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 2016  febbraio 10 Mercoledì calendario

MA CHI GLIEL’HA FATTO FARE

[Massimo Giannini]
La prima mutazione avvenne in sala parto giovedì 28 novembre del 1991. Dietro quella decisione di assistere alla nascita del primo figlio c’era un grave senso di colpa misto alla sua passione per la medicina. Per capire occorre fare un passo indietro. Anzi più di uno. Massimo Giannini aveva appena 18 anni quando conobbe Antonella. Un amorazzo giovanile? Macché: quella splendida compagna della comitiva di quartiere sarebbe diventata la compagna della sua vita. Per sempre. E senza mai una crisi, uno screzio. Tranne una volta. Una volta sola, 24 anni fa. Mica un sassolino nelle placide acque di uno stagno, però: un macigno. Sentite qua. Alla fine del marzo 1991 Repubblica spedisce Giannini, caposervizio economia, ad Amsterdam per seguire una convention di AT&T. È la settimana di Pasqua, Massimo porta con sé Antonella: “Due giorni di lavoro e due giorni tutti per noi”, le dice. Sabato 30 marzo la giovane coppia è in albergo, si prepara per una cenetta a lume di candela in uno dei ristoranti lungo il Grachtengordel, la rete dei canali della capitale olandese. Antonella ha una strana luce negli occhi, porge al marito un uovo di Pasqua. “Aprilo”, gli dice con un sorriso allusivo. Ecco la sorpresa: due scarpine gialle da neonato fatte a maglia. Massimo impallidisce. Non avrebbe mai voluto sposarsi e si è sposato. Non avrebbe mai voluto figli ed ecco un figlio. Pensava che ogni legame, burocratico o di fatto, soffocasse le proprie libertà. Un trauma. “È come se mi avesse annunciato la morte di un parente”, ricorda adesso con un’espressione brutta e schietta. Non parla per tre giorni. Il resto della gravidanza e la pazienza di Antonella lo aiutano a superare lo shock. Fino alla decisione di assistere al parto. Quando gli mettono in braccio il piccolo Valerio ancora sporco e agitato, Massimo subisce quella che oggi definisce “una svolta meravigliosa” che lo condurrà a cercare anche un secondo figlio, anzi una figlia – “Volevo fortemente una femmina” – che oggi ha diciannove anni e si chiama Flavia.
La seconda mutazione – che alla fine di questo articolo spiegherà lo stesso Giannini – risale all’ottobre del 1997, nella stanza dell’ospedale romano Gemelli, dove suo padre stava attraversando l’ultima tappa di un lungo calvario. Massimo trascorre giornate e anche nottate a fianco del genitore che dopo appena 66 anni di vita stava per lasciare questo mondo. Ore di dolore e di confessioni, spesso mute, fra il padre e l’unico figlio. Un legame fatto di confronti e di scontri ma viscerale, affettuoso, intenso. Mario, dirigente del Banco di Santo Spirito, sposato con Giovanna, maestra elementare, entrambi con profonde radici cattoliche. Luigi, il nonno paterno di Massimo, era impiegato in Vaticano e – ligio con la sua sposa al principio “non lo fo per piacer mio ma per dare figli a Dio” – di figli ne aveva dieci. Il nonno materno, Orlando Lefebvre, un quarto di nobiltà, era presidente delle Acli (Associazione cristiana lavoratori italiani) di Roma.
I primi conflitti si accesero sulla politica. E persino sull’abbigliamento troppo ‘politico’. I genitori votavano Dc e leggevano Famiglia Cristiana, Massimo quando ancora non era in età di voto leggeva Lotta Continua, vestiva con l’eskimo e portava a tracolla la borsa della Tolfa. Iscritto d’autorità al liceo classico San Giuseppe Calasanzio, guidò la prima rivolta in un istituto gestito dai padri scolopi: assieme al compagno di banco Marco Patucchi – anch’egli futuro redattore economico di Repubblica – proclamò una storica giornata di sciopero contro la “mancanza di dialogo da parte degli insegnanti”. In particolare la sommossa era diretta verso il professore di italiano e latino, l’istriano Stipcevich, vero terrore della scuola, e verso il professore di filosofia e storia, Maltese, apprezzato ma severissimo. A prezzo di una convocazione dei genitori e di una sospensione, i due ribelli ottennero però che un dialogo più fluente scorresse fra il corpo docente e gli studenti.
