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 2016  febbraio 06 Sabato calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - LA SALMA DI REGENI È ARRIVATA A ROMA


REPUBBLICA.IT
IL CAIRO - Il corpo di Giulio Regeni è arrivato a Roma. Poco dopo le 13,40 è arrivato all’aeroporto di Fiumicino sull’aereo di linea della Egypt Air proveniente dal Cairo. Ad attendere allo scalo romano il ministro della Giustizia Andrea Orlando che ha accolto i suoi genitori. Loro però sono diretti a casa, a Fiumicello, il corpo del dottorando di 28 anni dovrà fermarsi per essere sottoposto all’ulteriore autopsia. La salma nel pomeriggio trasferita all’Istituto di medicina legale dell’università La Sapienza.
L’arrivo della salma di Giulio Regeni a Fiumicino
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Il feretro è transitato poco dopo le 15 davanti al Cerimoniale di Stato dell’aeroporto di Fiumicino. Il carro funebre si è fermato per pochi minuti davanti all’entrata della sala di rappresentanza. I genitori vicini tra loro si sono avvicinati alla bara accarezzandola.
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Nella struttura dello scalo romano destinata ad ospitare capi di Stato e di governo, oltre a Orlando, c’erano il senatore Pier Ferdinando Casini e il responsabile dell’unità di Crisi della Farnesina, Claudio Taffuri. (VIDEO).
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"Sono qui per affermare il mio profondo cordoglio e quello del Governo, e la vicinanza alla famiglia Regeni. Ma sono qui anche per affermare la volontà del governo affinché sia raggiunta al più presto al verità e che sia fatta giustizia", ha detto Orlando. "Per questo - ha aggiunto - chiediamo piena collaborazione alle autorità egiziane e chiediamo loro di agire con determinazione, trasparenza e rapidità. Da parte nostra abbiamo assicurato da subito una disponibilità alla cooperazione: lo hanno fatto le forze dell’ordine presenti al Cairo e lo hanno fatto le nostre autorità giudiziarie impegnate per competenza alla ricerca della verità, nell’ambito dell’ordinamento italiano".
Regeni, Orlando: "Chiediamo all’Egitto piena collaborazione e trasparenza"
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Dell’inchiesta sulla tragica morte del dottorando italiano è tornato a parlare il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni: "A quanto risulta dalle cose che ho sentito sia dall’ambasciata sia dagli investigatori italiani che stanno cominciando a lavorare con le autorità egiziane, siamo lontani dal dire che questi arresti abbiano risolto o chiarito cosa sia successo. Credo che siamo lontani dalla verità". "Credo che bisognerà lavorare, bisogna assolutamente che questo lavoro possa essere fatto insieme", ha aggiunto il ministro.
Egitto, Giulio Regeni: il ricercatore trovato morto al Cairo
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Al Cairo, davanti all’ambasciata italiana, egiziani e italiani, ma anche cittadini di altre nazionalità, mostrano cartelli, depongono fiori e candele a terra. Sulla pagina Facebook, creata dal gruppo ’The Januarians’, gli organizzatori avevano descritto la manifestazione con queste parole: "Giulio Regeni è uno di noi. È morto uno di noi. Ci raccoglieremo con fiori per Giulio questo sabato alle 16".
Dall’altra parte del Nilo, descrive una giornalista il cui articolo è stato ripostato dagli amministratori della pagina, è intanto in corso una dimostrazione "simbolica per tutti quelli che sono stati rapiti e torturati".

