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 2016  febbraio 06 Sabato calendario

MUSICA MAESTRA!


Ci sono due Speranza. Quella che sul podio calza scarpe ascetiche, nere e piatte, indispensabili alla sopravvivenza per molte ore in piedi senza sfiancarsi di fronte all’orchestra che la giudica, le ubbidisce e l’asseconda. E quella che a fine opera monta in palcoscenico per godersi gli applausi, di solito intensissimi, piazzata su scarpe rosse col tacco alto, da Jessica Rabbit. «È un mio vessillo», dice Speranza Scappucci con tono malandrino seduta al tavolo di un caffè romano. «A Santa Fe, per i saluti in scena dopo La Figlia del Reggimento, indossavo un paio di scarpe ovviamente rosse, ma stavolta addirittura brillantate, che hanno ricevuto il gradimento di molti critici, a giudicare dalle citazioni apparse negli articoli». Speranza è una nuvola preraffaelita di ricci chiari tuffata anima e corpo in un mestiere da uomo, il direttore d’orchestra. Però sembra determinata a rimanere se stessa. Cioè femminile, ariosa e garbatamente splendida. Il guizzo anticonvenzionale di quei piccoli emblemi scarlatti la descrive come una Cenerentola che, dopo il duro e responsabilizzante lavoro con gli orchestrali, si concede dimensioni seduttive non praticabili durante l’imperiosità del comando.
Proprio una Cenerentola dell’amato Rossini la riporterà a dirigere in Italia, Teatro Regio di Torino, dal 15 al 24 marzo. È un importante ritorno in patria dopo numerosi trionfi all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Ma anche in Europa, dall’Inghilterra all’Austria, la sua fortuna di direttrice vola alta. Nel prossimo novembre sarà Speranza la prima italiana sul podio dell’inflessibile e ortodossa orchestra dell’Opera di Vienna, che solo da pochi anni accoglie qualche strumentista di sesso femminile, figuriamoci sul podio. Speranza arriva al traguardo come terza direttrice dei viennesi dopo l’australiana Simone Young e l’inglese Julia Jones.
«Per me questo, in effetti, è un buon momento», riconosce Speranza di passaggio a Roma, dov’è nata e cresciuta e dove abitano i suoi genitori. Fra un viaggio e l’altro riesce ogni tanto a passare a trovarli, mantenendo con loro un legame forte, «e anzi mia madre la sento tutti i giorni, pure dai continenti più lontani». Oggi la sua residenza l’ha stabilita a metà tra Vienna e New York, le due città per lei professionalmente decisive. «Ma in realtà vivo soprattutto sugli aerei e nei teatri. Le case per me sono diventate luoghi di transito. Spazi che s’intercalano fra prove, spettacoli e tournée».
Persino ora, struccata e infagottata, distante dai completi Armani neri di taglio perfetto che la fasciano quando dirige, “Maestra Scappucci”, come la chiamano i devoti americani, ha una presenza carismatica. Lo sguardo color nocciola è volitivo, e la chioma oscillante tra l’oro e il rosso è una bandiera fuori dalle mode. A dispetto dei suoi 42 anni, emana l’energia di una ragazza fresca di studi e proiettata verso un futuro eccitante. «Sono fiera della mia età. Perché ho alle spalle un patrimonio sostanzioso di esperienza, ed è il modo migliore per raggiungere risultati seri». A lungo ha lavorato nei massimi teatri come “maestro sostituto”, il che vuol dire preparare i cantanti e fare da assistente al direttore: «Ho avuto questo ruolo alla New York City Opera, a Chicago, a Glyndebourne e per un quinquennio all’Opera di Vienna, dove il programma è fittissimo e solo il primo anno ho imparato venti opere».
Fu a Vienna, nel 2005, che incontrò Riccardo Muti, uno dei direttori con cui ha collaborato di più, oltre a Zubin Mehta, a Ozawa, a Gatti e a James Levine. Ma è stato Muti a influire maggiormente sul suo itinerario: «Mi ha offerto strumenti, prospettive, ottiche interpretative. Soprattutto per quanto riguarda Verdi, ma non solo. Grazie a lui e agli altri straordinari musicisti coi quali ho collaborato, conosco un repertorio che va da Mozart a Puccini e comprende anche molta musica sinfonica». Muti la portò con sé al festival di Salisburgo: «Fui poi con lui al Met di New York per Attila di Verdi e gli sono stata accanto nelle sue stagioni all’Opera di Roma. Otto anni di collaborazione formativa mi hanno impresso radici musicali ben piantate nella scuola italiana».
