, dove trasportava una montagna di prodotti del suo orto e del suo frutteto. Un uomo che, come raccontò anni fa ne Il paese dei mezarat, fu il suo primo maestro nell’arte dei «frottolanti».
Uno showman che «gettando in aria e riprendendo al volo da autentico giocoliere legumi e verdure» scaraventava allegro addosso alle massaie una «tempesta di allusioni sessuali, spesso oscene» facendo «trombolare zucchini, enormi carote e cetrioli tempestati di bernoccoli... Il tutto provocando grasse risate con esplosioni in falsetto e vere e proprie crisi di ridarola».
«Si chiamava Bristìn. Un soprannome che significa “seme di peperoncino”. Mi insegnò lui a raccontare. Sapeva un mucchio di cose. Non che fosse uno stregone, ma lo chiamavano perfino le università. “Bristìn, come si fa a fare in modo che questa pianta che dà frutti bianchi li dia rossi?” Lui spiegava: “Adesso li faccio venire rossi, neri, gialli e marroni. Pensate sia impossibile? Venite a casa mia, a Sartirana, e vedrete”. E lì infatti, in un campo enorme e bellissimo vicino al canale dove aveva un bosco di frutti, c’era un albero con le prugne di tutti i colori. Innesti. Diceva: “Pensate sia un mago? Bisogna saper parlare, alle piante”. E lui ci parlava».
«Mio padre e mia madre, sottovoce, dicevano: “E’ pazzo! Pazzo!” Aveva un rapporto incredibile con la natura. Nel pieno di una giornata bellissima, diceva: “E tu pensi che questo sole duri? Tra un poco viene giù il diluvio!” Era come avesse parlato direttamente col sole. E tirava subito su la tenda sul carro». Ma poi pioveva davvero? «Certo. Non sbagliava mai. Diceva che “annusava il vento”».
Aveva settant’anni allora, il nonno Bristìn. Venti meno dello scrittore oggi. Ma al piccolo Dario sembrava vecchissimo… «A un certo punto diventò anche cieco. Come i grandi fabulatori. La sua vita erano le storie che narrava. Girava per le contrade e raccontava a tutti cosa succedeva nel resto del mondo. Sempre in giacca. Sempre. E dovevi vedere quando faceva il bagno a frutta e verdura».
Il bagno? «Buttava tutto dentro in una grande vasca e poi buttava noi bambini a raccoglierla, sciacquarla e riportarla a riva. Il divertimento! Aveva un rapporto tutto “suo” con la terra. La capiva. La mangiava». Ma dai! «Giuro. Ne prendeva in mano una manciata, se la portava alla bocca e la masticava. Per capirla. Un po’ la sputava, un po’ la mandava giù. “Nonno! Mangi la terra!” “E allora? Noi veniamo dalla terra… Cosa vuoi che sia per uno fatto di terra mangiarsi sua madre!” Aveva nove figli e quarantacinque nipoti. Quando ci si trovava tutti insieme era un bailamme! E mancavano i Fo partiti per l’America o il Venezuela…» .
Da dove viene questo cognome così corto? «Dai longobardi. Il fiume Padus diventò Po, noi della famiglia Fagus, faggio, siamo diventati Fo. È un titolo d’onore. Il faggio è l’unico albero non conifero che cresce anche a tremila metri d’altezza». Dario Fo ha scritto che oltre al nonno Bristìn deve tutto alla mamma, Pina Rota, che «incoraggiò i figli in ogni maniera dando loro una spaventosa dose di fiducia in se stessi».
«Non è che ci regalasse la sua fiducia così… Ci insegnava a crescere. I suoi ammonimenti parevano presi dalla Bibbia: “rispetta gli altri”, “non essere superbo”, “non prendere in giro i deboli”... Era il Vangelo, per noi». Cattolica? «Non più di tanto». E quindi da dove viene questo rapporto con la religione che poi sfocia in opere come «Mistero buffo»? «Beh, a catechismo ci andavo. E poi l’ho studiata. Quando mi sono reso conto che era alla base della nostra società». Soprattutto quella popolare.
