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 2016  febbraio 06 Sabato calendario

IL FENOMENO GUIDO CATALANO. «TI AMO, MI MANCHI MA HO PAURA DEI RAGNI»

Si definisce poeta professionista. E in questo paese di poeti che non leggono poeti è riuscito nel miracolo di esserlo davvero. Le sue sillogi si vendono a migliaia. Sul web è una celebrità. E nei reading che tiene in giro per l’Italia riempie le sale di un pubblico affezionato che addirittura paga per ascoltarlo, come farebbe con una rockstar. Certo, dalla sua, quando si esibisce, ha il physique du rôle del cabarettista, la voce giusta (da giovane fu cantante), il senso per il ritmo, le pause, le parole, magari un negroni accanto. Ma i suoi versi (liberissimi) pulsano di una grazia poetica, a metà tra le stralunate invettive di Bukowski e la surreale levità d’un Rodari. Molto, moltissimo centrati su se stesso e sull’amore impacciato. Tra i due estremi del paragone ovviamente cadono tutte le sfumature della tavolozza emotiva. Guido Catalano, torinese, 45 anni, ha spiccato il gran salto nella prosa. E pubblica da Rizzoli il primo romanzo, D’amore si muore ma io no, novella di un precario a 360 gradi, che fa il poeta, cercando e perdendo lavori collaterali così come accade con le fidanzate. Dovrebbe seguire corsi di semiologia erotica, anziché del cinema, per decifrare i segnali delle fanciulle e capire se è il momento giusto di baciarle, e spingersi magari oltre, visto che di solito equivoca i tempi. Ma su un volo Ryan Air, allacciando maldestramente la cintura di sicurezza, non sbaglia invece a capire che la fanciulla accanto può essere un grande amore. In cento capitoli racconta come sogna, desidera, cerca, ritrova, tromba, tradisce, smarrisce la bella Agata, esperta aracnologa, che studia i ragni e li paragona agli umani, anche nei loro cruenti amplessi.
Intorno, c’è tutto l’universo poetico di Catalano che tanto piace ai suoi followers, gentile, ironico, pregno d’autobiografismo («scrivere una poesia vale dieci anni di psicoterapia»). Le pizze surgelate, le cassiere dei supermercati, gli abiti oversize, la solitudine del poeta, il melting pot (e pop) di Torino, tamarri pieni di chupiti, biciclette, cortili, serie tv, popcorn, ipocondria, malinconie, freddi invernali con sciarpone. Compresa una mamma dolce, apprensiva, adorata con goffaggine (per dirle che le vuole bene il protagonista non riesce ad andare oltre un: «In caso di attacco zombi saresti tu la prima persona che verrei a salvare»).
L’amore agognato, consumato, rincorso, potrebbe certo virare al rosa. Ma Catalano, come il ragno che distrae la compagna per non essere divorato dopo la copula, si sottrae alla trappola delle atmosfere young adult (anche se siamo più nel campo dell’adult young) e ritrova il suo sogghigno iconoclasta per scardinare il lieto fine. Sarà dunque Agata la nonna dei suoi nipoti? Non ve lo diciamo, perché i romanzi non si raccontano. Però, l’happy end è roba da cinema americano. Il poeta preferisce le serie sugli zombie o Lars von Trier. Accompagnati da sushi. Con preservativi scaduti. Insomma, torna ad essere brillantemente Catalano.
Vuole abbandonare la poesia?
«Son poeta, ma non fesso, anche perché i carmina a me danno panem, affitto, e taxi. Ho solo avuto la tentazione di provare una scrittura diversa. Anzi, di raccontare meglio il mestiere del poeta. All’inizio un trauma muscolare. Poi è andata».
La prosa è solo togliere capoversi o qualcosa di più?
«E’ maggiore libertà. Perché nel romanzo non senti l’obbligo alla concisione del verso».
Il romanzo non lo potrà leggere in pubblico, che è un momento centrale della sua arte.
«La voce è sicuramente un plusvalore aggiunto, ma su mille poesie che ho, ne leggo un centinaio. E moltissime non le leggerò mai. Perché funzionano anche in silenzio».
Eppure molti la vedono più come cabarettista che come aedo.
«Ho scritto una poesia che comincia così, “i poeti non mi considerano un poeta, ma un cabarettista. I cabarettisti non mi considerano un cabarettista ma un poeta. Gli elettricisti, non mi considerano un elettricista e fanno bene”. So di essere un misto. Scrittore, performer, poeta».
Perché i critici storcono il naso sui suoi versi?
«Bisognerebbe chiederlo a loro. Forse è perché infrango la regola aurea: la poesia non se la fila nessuno, e ammuffisce sugli scaffali. Invece io la sento viva, e conosco tanti altri che leggono poesie riempiendo i locali, partecipano a poetry slam. Un mondo che la poesia accademica ignora e snobba. Poi ho un altro grave peccato».