ARTICOLO DI OGGI DELLA SARZANINI
ROMA Le persone che hanno catturato Giulio Regeni volevano conoscere l’identità delle sue fonti. Scoprire chi gli avesse passato le informazioni contenute nei suoi articoli pubblicati sotto pseudonimo sull’agenzia Nena news — specializzata sui temi del Medio Oriente — e in parte ripresi dal quotidiano Il Manifesto . Individuare la «rete» di amici e conoscenti che lo aiutava nelle sue ricerche sul sindacato. Per questo lo hanno sottoposto a interrogatori pesanti e poi — evidentemente di fronte al suo rifiuto a collaboratore — lo hanno seviziato fino a ucciderlo.
È questa la convinzione degli investigatori che cercano la verità sulla fine dello studente italiano di 28 anni ritrovato cadavere mercoledì sera in un fosso sulla strada che dal Cairo porta ad Alessandria. Una ricostruzione che porta ai servizi di sicurezza locali, gli stessi che avrebbero poi cercato di depistare le indagini.
«Morte causata da prolungate torture», è scritto nei documenti trasmessi a Roma per via diplomatica dopo il primo esame del corpo. E questo basta a capire quanti e quali misteri debbano essere adesso svelati. Compreso quello legato ai due arresti annunciati ieri e poi non confermati, che potrebbero essere stati soltanto una «copertura» per provare a sviare gli accertamenti.
Il giorno del decesso
Regeni scompare nel pomeriggio del 25 gennaio scorso. Per sei giorni la notizia viene tenuta riservata, ma il 31 gennaio di fronte al muro eretto dalle autorità egiziane, che negano di sapere che fine possa aver fatto, la Farnesina decide di renderla pubblica con una nota ufficiale. Polizia e servizi segreti al Cairo continuano a negare di avere informazioni. Il 3 febbraio — di fronte alle insistenze italiane che minacciano la crisi diplomatica — l’ambasciatore Maurizio Massari viene informato del ritrovamento del cadavere. Il referto parla di «numerosi tagli e bruciature», il corpo è martoriato. I medici evidenziano le «prolungate torture» e ciò fa presumere che il giovane sia rimasto diversi giorni nelle mani dei suoi aguzzini. Per questo ha un’importanza fondamentale l’autopsia che si svolgerà oggi a Roma, pur nella consapevolezza che prima della consegna della salma alle nostre autorità, possano esserci stati interventi tali da alterarne lo stato.
La «rete» dei contatti
La tesi per il dottorato di ricerca che stava svolgendo aveva portato Regeni a incontrare numerose persone del sindacato, qualcuno dice che avesse partecipato anche a qualche riunione. I carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco incaricati delle indagini stanno cercando di ricostruire i suoi ultimi contatti nella convinzione che la polizia locale lo avesse già fatto e per questo avesse cominciato a tenerlo sotto controllo. L’arresto potrebbe essere avvenuto nel corso di una «retata», ma con il trascorrere delle ore si fa strada l’ipotesi che fosse in realtà mirato e che tra gli obiettivi della cattura ci fosse anche quello di impedirgli di continuare a pubblicare articoli, evidentemente ritenuti dannosi per il regime. Del resto Nena news è un’agenzia online ed è molto diffusa tra gli attivisti, soprattutto per la posizione presa in favore della rivoluzione cominciata con la primavera araba e per le posizioni di appoggio alla causa dei palestinesi.
L’altra vittima
Le «modalità» dell’omicidio sono identiche, persino nei dettagli come le date e le «giustificazioni», a quelle di un altro caso che risale a tre anni fa. Era il 25 gennaio, quando scomparve Mohammed Al Jundi, ventottenne impegnato contro il regime. Arrestato e torturato dalla polizia fu ritrovato in un ospedale il 3 febbraio e morì il giorno dopo. Anche per lui la prima versione fornita a familiari e amici parlava di un incidente stradale. Esattamente come per Giulio Regeni. Entrambi vittime di una repressione che ha coinvolto centinaia di persone. Ecco perché c’è grande cautela rispetto alla collaborazione assicurata dalle autorità egiziane. Il rischio è che un’indagine congiunta debba accontentarsi di analizzare le circostanze fornite dalla polizia e dai servizi di sicurezza locali, senza alcuna possibilità di verifica indipendente. E dunque di continuare a scontrarsi con il muro di silenzi e bugie che hanno già segnato questi dieci giorni.
I depistaggi
In questo quadro sembra rientrare l’annuncio, poi smentito, dei due arresti avvenuti ieri al Cairo, e soprattutto la notizia, circolata per tutto il pomeriggio e poi «negata categoricamente» dai servizi segreti italiani, che Regeni fosse un collaboratore o addirittura un agente dell’Aise, l’Agenzia per la sicurezza estera. E dunque che possa essere stato punito come spia. Un altro tentativo, assicurano gli investigatori, di depistare l’inchiesta. Il timore della diplomazia è che alla fine si cerchi di chiudere il caso con una verità di comodo, che il regime egiziano — per salvaguardare i rapporti bilaterali — consegni all’Italia finti colpevoli. E tenti di chiudere il caso prima possibile.

