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 2016  febbraio 10 Mercoledì calendario

LA MONTAGNA SPOPOLATA RIVIVE CON GLI IMMIGRATI

La montagna che perde abitanti scopre negli immigrati una nuova ricchezza (di cultura, partecipazione e lavoro) che, se ben accompagnata, potrà contribuire al riscatto di un terra ormai da molti considerata perduta. E i numeri, diffusi ieri al Senato, confermano una tendenza che, fino a pochi anni fa pareva irreversibile e che, invece, oggi ritorna in discussione, anche alla luce delle nuove ondate migratorie che stanno interessando l’Italia. Dunque, secondo la ricerca elaborata da Trentino school of management (Tsm) e dal Centro Europa ricerche (Cer), negli ultimi sessant’anni, mentre la popolazione italiana è cresciuta di circa 12 milioni di persone, la montagna ne ha perse 900mila. Tutta la crescita si è concentrata in pianura (8,8 milioni di residenti) e collina (circa 4 milioni). Eppure, all’epoca dell’ultimo Censimento del 2011, i comuni montani rappresentavano ancora il 43,7% del totale dei comuni italiani, nonostante che, in poco più di mezzo secolo, la popolazione montana sia passata dal 41,8% rispetto a quella di pianura del 1951 al 26% attuale.
In queste condizioni risulta piuttosto complicato che la montagna diventi un «nodo strategico» e una «risorsa su cui puntare per lo sviluppo del sistema paese», come auspicato ieri dal presidente del Senato, Pietro Grasso. Difficile ma non impossibile, come documentano i ricercatori e gli esperti che, dal 2009, si riuniscono intorno alla rivista online Dislivelli.eu, punto di osservazione privilegiato di questi nuovi montanari, tra cui anche molti stranieri. Nei 1.749 comuni compresi nell’area territoriale della Convenzione delle Alpi, gli immigrati con residenza stabile sono circa 350mila, mentre si arriva a quasi 900mila se si contano tutti i comuni di montagna, anche delle regioni appenniniche.
«Quello dei nuovi montanari – conferma Maurizio Dematteis, direttore di Dislivelli. eu – è davvero un fenomeno che noi abbiamo studiato con due ricerche nel 2011 e nel 2013. In quelle occasioni abbiamo incontrato diverse comunità immigrate residenti, ben integrate e attive nel terri- torio. Quella dei migranti di oggi è una situazione diversa, al momento più di carattere emergenziale, che però, anche alla luce delle buone pratiche messe in atto in tanti paesi, può rappresentare una nuova opportunità di crescita. Ma le prime a doversi accorgere di questa ricchezza sono le istituzioni. Prima si rendono conto che la teoria urbano-centrica non regge più e meglio è. Altrimenti la montagna resterà, stavolta sì, una terra perduta».
Ancora una volta, è necessario partire dai numeri per inquadrare la situazione. «Sulle Alpi – ricorda il sociologo Andrea Membretti – sono immigrati il 90% dei pastori, soprattutto kosovari e macedoni, così come sono stranieri gran parte dei boscaioli e i muretti a secco ormai li sanno fare quasi solo gli albanesi. Quelle della montagna sono professioni sempre più etnicizzate, che gli italiani non vogliono più imparare e che stanno creando le condizioni affinché questi “montanari per forza” diventino “montanari per scelta”».
Un po’ quello che sta succedendo in tanti paesi, anche piccolissimi, dove la presenza degli immigrati ha consentito la sopravvivenza dei servizi essenziali. A Lemie, comune di 191 abitanti nelle Valli di Lanzo, la scuola quest’anno ha riaperto «grazie alle famiglie di rifugiati con bambini», sottolinea Sergio Durando, direttore Migrantes della Conferenza episcopale di Piemonte e Valle d’Aosta. Fin da subito, le parrocchie sono state in prima fila nell’accoglienza dei richiedenti asilo, anticipando anche l’intervento delle istituzioni. «A Lanzo e dintorni – prosegue Durando – un gruppo di cittadini sta ragionando su un progetto di accoglienza, che comprenda anche percorsi di formazione e lavoro e si sono rivolti alla locale casa per anziani per creare nuova occupazione a favore delle donne».
Anche la Diaconia Valdese si è attivata e a Villar Pellice accoglie settanta richiedenti asilo nell’ex-albergo Crumiere. A Pettinengo, 1.500 abitanti a 800 metri di altezza in provincia di Biella, l’ostilità iniziale ha lasciato spazio all’accoglienza di settanta profughi, grazie al lavoro dell’associazione Pacefuturo onlus, nata nel 2003 al monastero di Bose.