Dialogo invece sempre fluido e reciprocamente rispettoso e affettuoso, pur con qualche piccola tempesta, fra padre e figlio. Soprattutto quando si affacciava qualche scelta importante. Come queste, per esempio: indossare o no il camice bianco di medico chirurgo? O calzare gli scarpini bullonati da calciatore? Due grandi passioni giovanili prima ancora che il sacro fuoco del giornalismo bruciasse ogni altra tentazione. La medicina, soprattutto la chirurgia, l’origine e lo sviluppo delle malattie, nessuna ripulsa per il sangue: i compagni di comitiva (e tuttora il nomignolo gli è rimasto appiccicato) lo chiamavano ‘il dottore’. Rinunciò a imbarcarsi negli studi di medicina quando conobbe la lunghezza del tirocinio.
Intanto giocava a calcio. E come giocava! Un campioncino in erba. Il pallone lo aiutò a vincere la timidezza, il riconoscimento del talento incise sull’autostima. Era il fenomeno dei tornei interscolastici, perciò quando a 14 anni fu arruolato nei Giovanissimi della Roma, gli fu permesso di uscire da scuola un’ora prima per andare ad allenarsi al campo San Tarcisio di Ponte Marconi. Era un goleador, unica punta della squadra. Alto ma gracilino, per arricchire il tono muscolare lo costringevano a correre per ore con indosso una maglia piombata. Un ritmo massacrante che dopo sei mesi lo convinse a dirottare sulla Petriana, squadra meno pretenziosa dove continuò a brillare. Tanto che, a 16 anni, il Milan voleva portarselo via, offrendogli alloggio, vitto e studi nella foresteria di Milanello, dove avrebbe potuto incrociare Rivera, Capello, Baresi e magari giocare qualche partitella con loro. Al termine di una lunga riunione di famiglia, papà Mario concluse come di consueto: “Massimo, adesso decidi tu. Tua madre e io saremo sempre al tuo fianco”. Il ragazzo adorava il calcio come gioco, ma si spaventò all’idea di doverne fare una definitiva professione. Rifiutò. Meglio la Petriana, anche se il suo allenatore, Ranucci, era furibondo: “Sei un pazzo, sei un cretino!”. I successivi interessamenti del Torino e della Sampdoria durarono un’alzata di spalle. Finché, diciottenne, ala sinistra e golden boy nell’under 21, entrando in scivolata su un avversario si frantumò una gamba: rottura del crociato anteriore e posteriore, del collaterale e di un menisco. Addio pallone. È qui che comincia la super carriera di giornalista?
Macché, siamo ancora lontani. Oddio, la voglia c’era. Quando nacque Repubblica, nel 1976, Massimo, quattordicenne, era già animato – come abbiamo visto – da una forte passione per la politica e per la scrittura. S’innamorò a prima vista del nuovo quotidiano, affascinato in particolare dalla sua campagna di promozione: “O credete ai tg o credete alla Repubblica“, “O credete alle versioni ufficiali o credete alla Repubblica”. E vincendo la timidezza scrisse una bella lettera a Scalfari: “Caro direttore, finito il liceo classico mi piacerebbe tanto collaborare con il suo giornale, qualora si aprisse un’opportunità”. Il cuore gli balzò a mille quando, un mese dopo, suo padre gli consegnò una busta che recava sul retro l’intestazione ‘La Repubblica’. La lettera, firmata dal segretario di redazione Rolando Montesperelli, gli comunicava i ringraziamenti del direttore e il consiglio di “rivolgersi alla Federazione degli editori o della stampa per ricevere utili consigli”.