ARTICOLO DI OGGI DI VIVIANA MAZZA
DALLA NOSTRA INVIATA
IL CAIRO Sotto un lenzuolo bianco, su cui erano adagiati dei fiori, riposava la salma di Giulio Regeni. Il prete l’ha benedetta, ha recitato un’omelia informale, ha detto che Giulio «cercava la verità». È stato l’ultimo saluto tra il ricercatore friulano e il Paese dov’era venuto a studiare. La madre Paola ha tenuto a lungo la mano sulla salma. «Ti dico grazie, con il cuore spezzato», ha risposto a un messaggio di condoglianze.
«Ho ammirato la forza dei suoi genitori. Certo, piangevano, specialmente la madre, ma ha parlato con tutti, contenta che tanti amici di Giulio fossero venuti a dirgli addio, la cappella era piena», dice al Corriere Ahmed Samy, insegnante di arabo che da quasi due mesi si recava nell’appartamento di Giulio a Dokki per fare lezioni private. Samy era uno dei duecento invitati alla cerimonia privata tenutasi ieri a mezzogiorno nella cappella dell’Ospedale italiano Umberto I, una villa gialla nel quartiere popolare di Abbasiya. «C’era anche una ragazza con un hijab bianco che piangeva tanto, credo fosse la sua amica Noura».
Così Giulio lascia il Cairo. Oggi alle 13 la salma arriverà a Roma, accompagnata dai genitori. Il lenzuolo bianco all’Umberto I copriva le bruciature di sigarette, i tagli all’orecchio, l’emorragia interna causata dalle percosse alla testa. Il rapporto ufficiale in Egitto uscirà nei prossimi giorni; sui siti egiziani c’è chi scrive che la morte sarebbe avvenuta «giorni prima». La verità potrà forse emergere dalla nuova autopsia prevista all’Istituto di medicina legale «La Sapienza», mentre al Cairo è arrivato ieri un team di sette esperti italiani di polizia, Carabinieri e Interpol. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo per omicidio a carico di ignoti. Ignoti che fonti di sicurezza non confermate sostengono di avere trovato: il sito Masrawy dava notizia di due arresti al Cairo, precisando che «ulteriori dettagli verranno svelati in seguito». Anticipano che «si è trattato di un atto criminale non collegato al terrorismo né politico». Non stanno insomma seguendo la pista delle torture per mano della polizia, ma quella di un crimine commesso da una gang o magari con movente personale. Gli amici, i vicini, il portiere sono stati interrogati. Ai coinquilini il giudice di Giza Sud, Hossam Nassar, ha chiesto se Giulio avesse nemici. «Non aveva problemi con nessuno ».
Viviana Mazza