Ne ha scritto anche nel Nuovo manuale minimo dell’attore: «Franca mi raccontava che durante la Settimana santa immancabilmente, all’improvviso, apparivano, giungendo da ogni paese, attori amatoriali che da anni interpretavano lo stesso ruolo. C’erano le tre Marie, che si presentavano già indossando i costumi dei loro personaggi, i cosiddetti “chiodatori”, cioè gli incaricati alla messa in croce del Figlio di Dio, giovani acrobati già truccati da angeli con tanto di ali, pronti a scendere volando dall’alto appesi a fili che attraversavano tutta la scena».

Una scelta di sopravvivenza. Come si poteva non sorriderne? Eppure, Dario Fo ha sempre rifiutato l’etichetta di anticlericale. Lo ribadì dopo il Nobel: «E lo dimostra il mio teatro, a partire da Mistero buffo, che irride a Bonifacio VIII, al potere temporale, non certo a chi crede in Dio». Così come rigetta l’accusa d’essere stato «un ragazzo di Salò». «Non fu una ragazzata. Fu una fuga. I giovani delle parti nostre venivano rastrellati e mandati in Germania a lavorare. Voleva dire non tornar più. Offrirsi volontari per entrare tra i paracadutisti che già non esistevano più, come feci io, significava guadagnar tempo. Mesi di addestramento… Intanto hai voglia se non finiva la guerra!» Quindi fu una furbata? «Una scelta di sopravvivenza. Infatti non feci neppure un lancio da un aeroplano. Solo dalle torri. Legato a un cavo che dava degli strappi terribili. Non c’erano neanche più aerei. Dopo un po’, sono andato sulle montagne. Tanto è vero che a guerra finita nessuno mi ha rinfacciato niente. Fu solo molti anni dopo che, pretestuosamente, tirarono fuori questa storia. Una polemica ignobile».

L’ordine di Franco Parenti. Al teatro arrivò perché deluso dalla pittura: «A un certo punto mi sembrò non avesse più senso. L’idea di dover diventare schiavo di qualche mercante che decideva a capriccio se ero bravo o no… Stavo male. Vomitavo come una donna incinta». Meglio il teatro. Primo palcoscenico, i treni dei pendolari dove come il Bristìn travolgeva tutti improvvisando. Poi una serata in un teatro di periferia con Franco Parenti che a un certo punto gli disse: «Forza, vieni su, fai vedere cosa sai fare!» Un po’ di gavetta nell’avanspettacolo e nel 1953 debuttava con «Il dito dell’occhio». Prima commedia, prime censure.
Ed ecco l’incontro con Franca Rame. Avrebbe scritto Natalia Aspesi: lui era «uno spilungone col naso grosso», lei « una specie di Marilyn Monroe ancora più alta e splendente». «Era bellissima», ricorda Dario, «Un fascino straordinario». Se n’è andata due anni e mezzo fa. «Se mi manca? Non ho trovato ancora la parola giusta per spiegare il vuoto. Abbiamo passato tutta la vita insieme. Lei era la maestra. Veniva da una famiglia che faceva la commedia dell’arte da secoli. Sapeva tutto del teatro. Individuava un pubblico in cinque minuti. Dalla prima risata. Non sbagliava un giudizio. Quando scrivevamo mi metteva in crisi: “questo non va bene… Qui dovresti…” E aveva sempre ragione. Sempre».
C’è chi ha scritto che avrebbero dovuto dare il Nobel anche a lei. «Infatti nella motivazione, a Stoccolma, lo riconobbero». Si scuote e urla a qualcuna dell’«harem» di giovani che quotidianamente lo assiste: «Per favore! Ragazze! Prendete un attimo la patacca del Nobel. Fatemi vedere… No, qui non c’è. Ma lo dissero, quel giorno, che era anche di Franca. Perché i testi teatrali venivano fuori insieme, sera dopo sera, sul palco».