Non se ne parlò più per tanto tempo. Massimo pensò a studiare, si laureò in giurisprudenza. Sette anni dopo quella lettera, nel 1983, Mario Giannini parlò del figlio e del suo vivo interesse per il giornalismo con l’amico Ettore Sanzò, cronista politico della Nazione. “Mandamelo”, gli rispose Sanzò. Ecco la testata sulla quale Massimo Giannini mise la sua prima firma: Assistampa, un’agenzia che si occupava di assicurazioni. Il direttore, Raffaele Postiglione, napoletano verace, lo prese in simpatia: “Vieni da noi, ti facciamo palestra”. Gratis? Naturalmente. Ma dopo qualche mese giunse anche il primo stipendio: 125mila lire. E l’anno dopo il raddoppio: 250mila. A Massimo, però, lungimirante, interessava soprattutto stabilire contatti, amicizie, vie d’uscita. O meglio, di entrata verso qualche giornale importante. Con Repubblica sempre in cima ai suoi pensieri. Nel 1985 Marco Fabio Rinforzi lo chiamò a collaborare al nascente ‘Economia & Tributi’, supplemento del Sole 24 Ore, che dopo tre mesi lo assume ma con un contratto da impiegato poligrafico. Poi entrò in contatto con Eraldo Gaffino, capo dell’economia di Repubblica e gli si incollò come una cozza allo scoglio.
1986: approvata la legge dei fondi comuni, i quotidiani ampliano i loro settori economici. Il sabato, Scalfari aggiunge alla foliazione ‘Settimana Finanziaria’ per la quale Gaffino ha bisogno di nuovi collaboratori. Il primo a fare tana è il velocissimo Giannini che però non può firmare col proprio nome perché già scrive per Il Sole 24 Ore. Eraldo Gaffino gli trova uno pseudonimo: Alfredo Fangio, l’anagramma del proprio nome.
1988: Elena Polidori va in maternità. È un momento d’oro per Repubblica che oramai se la batte da pari a pari con il Corriere della Sera. Sostituzione temporanea? No, un nuovo articolo 1 per l’economia. E chi, se non il bravo Giannini che finalmente potrà togliersi la maschera di Alfredo Fangio? Gli tremano le gambe quando Gaffino lo introduce nel tempio di Scalfari con le pareti a vetri che affacciano su piazza Indipendenza. “Noi l’assumiamo come praticante”, gli dice freddamente il fondatore. Giannini rimane perplesso: “Veramente io avevo già con il Sole 24 Ore un contratto da poligrafico”. Secca la replica: “Da noi non funziona così”. Il giovane, 26 anni, non ribatte. Ci mancherebbe. Estrae da una tasca della giacca una lettera sgualcita e la porge al suo nuovo direttore: “Questa è la risposta che lei mi diede dodici anni fa. La ringrazio per avermi aspettato”.
Realizzato il sogno, Massimo brucia le tappe. Nel 1990 è vice caposervizio, quattro anni dopo, poco più che trentenne, è caporedattore dell’economia. Ma già morde il freno, gli piace scrivere più che dirigere il desk. E quando nel 1995 Sergio Luciano, suo ex capo passato alla Stampa, gli spiana la strada verso il quotidiano torinese con il ruolo di inviato, bussa alla porta di Scalfari più tremante di quando, sette anni prima, vi era entrato travestito da Alfredo Fangio. Temeva che ‘Barbapapà’ gli riservasse lo stesso trattamento toccato a Sergio Luciano, al quale rispose stizzito: “Vai, vai pure con i guitti”. Invece no, stavolta Scalfari si mostrò non proprio contento ma rispettoso.