Quale?
«Sporco la poesia con la comicità. Voglio portare il riso».
Il pubblico ride. Ma quello che racconta è davvero allegro?
«E’ una domanda retorica, vero? La risposta è no. Non sono allegre. Parlo spesso di situazioni al limite del drammatico, ma ci metto l’ironia per salvarmi. C’è un registro amaro, perché come tutti ho le mie zone d’ombra, le cupezze, le tristezze».
Quali sono?
«Ho la tendenza alla depressione, che riconobbero anche quando feci il militare e mi cacciarono (tra parentesi, come si fa ad essere allegri in caserma?). Parte della mia cupezza, ne sono certo, dipende dai rapporti con l’altro sesso. Ho iniziato tardissimo e questa cosa mi ha abbastanza traumatizzato. Non dico che devi debuttare a 15-16 anni. Ma se arrivi a 21-22-23 e non vado oltre… vuol dire che qualcosa non funziona. Il rapporto con le donne è un po’ una mia piccola ossessione. Anzi, medio-grande».
Effettivamente parla fin troppo d’amore.
«E’ come chi ha sofferto la fame che si trova all’improvviso con tanta roba da mangiare. Non che io abbia eserciti di fanciulle. Ma devi stare attento a gestire la novità».
Dunque è vero che ai reading si cucca come diceva Bukowski?
«Confessava che se avesse saputo quanto scopano i poeti, non avrebbe aspettato i quarant’anni per scrivere poesie. Senza saperlo, ho iniziato molto prima. La poesia è un bel passepartout per il cuore delle donne. Inutile negarlo».
Nelle poesie è imbranato con le donne, nel romanzo invece diventa più disinibito. Fa sesso e lo racconta nei dettagli. Effetto della prosa?
«La poesia consente di nascondere la sessualità con sotterfugi. Il sesso raccontato è andato di pari passo con la mia reale liberazione da alcuni blocchi. A me è mancata l’educazione sessuale. Ma è molto sano parlarne. Perché anche se siamo bombardati dal sesso, i problemi, le paure i tabù si tacciono dietro una cortina di vergogna».
Per questo le cinquanta sfumature vanno come il pane.
«La letteratura erotica la odio».
Meglio il porno?
«Diciamo che è più comunicativo e più utile per le questioni pratiche».
C’è una frase di Pavese nell’esergo. E’ una delle sue stelle polari?
«Amo i suoi diari, dove si metteva a nudo, anche lui non scherzava nei rapporti difficili con le donne e l’amore».
Chi vuol ringraziare per le sue ispirazioni?
«Ho incontrato Bukowski a 20 anni, la sua poesia che parla delle piccole cose della vita mi ha aperto un mondo. (Dovrebbero insegnarlo a scuola). Battisti e Mogol sono un faro di bellezza. Ho adorato Prévert. Non posso fare a meno di Woody Allen (scrittore). Il senso dell’umorismo l’ho preso da mio padre (e forse anche un po’ di Edipo) che faceva l’avvocato. I Peanuts di Schulz riescono a chiudere il mondo in quattro vignette. Poi, Il giovane Holden. Stephen King, perché mi fa paura come i ragni».
Con Torino che rapporto ha?
«Non mi sento piemontese, e non capisco il dialetto. Ma non vivrei da nessun’altra parte. A Milano o Roma morirei di stress. Torino è a misura di me. Tranquilla, ma anche dura. Se ce la fai qui, fuori sarà una passeggiata».
Al web deve molto.
«Ho aperto un blog nel 2005 e ho capito la potenzialità incredibile della rete per farsi conoscere. E’ come uno che per tanto tempo è andato a piedi e trac, si trova in automobile. Con i social, poi, la macchina è diventata un missile. Ho la fortuna che mi piace usarli, perché se me li facessi gestire da qualcuno non sarebbe la stessa cosa».
I social possono essere impietosi, lì i pomodori virtuali li tirano addosso peggio che sui palchi.
«Gli odiatori sono fisiologici al successo. Anzi, se non spuntano fuori, vuol dire che qualcosa non sta funzionando».
Ma anche le blandizie dei followers possono essere velenose.
«So benissimo che se scrivo una poesia superromantica, mi arrivano subito mille like, se ne scrivo una cupa su di me, il consenso cala. Sapere che la gente ti può leggere e commentare in tempo reale è uno stimolo potente. Però c’è anche la frustrazione delle zero condivisioni, la stroncatura dell’indifferenza. E per evitarle, c’è il rischio di scrivere, paraculo, quello che la gente vuole, di essere telecomandato come i politici dai sondaggi. Insomma ti fai problemi che Pavese o Bukowski non avevano. Ma il lato positivo del web supera di molto le controindicazioni».