IL PEZZO DI PAOLO VALENTINO SUL CDS
«Q uesto episodio ci colpisce profondamente e per la sua gravità non può e non deve essere in alcun modo minimizzato. Ma proprio in virtù delle relazioni forti, profonde e strutturate che esistono tra Italia ed Egitto, la gestione dell’inchiesta è molto importante e sarà un banco di prova decisivo per questo rapporto di amicizia e fiducia reciproci. Noi siamo interessati al successo e alla stabilità dell’Egitto, ma chiediamo che venga fatta piena luce sulla morte di Giulio».
Maurizio Massari parla al telefono dal Cairo. «In trent’anni di carriera una cosa così non mi era ma i capitata, una prova durissima sul piano emotivo e professionale». Eppure ne ha di esperienze alle spalle, il nostro ambasciatore in Egitto. È stato inviato nella Mosca della perestrojka e del crepuscolo dell’Unione Sovietica, a Washington durante il drammatico finale dell’elezione presidenziale del 2000 che portò George W. Bush alla Casa Bianca, a Belgrado dopo la guerra civile da rappresentante dell’Osce.
Ma una storia come la barbara uccisione di Giulio Regeni è di quelle che ti segnano per sempre. Dove pietas , codice diplomatico, ragioni della verità e ragioni della politica rischiano di diventare miscela esplosiva.
L’ambasciatore ritorna con la mente alla sera del 25 gennaio, quando riceve la telefonata di un italiano, un amico di Giulio: «Era preoccupato. Aveva un appuntamento con lui, lo aveva aspettato per quasi 2 ore ma non si era presentato. Al cellulare non rispondeva. Lo allarmava ancora di più il fatto che fosse il quinto anniversario della rivoluzione del 2001, una data molto sensibile».
Fin dal mattino dopo Massari si attiva insieme alla sua squadra, ma dalle autorità egiziane si sente ripetere per giorni che «ricerche erano in corso ma non vi erano tracce dello studente, la loro versione escludeva categoricamente che Giulio fosse stato fermato o arrestato dalla polizia o da altre forze di sicurezza egiziane». La stessa cosa gli dice il ministro degli Interni, che incontra personalmente il 2 febbraio.
Il colpo di scena avviene la sera dopo. La scena si svolge nella residenza dell’ambasciatore. C’è il ministro per lo Sviluppo economico, Federica Guidi, in visita al Cairo. Massari ha organizzato un ricevimento con tutta la comunità degli affari italo-egiziana, 250 persone, passaggio decisivo per una missione economica, occasioni dove si parla di contratti e opportunità d’investimento. «È successo all’inizio, verso le 8. Una fonte del ministero degli Esteri mi ha dato la brutta notizia che Giulio era stato ritrovato morto alla periferia della città». Il ricevimento viene interrotto, gli invitati se ne vanno senza toccare cibo. Massari fa le sue verifiche e purtroppo riceve solo conferme: la notizia è vera. Così, insieme al ministro Guidi, si reca di persona nell’appartamento di Giulio, dove alloggia la famiglia, per la parte più ingrata: informare i genitori del ragazzo arrivati da qualche giorno dal Friuli e con i quali è in costante contatto. Un annuncio doloroso, la fine di ogni speranza. Nel frattempo viene avvisata Roma, Farnesina e Palazzo Chigi. Da quel momento inizia anche lo st retto coordinamento con il ministro Gentiloni sulle cose da fare.
È una lunga notte. La notizia non è ancora ufficiale, lo sarà solo il giorno dopo, ma l’ambasciatore apprende dalle sue fonti che il corpo di Giulio è stato portato nell’obitorio di una zona abbastanza centrale della città. È passata da poco la mezzanotte quando decide di muoversi, senza chieder permesso: «Abbiamo semplicemente informato per telefono le autorità locali che stavamo per recarci all’obitorio. Non c’è stato né divieto, né autorizzazione formale». C’è un lungo silenzio al telefono. Massari ora parla lentamente, a strappi. «Vederlo per me è stato devastante. Presentava segni evidenti di percosse e torture. Ho notato ferite, ecchimosi e bruciature. Non c’è alcun dubbio che il ragazzo sia stato duramente picchiato e seviziato».
Il mattino dopo il nostro diplomatico si presenta al ministero degli Esteri. Non l’ha convocato nessuno: «Ci sono andato su mia iniziativa, sulla scorta delle istruzioni ricevute da Roma. E ho formulato le tre richieste del nostro governo. Primo, la conferma ufficiale della notizia. Secondo, la immediata restituzione della salma alla famiglia, terzo e più importante l’inchiesta congiunta con un team investigativo».
Massari si ferma. Vuole fare un passo indietro, alla mattina del 3 febbraio, quando il ministro Guidi ha incontrato il presidente al-Sisi insieme alle due delegazioni e gli ha parlato del caso Regeni, esprimendogli la forte preoccupazione del governo e dell’Italia. «Lui ci ha assicurato il suo impegno personale per cercare di risolvere il mistero della sparizione di Giulio». Poche ore dopo è riapparso il corpo del ragazzo: «Sì, questa è la successione degli avvenimenti».
Il colloquio al ministero degli Esteri non va proprio tutto liscio: «Mi hanno assicurato la massima collaborazione. Ma mi hanno espresso perplessità sulla decisione di interrompere la visita del ministro Guidi. Ho detto che era una decisione dovuta, per rispetto a Giulio e alla sua famiglia. Sarebbe stato fuori luogo continuare, in una situazione talmente tragica ed emotiva».
Mentre parliamo atterrano al Cairo esperti della nostra Polizia e dei Carabinieri: «È la prima conseguenza concreta del colloquio avuto dal presidente del Consiglio con il presidente al-Sisi, nel quale Renzi aveva ribadito la richiesta di avere un nostro gruppo di investigatori. Regole d’ingaggio e modus operandi andranno ovviamente discussi con le autorità egiziane. La nostra priorità è un’indagine piena, completa e trasparente che porti alla verità e alla sanzione del o dei colpevoli di questo orribile crimine».
Sulle versioni pubbliche contrastanti, compresa quella poco credibile dell’incidente stradale, Massari dice che «forse questo va ricondotto a dinamiche interne egiziane». Ma l’importante, aggiunge, «è che alla fine il capo dell’Istituto di medicina legale, che ha effettuato l’autopsia, abbia confermato le cause violente della morte e i segni della tortura».
Resta l’eterno dilemma, non solo italiano, su quale sia la soglia del dolore nel bilanciare le convenienze strategiche con le ragioni dei diritti umani nelle relazioni fra gli Stati: «I rapporti non solo dell’Italia ma di tutta l’Europa con l’Egitto vanno guardati in tutta la loro complessità. E non c’è dubbio che la dimensione del rispetto dei diritti umani ne sia componente, ancorché non unica. Dobbiamo tenerla presente e gestirla in partnership non in modo paternalistico ma cooperativo, nell’interesse anche dell’Egitto. Senza voler imporre alcun modello dall’esterno, l’Europa può aiutare l’Egitto a compiere passi in avanti e migliorare gli standard della democrazia. Tenendo presente che la lotta al terrorismo islamico è una priorità per tutti ».

