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 2016  febbraio 10 Mercoledì calendario

NEL KARAOKE STORICO DI CONTI SANREMO LONTANO DAL NUOVO

Sir Elton John ha solo cantato. Niente arcobaleno sul cielo grigio della Riviera (il cui spot festivaliero esalta la famiglia tradizionale). Niente endorsement sulle unioni civili. Solo un superospite per rinvigorire la serata, prendi i soldi e scappa. E dire che qualcuno paventava da Elton, arcistar delle nozze gay, brividi di trasgressione. Nothing.
Ma prima... L’omaggio ai vincitori del Festival, da Nilla Pizzi ai tre tenorini del Volo. Ci stava. Una bella e semplice idea (cielo, i Jalisse e quanti dispersi!), un karaoke storico e collettivo. Il Techetecheté di Sanremo non esclude nessuno, non ha barriere all’ingresso, o almeno questa è l’impressione che vuole dare. Il red carpet con autopresentazione (registrato e un po’ lungo). Ci stava. Anche se il tappeto rosso è nato per le grandi star. L’omaggio a David Bowie, pace all’anima sua, ci stava per modo di dire. Qui siamo a Sanremo, il feudo del nazionalpopolare, il rock maledetto è altra cosa!
Poi s’inizia. Si conferma subito la chiave pop con cui Conti approccia qualsiasi evento tv, andando sul semplice e sull’ecumenico sperando che funzioni. Fa il suo ingresso in una scenografia futurista e fredda, l’Ariston trasformato in astronave, uno stile di allestimento simile a quello visto spesso nei talent con le grafiche che coprono le quinte della scena. La valletta Madalina Ghenea copre il suo ruolo senza guizzi, ma a lei non si può chiedere di più. Qualcosa di più ci si aspetta invece da Virginia Raffaele anche se nei panni di Sabrina Ferilli non è all’altezza della sua grande bravura. C’è anche il valletto Garko, figlio dell’immaginario queer inventato da Tarallo & Losito per le fiction Mediaset. Presenta peggio di come recita. Le trovate di scrittura non abbondano, si pensa più a smussare che a pungolare.
Giusto così: Conti è l’alter ego del direttore Gianka Leone (moriremo democristiani?), è l’autocrate rassicurante, da pacca sulle spalle (chi più spalla di lui?), the quiet man, l’acqua cheta di cui conviene essere amici. Quello di quest’anno è un Sanremo neoclassico, identitario, volutamente e forzatamente legato a una storia e a una tradizione.
Anche questa volta, Conti si conferma un conduttore «di servizio»: fornisce indicazioni stringate su come procedere, sottolinea ed enfatizza l’ovvio, sposta i microfoni, scandisce il ritmo, chiama le standing ovation. Efficiente, ma senza lasciare davvero l’impronta, senza riuscire a entrare (con qualche idea, o qualche sbaglio) nella storia sanremese continuamente evocata.
Il festival è lo specchio in cui ci rimiriamo. Se non ci fosse un po’ di Sanremo in ciascuno di noi, non saremmo qui ogni anno a raccontarci la favola di Sanremo. Che finge di essere un festival della canzone ma, in realtà, è l’ultimo rito collettivo che ci è rimasto. Che è un cercato, infantile stordimento di fronte alle storture del mondo (dal dramma dei migranti al crollo della Borsa), che esiste da 65 anni ma che persiste nelle nostre teste a ricordarci che siamo fatti così, sanremici, senza scampo.
Ma cos’è il Sanremo che è in noi? È una consolazione, sia che se ne parli bene o male. È il kitsch e il trash che ci illudiamo di cancellare dai nostri atteggiamenti pubblici.
Tutto torna a Sanremo. Tornano molti dei concorrenti, già vincitori o solo di passaggio. Torna la Pausini sul palco che l’ha lanciata, e che occupa a lungo come ospite. Da sola riempie la scena, non ha bisogno di molto contorno per funzionare. Ci sono Aldo Giovanni e Giacomo, e per sicurezza tornano al vecchio repertorio. Torna Elton John: canta e parla di paternità felice e di beneficenza cristiana. Ma tra tutti questi ritorni vorticosi, accanto al classico manca qualcosa di nuovo, che connetta l’Ariston non solo e non tanto alla società, ma almeno alla tv contemporanea.
Comunque, tranquilli: sul Festival di Sanremo e su Carlo Conti, libertà di coscienza.