In principio Giannini pensò di avere preso una bella fregatura, perché Ezio Mauro, che lo aveva voluto, dopo neanche un anno fece il viaggio inverso, approdando proprio a Repubblica al posto di Scalfari. Con una promessa: “Appena posso ti chiamo”. Alla direzione della Stampa si insediò Carlo Rossella, che faceva più salotto che giornale (era Dario Cresto Dina, caporedattore, il vero motore), ma ugualmente quella torinese si rivelò una parentesi divertente e proficua. Era una redazione di grandi talenti, da Maltese a Ceccarelli, da Guzzanti a Gramellini, e di fervida fantasia, nella quale Giannini assieme ad Augusto Minzolini tenevano le redini della politica e dell’economia. A Gianni Agnelli piaceva quel giovane di bell’aspetto, elegante e compito, brillante nella professione. Se scendeva a Roma lo invitava a prendere un caffè, a volte lo sollecitava a salire a Torino. Voleva che gli riferisse dei suoi incontri con i politici e con i potenti della finanza. Si divertì un mondo quando Massimo gli raccontò (nel 1992, era ancora a Repubblica) del suo primo incontro con Mario Draghi. Avvenne nello spogliatoio del Roman Sport Center, una struttura con palestra e fitness nel parcheggio sotterraneo di Villa Borghese. Il giornalista era nudo, Draghi in mutande. Giannini lo avvicinò senza presentarsi, gli chiese un parere sulle privatizzazioni appena varate dal governo Amato di cui l’allora direttore generale del Tesoro era stato regista alla pari con il presidente del Consiglio. Draghi parlò liberamente come può accadere fra due soci dello stesso club e impallidì quando alla fine della conversazione il giornalista si presentò con il proprio nome. “Mi raccomando”, disse a mani giunte. La mattina seguente, il retroscena dell’operazione apparve naturalmente sulle pagine del quotidiano di Scalfari. A un successivo incontro Draghi, un po’ teatrale, esclamò: “Lei mi ha rovinato la vita!”.
Certo, gratificazioni, libertà d’espressione, un ambiente simpatico, il mito di Repubblica, però, non era stato minimamente scalfito. E quando nel 1998 Ezio Mauro mantenne la parola richiamandolo a Piazza Indipendenza – stavolta come inviato editorialista – Massimo ne fu lusingato e corse dietro la sua vecchia scrivania.
I successivi 16 anni in piazza Indipendenza elevarono la firma di Giannini fra le più prestigiose e autorevoli del panorama giornalistico italiano. Dalla corsa alla moneta unica alla battaglia contro Berlusconi, in prima pagina c’era sempre lui, ‘il dottore’, il calciatore mancato. Con l’aggiunta di tre anni alla guida del settore politico (“Non so come sostituire Geremicca, ti chiedo un sacrificio, un anno non di più”, lo convinse Mauro). Vice direttore dal 2004, direttore del supplemento ‘Affari & Finanza’ dal 2007. Fino a quando le sirene televisive lo hanno strappato al suo vecchio, grande, unico (sembrava) amore.
Giannini la racconta così: “Ero con mia moglie in vacanza in Brasile, tornando in albergo dopo avere visitato le meravigliose cascate di Iguazú trovai un messaggio di Andrea Vianello, direttore di Raitre: ‘Chiamami, devo parlarti’. Premessa: prima di partire ero stato a cena con Giovanni Floris. Siamo amici, ci vediamo spesso anche con le mogli. Bene, Giovanni quella sera mi disse che il rinnovo con la Rai per ‘Ballarò’ presentava dei problemi. I giornali diedero l’annuncio dell’accordo, ma l’accordo saltò subito e Floris si accasò a La7. Sì, pensai che il messaggio di Vianello non fosse indifferente a questi avvenimenti. Lo richiamai, mi disse di voler parlare via Skype ‘così possiamo guardarci negli occhi’. Mi fece la proposta, io presi tempo: avevo ancora due settimane di vacanza e poi volevo parlare con Mauro prima di prendere qualsiasi decisione. Ezio fu comprensivo, così anche De Benedetti e la Mondardini: aspettativano, ma porte aperte a un eventuale ritorno”.
Ti dico la verità, ancora non comprendo sino in fondo – e con me tanti colleghi – la tua scelta di lasciare un giornale che ti portava in palmo di mano per l’incerta avventura di ‘Ballarò’. Forse adesso potevi sedere sulla poltrona occupata da Mario Calabresi.
«Capisco la domanda. Ti dico la verità. La televisione, come prospettiva professionale, non è mai stata la mia ‘tazza di tè’. Ma ci sono momenti, nella vita, in cui senti che la spinta a un cambiamento è più forte di ogni altro ‘calcolo’. Ero vice direttore di Repubblica ormai da dieci anni, magnifici, insieme a Ezio Mauro. Non si vedevano sviluppi, nel breve medio periodo. Sentivo il peso della stanchezza, e anche della ripetitività. Quella di ‘Ballarò’ era un’avventura incerta, come dici tu? Può darsi. Ma sono felice della scelta che ho fatto».