ALTRO PEZZO DELLA MAZZA
DALLA NOSTRA INVIATA
IL CAIRO «È stato rapito, torturato e ucciso come molti egiziani. Giulio Regeni è uno di noi». La sofferenza di una famiglia italiana diventa un simbolo dell’Egitto di Al-Sisi. Oggi alle 4 del pomeriggio, attivisti come Mona Seif, sua sorella Sanaa e la zia scrittrice Ahdaf Soueif deporranno fiori per Giulio all’ambasciata italiana del Cairo. «Se non ci sparano prima», dice al Corriere la scrittrice. Suo nipote Alaa Abdel Fattah è in carcere per 5 anni per aver manifestato pacificamente senza permesso.
La storia di Giulio sta portando a galla tutta l’amarezza della società civile per un clima di violenza e paura che in Egitto è diventato normale. Non c’è nessuno che non abbia un amico in prigione. Si scoprono nuovi casi ogni giorno: l’altro ieri è venuto a galla quello di Rouz e Mohab Samir, artisti scomparsi dal loro appartamento vicino a piazza Tahrir due settimane fa. «La gente non li pubblicizza sperando che il rilascio sia più facile». Nessuno sa quante persone ci siano nelle 42 carceri egiziane. Il dipartimento di Stato Usa nel 2013 fece una stima: 62 mila, ma secondo le organizzazioni dei diritti umani ora sono molti di più. Prima dell’anniversario del 25 gennaio, la polizia ha fatto irruzione in 5.000 appartamenti. Il presidente Al-Sisi presenta queste misure come necessarie per evitare che l’Egitto piombi nello stesso caos della Libia.
«È molto peggio dell’era Mubarak», ci dice Halem Henish, attivista della Commissione Egiziana per i Diritti e la Libertà, che ha documentato 314 desaparecidos nel 2015: molti sono stati poi trovati in carcere, 5 in obitorio. Nel 2016, sono già 35-40 i casi da lui contati, due i morti. «Si tratta per lo più di dissidenti o di oppositori della Fratellanza Musulmana. Ma c’è un 20% di arresti a caso. Per esempio, una volta volevano una persona e, trovandola a casa con gli amici, li hanno fermati tutti e 17, incluso un cieco». Ci sono casi noti, come quello di Eric Lang, insegnante francese preso con l’accusa di camminare in strada durante il coprifuoco e picchiato a morte in una cella della stazione di polizia di Qasr El Nil al Cairo nel 2013: sua madre ieri ha fatto appello alla giustizia francese. Ci sono denunce come quella pubblicata l’altro ieri sulla stampa inglese in difesa di Ibrahim Halawa, cittadino irlandese preso nel 2013 a una manifestazione pro-Morsi, che avrebbe subito torture e abusi sessuali in cella. Ma le storie nei cassetti di Henish sono di egiziani: come Mohamed Hemdan, scomparso il 10 gennaio trovato morto il 25 con segni di tortura, e di Ahmed Galal, sparito il 19 gennaio e riapparso il 31 nello stesso obitorio di Giulio. Non ne parla nessuno. «Perché? Perché non sono stranieri?».
La società civile si mobilita oggi per un italiano diventato simbolo di tutti. «Questo regime ha ucciso Giulio — dice la scrittrice Soueif —. C’è una violenza diffusa, quasi sbadata, che fa nuove vittime in continuazione. Alcuni pensano sia stato ucciso per le sue ricerche sul movimento dei lavoratori. Ma potrebbe essere stato uno di quegli attacchi a caso, sia pure di agenti dello Stato, perché era straniero. È triste: lui non doveva essere qui per forza, era venuto a studiare per amore del posto».
Kamal Abbas, un sindacalista che Giulio aveva visto due volte, spiega che la morte di quel «ragazzo timido» ha turbato tutti. Anche Malek Adly avvocato comunista del Centro per i Diritti economici e sociali, deporrà un fiore. La speranza — dice Soueif — è che «sotto gli strati di brutalità, incompetenza e ottusità ci sia ancora lo stesso Egitto di una volta».
Viviana Mazza