È la tesi con cui ha polemizzato contro chi diceva che un Nobel così non aveva senso perché non c’era niente di davvero «scritto». «Si può dire la stessa cosa di Shakespeare. O di Ruzante. Di Molière. Anche i loro erano “canovacci”. Ripetuti, rivisti, masticati sera dopo sera, cambiando ogni volta, sul palcoscenico…»
Gli pesa ancora, anche se rifiuta di ammetterlo, la delusione per come un pezzo d’Italia non prese sul serio il suo Nobel. «Ma figurati… Però è vero che quando qualcuno vince un Nobel, in tutti gli altri paesi, c’è un sussulto di orgoglio. Per un anno il più grande ce l’hai tu. I presidenti ti spalancano le porte… Mica come qua». Prodi non mandò forse un messaggio pieno di orgoglio? E così tanti altri… «Sì, ma i biglietti non contano un cazzo. Li scrivono le segretarie… Io so che l’anno dopo, quando vinse il mio amico José Saramago, tutto il Portogallo era in festa. Una cosa mai vista! Un tripudio! Qui da noi invece… La gente per strada sì, mi disse che mi voleva bene. Si fermò un tram e la gente scese per farmi festa. Ma non ricordo un invito non dico del Quirinale ma manco del Comune di Milano».

La mostra a Brescia. Eppure Gabriele Albertini, che era sindaco, disse che la città era fiera…«Bugiardo e ipocrita! Cosa fai, una dichiarazione all’Ansa? Spalanca le porte, piuttosto! Il fatto è che io ero quello cui avevano sbarrato le porte per anni. Quello che si era messo a fare un teatro diverso, politico. Quello cui avevano tolto la palazzina Liberty. Immagina il fastidio che diede quel premio immenso a me! Non avevano neppure idea del mio successo all’estero».
Spiega che forse no, oggi non ci sono più quattro o cinquecento sale teatrali dove rappresentino commedie sue: «Sono un po’ calate». Resta però l’autore vivente più rappresentato al mondo: «Dall’America alla Cina…» E uno dei più prolifici. Nel decennio in cui furono estromessi dalle sale, raccontò tempo fa, lui e Franca scrissero insieme «almeno venticinque commedie. Tre all’anno, a stare stretti». Poi, ovvio, ha rallentato. Ma continua. Come con l’ultima dedicata alla storia dei Seminole: «Popolo straordinario di pellirosse, che riuscì a sopravvivere a tutti gli invasori: spagnoli, francesi, inglesi, americani…». Per portarla in scena a Bologna ha dipinto una trentina di quadri. Un rullo compressore.
Insomma, a novant’anni continua far teatro, dipingere, scrivere libri: «Non hai idea di quante cose faccia. Tempo fa mi chiama il direttore del museo di Brescia. Disperato: “Devo fare una mostra su Chagall ma mi hanno mandato solo dodici quadri. Belli, ma non posso fare una mostra con dodici quadri! So che ami Chagall, vieni a fare una conferenza?” Gli dico: faccio di più! Vengo, facciamo una cosa a teatro ma siccome conosco tante storie della sua vita, posso rifare dei quadri che aveva fatto e sono andati perduti. Esistono delle foto, le ho. Ne faccio una quarantina. Un successo! I battitori d’asta li volevano tutti. E li han venduti tutti».
Incontenibile: «Negli ultimi dieci anni ho scritto una trentina di libri. Venduti bene, sai? Alcuni bestseller. Il “Nuovo manuale minimo dell’attore” con Franca. “La figlia del Papa”. “C’è un re pazzo in Danimarca”. “Razza di zingaro”. Lavoro da dieci a dodici ore al giorno. Senza sosta. Quando poi faccio teatro…» E tiene botta anche sul palcoscenico? «Sicuro». A farla breve… «Mettiamola così: non trovo il tempo per invecchiare…»