Tira le somme di un anno e mezzo del tuo ‘Ballarò’.
«Siamo primi in classifica: l’anno scorso e anche in questa prima parte della stagione abbiamo una media di ascolto del 6,24%. Siamo il talk show più visto di tutte le televisioni. Più di Floris, più di Santoro. In una fase di talk politici in picchiata, non mi sembra male».
Già, ma tu sei sulla Rai, gli altri due su La7. Per usare un paragone calcistico a te caro, è come se tu giocassi nella Juventus e Floris e Santoro non dico nel Carpi, ma almeno nel Sassuolo.
«Vero solo in parte. Sempre più il telespettatore si sta abituando a scegliere fra un unico e vastissimo palinsesto, per cui l’effetto Rai si è molto attenuato».
Sarete amici, compagni di cene e di merende, ma tu e Floris siete rivali nel piccolo schermo. Inevitabilmente: stessa serata, più o meno lo stesso format, gira e rigira anche gli stessi ospiti. Lo avverti, ogni martedì, il peso di questo confronto?
«Il ‘derby del martedì’, l’hanno chiamato. Certo, il peso si avverte. I due pubblici sono simili, e talvolta anche i temi che affrontiamo si somigliano. Capisco e condivido i dubbi di chi dice: che senso ha che questi due programmi vadano in onda la stessa sera? È un tema oggettivo, su cui è giusto riflettere. Ma nel frattempo, certo, il ‘derby’ è stressante, ma anche esaltante: faccio notare che la somma degli ascolti di ‘Ballarò’ e ‘Dimartedì’, ogni settimana, supera il 12%. Se questi sono i numeri della famosa ‘crisi dei talk’, ditemi dove devo firmare. Quanto ai risultati, parlano i numeri: l’anno scorso abbiamo vinto 35 a 2, quest’anno siamo 11 a 5. E attenzione: noi non abbiamo Crozza che fa i picchi».
Perché non cerchi un tuo Crozza?
«Perché all’altezza di Crozza ce ne sono pochi. E quei pochi non è detto che siano disponibili. Io ho avuto Benigni (11,7% di share), Paolo Rossi, Lillo & Greg, Brignano. Ma uno fisso mai. Però non dispero».
Veniamo al punto. Il genere ha stancato. Da tempo. Calano gli ascolti perché la politica non tira, i politici hanno basso profilo e i tempi, invece di accorciarsi, si allungano. E dura fare notte senza far calare le ciglia con la Camusso, Matteo Salvini e Abete.
«Aggiungi l’inflazione. Cairo mica è fesso: non ha film, non ha il calcio, e allora ha infarcito il suo palinsesto di talk, così li ha svalorizzati tutti. Un po’ ci è riuscito. Noi abbiamo retto l’urto. Consideriamo anche che io ho raccolto ‘Ballarò’ dopo 12 anni di Floris. Io che non avevo mai fatto televisione. Che ho lavorato con la stessa redazione di Floris, bravissimi colleghi ma logicamente scossi dall’inatteso abbandono di Giovanni. Che ho raccolto cinque autori dal nulla che non avevano mai lavorato insieme. Tutto ciò considerato, non mi pare che il risultato a noi favorevole fosse così scontato».
Favorevole nei raffronti, ma la curva degli ascolti continua a guardare in basso.
«La crisi c’è, è innegabile. I motivi principali sono due: la scadente qualità umana della classe dirigente e la ripetitività dei temi e dei personaggi».
Quindi?