PEZZO DI FRANCESCA BASSO
MILANO La scoperta dell’Eni nelle acque egiziane del maxi giacimento di gas Zohr, il più grande mai rinvenuto nel Mar Mediterraneo, è forse il caso più emblematico di quella relazione storica forte tra l’Italia e l’Egitto — il Cane a sei zampe è entrato nel Paese nel 1954 —, che si traduce in una presenza consolidata delle nostre imprese. Sono oltre cento quelle che operano nel Paese in diversi settori, dagli idrocarburi al tessile, dalle costruzioni all’energia, passando dalla meccanica e dal settore bancario. E i big ci sono tutti: Pirelli, Saipem, Edison, Ansaldo Energia, Breda, Italcementi, Cementir, Danieli, Trevi, Tecnimont, Iveco, Technit, Carlo Gavazzi. L’interscambio commerciale, secondo i dati Istat, supera i 5 miliardi di euro ed è in aumento del 9,9% (2014 sul 2013), con un export in crescita ad oltre 2 miliardi.
Dopo le elezioni del maggio 2014, che hanno portato alla presidenza il generale Al Sisi, i rapporti con l’Italia si sono intensificati e le missioni governative sono state continue, con l’obiettivo di stringere nuovi accordi commerciali. L’Italia, secondo l’Ice, è il secondo mercato di sbocco in Europa dopo la Germania. La notizia dell’uccisione dello studente italiano Giulio Regeni è arrivata mentre al Cairo il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, era in missione con una delegazione di 60 aziende e i rappresentanti di Sace, Simest e Confindustria. «Un momento difficile», ricorda Marcello Sala, presidente del Business Council italo-egiziano e vicepresidente esecutivo del consiglio di Gestione di Intesa Sanpaolo, che faceva parte della delegazione. Sala conosce bene l’Egitto, ha cominciato a frequentarlo nel 2006 quando Intesa Sanpaolo è entrata nel Paese con Alexbank, che ora conta 200 sportelli con personale che parla italiano, una rete di sostegno per le nostre imprese, soprattutto quelle di medie dimensioni, che vogliono sbarcare in Egitto. «Il legame non si limita allo scambio di import ed export — spiega Sala —. Ci sono molte storie di travaso di know how , come il progetto “Cotton for life” presentato in luglio all’Expo, che ha come protagonista la Filmar». La società bresciana sta promuovendo un progetto per lo sviluppo sostenibile focalizzato sulla coltura e la valorizzazione del cotone egiziano che è di alta qualità. «Nel Paese opera anche lo storico cotonificio Alpini di Bergamo. Le nostre imprese godono del supporto di preparazione professionale dell’Istituto salesiano Don Bosco (che ha due sedi, una al Cairo e una ad Alessandria d’Egitto, ndr ), che quest’anno ha anche avviato un progetto per un corso di ingegneria con il Politecnico di Torino».
Il governo egiziano sta incoraggiando gli investimenti esteri nel Paese. Alla Conferenza per lo sviluppo economico dell’Egitto di Sharm el Sheik dello scorso marzo, a cui avevano partecipato oltre 1.800 delegati da 70 Paesi, il governo aveva illustrato un piano ambizioso che prevede investimenti per circa 80-90 miliardi su settori strategici: energia, edilizia residenziale, trasporti, grandi opere infrastrutturali e logistica. Settori in cui il Made in Italy è forte. Ma tra le opportunità offerte dal Paese ci sono anche le telecomunicazioni, uno dei settori in maggiore crescita. Mentre il turismo, che era in forte espansione, sta subendo una forte contrazione a causa del rischio elevato di attentati terroristici. «L’impatto è stato pesantissimo — spiega Sala —. Ma mentre l’economia tunisina si basa prevalentemente sul turismo, quella dell’Egitto è diversificata. Ha una struttura molto sviluppata di piccole e medie imprese e la manifattura ha un ruolo importante, così come le telecomunicazioni». L’Italia esporta soprattutto prodotti derivati dalla raffinazione del petrolio, macchinari meccanici ed elettrici, prodotti chimici e materie plastiche, mentre importiamo petrolio greggio, metalli, filati tessili, minerali e prodotti chimici. L’ultima missione del Mise ha contribuito alla finalizzazione dell’accordo per l’ammodernamento e l’espansione della raffineria di Midor, vicino ad Alessandria d’Egitto, progetto affidato a Technip Italy: un investimento da 1,4 miliardi di dollari.
Francesca Basso

“He was enthusiastic, he was intelligent, he was warm and sensitive…he was tortured and murdered”, were words Rabab El Mahdi, who supervised Giulio Regeni’s PhD, used to commemorate the 28-year-old Italian.

Egyptians and foreigners gathered in front of the Italian embassy in Cairo on Sunday and laid flowers in memory of Regeni.

On the other side of the Nile, a silent “symbolic” demonstration was held “for all those who were kidnapped and tortured,” as the organizing group, the Januarians, described it. Despite denials

Regeni’s body was found in a dump in 6 October City after around ten days of disappearance. Multiple stab wounds and cigarette burns were evident, indicating torture and a “slow death”, according to Egyptian prosecutor Ahmed Nagy.