Speranza nasce da una famiglia romana di non musicisti. «Mio padre era giornalista, mia madre insegnante al liceo. Ho due sorelle e un fratello, abbiamo fatto tutti la scuola americana a Roma. Alla musica sono arrivata grazie a una sorella maggiore che aveva preso a studiare pianoforte. Io ascoltavo e un po’ partecipavo. La piccola è musicalmente più portata dell’altra, disse ai miei la maestra, e sospese le lezioni alla più grande per dedicarsi a me. Poi mi sono iscritta al Conservatorio di Santa Cecilia, dove ho fatto i dieci anni canonici. Dopo aver superato un’audizione per la Juilliard School, ho studiato due anni a New York. Mi sono appassionata ai Lieder e alla musica da camera e ho completato un master per l’accompagnamento dei cantanti. Così è scattato il mio amore per l’opera, il costante approfondimento, l’impegno come maestro ripetitore. Gavetta approdata, nel 2012, al debutto a Yale come direttrice di Così fan tutte di Mozart, titolo che affronterò anche all’Opera di Roma la stagione prossima. Con gioia suprema: ho sempre sognato di dirigere nella mia città».
Quando raccolse la sfida a Yale, capì subito di aver voltato pagina: «Mi sentivo come se avessi fatto sempre solo quello. Fu il riconoscimento di un’appartenenza». Ne è convinto pure Anthony Tommasini del New York Times, che non ha esitato a definirla, l’anno scorso, «un’artista al vertice di una grande carriera internazionale». Nel giro di poche stagioni Speranza ha debuttato a Washington, alla Filarmonica di Liverpool e a Macerata con La traviata, e in questo mese, dal 9 al 13, conduce La sonnambula di Bellini a New York, in una coproduzione Juilliard-Met. Oltre a Torino e a Vienna l’attendono Los Angeles con La Bohème di Puccini, il Rossini Opera Festival di Pesaro con Il turco in Italia e l’Opera di Zurigo con La Figlia del Reggimento. Intanto ha inciso con l’Orchestra del Maggio Fiorentino un disco, Il mio canto: arie di Verdi, Puccini, Strauss, Donizetti, Gounod e Massenet col tenore Saimir Pirgu. Ha maturato un gesto nitido ed elegante, un impeccabile controllo, una fantastica felicità espressiva e un approccio al melodramma che «parte dall’esigenza di far aderire testo e musica», somma lezione assorbita da Muti. Di fatto è il gesto, sostiene la “Maestra”, l’aspetto essenziale del direttore: «L’estensione del pensiero musicale passa attraverso il braccio. Dono istintivo, che non si può costruire. Quest’innata vocazione tuttavia è solo l’inizio di un lavoro enorme». Così capillare che «da quando dirigo non ho una vita privata. Mi piacerebbe un uomo che mi voglia bene per ciò che sono e comprenda quel che faccio. Ma è difficile!».
Pur confidando di avere un incubo ricorrente che riflette la sua ansia («Sogno spesso di arrivare alle prove e di scoprire che sono nel teatro sbagliato»), Speranza dichiara d’essere in grado di farsi rispettare da superbe orchestre abituate a conduttori maschi. Non ha mai subito opposizioni motivate da misoginia: «Chiaro che non posso piacere a tutti: lo so dal principio. Però vado alle prove rigorosamente preparata, ed è ciò che conta. Se un maestro sa quel che vuole e ha una visione solida l’orchestra lo segue, non importa se sia uomo o donna». Eppure sono rarissime le donne che intraprendono la sua professione. «Succede perché questo lavoro significa stare sempre in viaggio e fuori casa. E perché troppo poche donne gestiscono istituzioni musicali. Ma i tempi e le mentalità stanno cambiando. Velocemente».