«Quindi dobbiamo trovare strade alternative. Cambiare registro. Fermo restando che ‘Ballarò’ non può prescindere dall’attualità – immigrazione, terrorismo – dobbiamo correggere l’ordinario. Anziché seguire le convulsioni del Palazzo, dobbiamo toccare gli argomenti che l’opinione pubblica sente più vicini: la macro e micro economia, la vita quotidiana. Evitare quel ‘rumore bianco’ così ben descritto da Don DeLillo, cosa che non sempre nella passata stagione mi è riuscito. Accendere i riflettori sulle zone d’ombra, cioè le criticità e le contraddizioni del potere. Io diffido delle ‘narrazioni’ della politica perché, come spiega Christian Salmon, il potere che usa la ‘narrazione’ finisce quasi sempre per scivolare nella ‘manipolazione’».
E gli attori dei vostri talk? Sempre gli stessi e dicono sempre le stesse cose. Credibilità, salvo rare eccezioni, vicina allo zero.
«Credi che non ci abbia pensato? Prima di tutto sono troppi. Diventa difficile per ciascuno di loro esprimere opinioni compiute. Ed è facile cadere nell’approssimazione. Calvino parlava di un giornalismo molto esteso e poco profondo: passando dalla carta stampata alla tivù la mancanza di profondità si avverte ancora di più. Questo mi pesa molto. Il mio obiettivo è creare un modulo che induca lo spettatore prima di tutto a non cambiare canale e a dire, dopo avere spento il televisore: bene, ora ne so un po’ di più.
Mettere mano a un programma di prima serata non è semplice in Rai.
«Lo sappiamo, la Rai è un elefante che si muove con difficoltà, ma con un po’ di pazienza si può riuscire a cambiare qualcosa. Devo dire che finora ho potuto sempre muovermi liberamente, nessuna pressione da parte dell’azienda o dei partiti politici né per gli ospiti né per gli argomenti da trattare. Ho già cominciato a ridurre a un massimo di quattro le poltrone della discussione riservandole non solo a politici e professori ma anche a giudici popolari, chiamiamoli così, in cui il cittadino possa riconoscersi. Pippo Baudo, in questo ruolo, ha funzionato molto bene. E anche Alessandro Gassman quando ha detto alla Meloni “ricordati che lo stipendio te lo paghiamo noi”. E Antonello Venditti che ha zittito Salvini con un eloquente “di Roma deve parlare chi la conosce”».
Dici: nessuna pressione da parte dei politici. Lo screzio con Renzi, però, ha fatto notizia.
«Ha criticato “i talk show del martedì” che “non raccontano la realtà dei fatti”. Ha detto che “‘Rambo’ fa più ascolto”. Io ho risposto che la Rai non è roba sua e che i miei azionisti di riferimento sono i telespettatori. Questi i fatti. Da allora a Palazzo Chigi oltre che nel circuito giornalistico passo per anti renziano. Io non sono né prò né contro Renzi, tratto il presidente del Consiglio come trattavo Letta, Monti o Berlusconi».
Torno su un tasto dolente: l’eccessiva lunghezza dei talk.
«Sono pienamente d’accordo. Noi, anzi, finiamo a mezzanotte, Floris va avanti fino all’una di notte. Santoro ha scritto recentemente che ‘Dimartedì’ dura due giorni. Io penso che un programma come il nostro debba rimanere entro le due ore. Oltre, diventa accanimento terapeutico verso i poveri telespettatori. Ne parlerò prossimamente con Campo dall’Orto che forse ci sta già riflettendo. Oggi la Rai è un cantiere aperto».
Chi devi ringraziare, oltre te stesso, per averti spianato la strada?
«Principalmente Ezio Mauro. E Scalfari: un maestro di vita oltre che di giornalismo. Nel 1996, quando ha lasciato la direzione, gli ho regalato una bacchetta da direttore d’orchestra dell’Ottocento con questa dedica: “Al più grande di tutti i tempi, sempre fuori dal coro”. Ma prima di tutti devo ringraziare mio padre».
Ecco, tuo padre. La sua fine dolorosa. La seconda svolta della tua vita. Perché?
«Perché quando l’ho perso i miei orizzonti sono cambiati. Vedo la vita e il lavoro con occhi diversi. Il lavoro ha assorbito la quasi totalità della mia vita. E ora, a soli 54 anni, mi chiedo: ne valeva la pena?».
Che gran regalo ti ha lasciato tuo padre!
Intervista di Franco Recanatesi