LUCA FORTIS SU FORMICHE
Il caso di Giulio Regeni, ritrovato morto in Egitto, non può che scuotere le coscienze. Senza voler entrare troppo nel caso specifico – saranno gli inquirenti, sia italiani che egiziani, e il tempo, a chiarire cosa sia davvero accaduto – è possibile però fare qualche riflessione.

Dopo anni di viaggi in Egitto e in Medio Oriente, mi sono reso conto di come l’ambiguità sia la parola chiave per capire il mondo islamico oggi.

In Egitto si trova tutto e il contrario di tutto. Attivisti per i diritti umani, concerti in cui si cantano canzoni che raccontano amori omosessuali, islamisti rivoluzionari e alleati con il presidente Abdel Fattah Al-Sisi e un potere che lascia certe forme di libertà, ma che poi diventa implacabile se si sorpassa una sottile linea rossa, non sempre chiaramente identificabile.

Al Sisi è riuscito a stabilizzare il Paese, lasciando qualche piccolo spiraglio di democrazia, ma non ha saputo evitare una notevole militarizzazione che spesso confonde la semplice opposizione con terroristi, che pur non mancano. Non è raro che qualche poliziotto o squadrone paramilitare perda il controllo, commettendo atti di violenza mentre arresta persone che protestano, per poi tentare di nascondere l’accaduto.

Essendo il Medio Oriente precipitato in una guerra generalizzata, è facile ipotizzare che anche il governo egiziano sia cascato nella trappola di vedere i giornalisti, le organizzazioni per i diritti umani e i semplici ragazzi che protestano nelle università come fattori di destabilizzazione durante la guerra per stabilizzare i confini con la Libia ed il controllo del Sinai.

Un errore che avrebbero potuto evitate e che probabilmente tra dieci anni, quando la gente sarà meno spaventata per la crisi economica e percepirà il Paese come più stabile, lascerà ferite importanti nella società.

Come detto, ho sempre pensato che l’ambiguità sia la parola giusta per descrivere la situazione del governo egiziano e del mondo islamico in generale.

Vista la situazione della regione, Al-Sisi ha stabilizzato abbastanza il Paese e ha tenuto in piedi le elezioni. Consultazioni elettorali molto lontane dall’essere perfette, ma sempre miracolose se si pensa a quelle di tanti nostri alleati nella regione che, Turchia, Tunisia e Libano a parte, non le contemplano proprio.

Ha commesso però errori inutili e gravi sulla libertà di stampa e di protesta. Errori drammatici se comparati con i sogni di piazza Tahrir, ma “normali” se confrontati alla realtà di tutti i Paesi del Medio Oriente.

Esclusi forse Libano e Tunisia, le carceri mediorientali divorano esseri umani. Perfino la Turchia, che fa parte della Nato ed è in trattativa per entrare nell’Unione Europea, ormai imprigiona i giornalisti. Dall’Afghanistan alla Nigeria c’è un conflitto generalizzato in cui alcuni attori giocano due o tre guerre parallele su scacchieri diversi.

Oltre le scintille tra sciiti e sunniti, con l’Arabia Saudita che si scontra, con le armi o politicamente, con l’Iran in Yemen, Iraq, Siria e Libano, vi è poi un conflitto tra islamici fondamentalisti e quelli che credono ancora nella tradizionale libertà di interpretazione: una guerra che travolge anche tutti i laici e le minoranze religiose come i cristiani. Questo scontro tra due diverse visioni religiose e di società ha partorito attacchi terroristici dalla Nigeria fino alla Cina o nuove entità statuali come lo Stato Islamico tra Iraq e Siria, o in parti della Libia.

Inoltre, vi è una guerra per procura che coinvolge le tre maggiori potenze sunnite del mondo arabo – Turchia, Arabia Saudita e Qatar – che, pur essendo tutte alleate degli Stati Uniti, si combattono in Libia e in modo più sporadico in Egitto e Palestina per la supremazia nel mondo sunnita. L’Arabia Saudita appoggia una strana alleanza tra salafiti e militari laici, come Al-Sisi in Egitto e il generale Khalifa Haftar in Libia, e si oppone ai Fratelli Musulmani sostenuti da Qatar e Turchia.

In pratica, qualunque Paese islamico viene visto come fragile, perché al suo interno vi sono molte minoranze religiose o gruppi tribali, e viene fatto piombare in una guerra civile da una di queste forze per farlo divenire un nuovo campo di battaglia.

Al-Sisi, avendo capito questo, mostra i muscoli per far capire che l’Egitto è stabile e per questo è un naturale alleato dell’Occidente. Il presidente egiziano sta inoltre tentando di fare un lavoro di riposizionamento della società civile islamica. Al Sisi, che ha deposto i Fratelli Musulmani nell’ultima onda della rivoluzione egiziana nel luglio del 2013, ha più volte dichiarato che non sta affatto portando avanti una guerra contro l’Islam, ma una guerra per salvare l’Islam da false interpretazioni che offendono la religione.

Il presidente oltre ad avere proibito i partiti islamici (pur mantenendo una certa tolleranza nei confronti dei salafiti), ha incominciato una lunga battaglia perché Al Azhar, l’Università Islamica del Cairo, controllata dallo Stato, modifichi il suo insegnamento ai predicatori. Il nuovo governo ha anche affiancato al consueto concorso sulla conoscenza del Corano uno sull’interpretazione del vero spirito della religione islamica. L’Egitto ha inoltre iniziato un lungo percorso per modificare i libri di scuola, con lo scopo di formare milioni di poveri con idee meno bigotte. Anche se alcuni zelanti esecutori delle decisioni governative hanno pensato bene di bruciare i vecchi libri di scuola, dando secondo molti osservatori una tragica immagine del nuovo ordine del Paese.

Al-Sisi è appoggiato dalla classe meno abbiente e dalla maggioranza dei ricchi con più di trent’anni, ma compie l’errore di inimicarsi, nel lungo periodo, i tanti giovani, democratici e borghesi, delle città egiziane, che protestano per avere lavoro e più libertà. Sono una minoranza che però potrebbe essere sua naturale alleata nella lotta contro gli islamisti. Anche per questo è un errore metterli in carcere.

Ma non è solamente l’Egitto a compiere questo sbaglio: esclusi Tunisia e Libano, praticamente tutti i Paesi confinanti lo commettono. La situazione diventa ancor più drammatica se si guarda alla Siria e all’Iraq, dove chi la pensa in modo diverso viene ucciso o schiavizzato sessualmente dall’Isis e dove vi sono alcuni veri e propri tentati genocidi, come nel caso degli yazidi e dei cristiani.

Il governo ufficiale della Siria non uccide interi gruppi etnici o religiosi, anzi è espressione delle minoranze, ma di certo anch’esso, pur di rimanere al potere, non si fa problemi a uccidere i propri nemici e i civili che gli stanno attorno. Le opposizioni siriane appoggiate dall’Occidente, a parte quelle curde ostacolate dalla Turchia, non sembrano però, fino a oggi, aver mai fatto nulla per salvare le cospicue minoranze religiose, islamiche o di altre religioni dal fondamentalismo, anzi appartengono loro stesse a questi gruppi. Questo sembra spiegare perché Bashar Al Assad non cade. Le minoranze religiose preferiscono lui, con tutte le sue ombre, agli altri. Per questo l’Occidente dovrebbe ricominciare a parlare con il governo ufficiale.

Perfino l’Europa, di fronte all’islamismo e a questo conflitto generale, sta mettendo in dubbio alcuni dei suoi pilastri. Per esempio sotto pressione delle migrazioni di massa mette in discussione Shenghen e subisce altri scossoni.

Quello che mi sembra manchi oggi nel mondo islamico è il riconoscimento reciproco dell’altro e la libertà di interpretazione del Corano. Molti osservatori sottolineano che sono stati Paesi come l’Arabia Saudita e il Qatar, grazie ai soldi del petrolio, a finanziare in mezzo mondo associazioni caritatevoli che, in in cambio di lavoro e soldi, hanno fatto aderire al wahabitismo, forma estremista dell’Islam che non accetta la libera interpretazione del Corano.

Tradizionalmente l’Islam, che non ha una figura come il Papa, ha sempre goduto di una certa libertà di interpretazione. Basta conoscere i primi califfati di Damasco e Baghdad: i musulmani dell’epoca d’oro non convertirono i cristiani e non buttarono giù i templi di Palmira. Baghdad, conquistata nel VII secolo dopo Cristo, rimase a maggioranza cristiana fino al’XI e, sino alla caduta di Saddam Hussein, nel Paese esistevano ancora quasi un milione di cristiani e tantissime altre minoranze. La città degli Abbasidi era poi considerata uno dei maggiori centri per lo studio della filosofia nel mondo.

Ci vorranno decenni perché il mondo islamico riesca a ritrovare la sua anima. In attesa che gli islamici trovino i loro Gandhi, Mandela e Lutero, mentre i templi di Palmira vengono fatti saltare in aria, l’Europa dovrà tentare di affrontare queste crisi senza che, i necessari compromessi, la distruggano.