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 2016  febbraio 06 Sabato calendario

APPUNTI PER L’APERTURA SULL’EGITTO


ALBERTO NEGRI, IL SOLE 24 ORE 5/2 – 
I problemi tra Italia ed Egitto hanno un nome, quello del generale Khalifa Haftar, comandante delle forze di Tobruk che aspira a diventare l’uomo forte della Libia. Il suo sponsor è il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, che non nasconde le mire sulla Cirenaica.
È noto che è uno storico interesse egiziano. Si racconta che una volta re Faruk disse a Winston Churchill durante un incontro: «Questo un tempo era Egitto» a proposito dell’est libico. E Churchill replicò con il solito aplomb: «Non mi pare!».
Metà della Libia detesta Hafar, soprattutto le fazioni islamiche di Tripoli che vedono in lui un amico del giustiziere dei Fratelli Musulmani e il portabandiera degli interessi egiziani. Ormai è chiaro che il cuore di tutta la questione libica sta nell’assegnazione del comando delle Forze armate, il resto sono quasi dettagli.
Dopo essere volato in Egitto dal suo protettore, Haftar ha avuto un incontro con una delegazione italiana di diplomatici e membri dell’intelligence nel tentativo di dissuaderlo dall’obiettivo di voler diventare il Sisi libico. A Tripoli non vorranno mai che Haftar entri in città alla testa delle truppe: l’astio contro lui, ormai a livelli non negoziabili, risale almeno al 2013 quando voleva proclamare lo stato di emergenza. Un annuncio da generale sudamericano replicato nel febbraio 2014, quando apparve in televisione proponendosi come il salvatore della patria. Una sorta di tentativo di golpe condannato anche dall’allora ambasciatore americano a Tripoli.
Ma il presidente egiziano, autore del colpo di stato del 2013 contro i Fratelli Musulmani di Mohammed Morsi, non si è ancora voluto liberare della carta Haftar che gli permette di dire una parola fondamentale nell’eventuale accordo tra Tripoli e Tobruk: insomma in buona parte le sorti del prossimo governo libico, se ci sarà, ma anche di un possibile intervento internazionale stanno nelle mani del generale Al Sisi.
L’insistenza egiziana a puntare su Haftar può mettere in pericolo i nostri interessi in Tripolitania. L’Italia in Libia gioca su un terreno assai rischioso. Per noi sarebbe meglio concentrarsi sui reali obiettivi strategici concentrati nell’area di Tripoli (per esempio l’hub Eni di Mellitah) ed evitare di invischiarci nella Cirenaica. Dobbiamo chiederci quindi qual è il nostro interesse minimo, visto che l’intervento militare del 2011 contro il rais Gheddafi ci ha consegnato una sconfitta sonora, in termini economici e della stabilità di un Paese che è crollato regalandoci ondate di immigrati.
Allo stesso tempo però l’Italia non può rinunciare all’Egitto. Non solo per il sostanzioso interscambio commerciale e il nuovo mega-giacimento di gas di Zhor dell’Eni ma anche per gli altri dossier in cui c’è una collaborazione bilaterale, dall’immigrazione alla lotta al terrorismo, alla cooperazione militare. Non è un caso che nell’agosto del 2014 il premier Matteo Renzi è stato il primo leader europeo ad essere ricevuto dal presidente Al Sisi, insediatosi appena due mesi prima. Anche la visita in Italia del raìs egiziano nel novembre di due anni fa è stato il suo primo viaggio in Europa. Non si è trattato di scambi di cortesie ma di gesti concreti per la sua legittimazione internazionale.
Nei giorni scorsi Renzi aveva annunciato anche un vertice governativo italo-egiziano che doveva essere preceduto dalla missione del ministro per lo Sviluppo economico Federica Guidi, sospesa dopo il ritrovamento del corpo del giovane ricercatore. E quando, il 13 marzo 2015, si tenne a Sharm el Sheikh una grande conferenza sullo sviluppo economico dell’Egitto, il premier volò sul Mar Rosso per il terzo faccia a faccia con Al Sisi al quale espresse «fiducia nella sua leadership» accreditando non solo la lotta al jihadismo nel Sinai ma anche una dura repressione contro ogni opposizione interna.
Abbiamo trattato Al Sisi con i guanti, come del resto Erdogan. «La sfida egiziana - disse Renzi - è anche la nostra sfida, la stabilità dell’Egitto è la nostra stabilità». Sembrò allora di sentire le parole del ministro degli Esteri Carlo Sforza che nel 1947 difese in Parlamento il trattato di pace con il Cairo e il versamento delle riparazioni di guerra sostenendo che l’accordo dove essere considerato l’avvio di una nuova politica mediterranea ed africana nella prospettiva dell’ineluttabile risveglio del mondo arabo. L’Egitto - disse Sforza - in quanto sede della Lega Araba, avrebbe rivestito un ruolo centrale e sarebbe stato un gravissimo errore, per l’Italia, ferirne l’onore. Ecco ora tocca all’Egitto non ferire l’onore dell’Italia raccontando bugie sulla morte di un giovane studente.
Alberto Negri

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UGO TRAMBALLI, IL SOLE 24 ORE 5/2 –
Fra le criticità e le opportunità offerte dall’Egitto, l’Italia e le sue imprese hanno sempre guardato più alle seconde che alle prime. Come ogni altro principale Paese investitore. Tutti hanno sempre saputo che fare business laggiù non è facile: burocrazia, opacità, mancanza di regole certe. Ma lo fanno.
È dal 2006 che Intesa San Paolo opera con AlexBank, l’unico istituto di credito straniero in Egitto, sotto la minaccia di un contenzioso legale contro la sua acquisizione: «Svendita di patrimonio nazionale», dicono gli appellanti che probabilmente non rappresentano solo se stessi ma interessi politici più forti. Sono molte le aziende che, come AlexBank, conoscono la difficoltà di operare nel Paese. Tuttavia fuori dalla porta dell’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi c’è la coda.
L’Arabia Saudita e gli altri arabi del Golfo hanno garantito aiuti finanziari per una ventina di miliardi di dollari. Recentemente il nuovo re Salman ha offerto un altro assegno da 8 miliardi nei prossimi cinque anni. In aggiunta ai cinque che sborserà la Banca Mondiale. Anche la missione italiana guidata da Federica Guidi, drammaticamente interrotta dalla morte di Giulio Regeni, aveva progetti da miliardi di cui discutere: alcuni già concreti, altri pieni di promesse come gli investimenti chiesti da al-Sisi per costruire sei porti a Nord e Sud del nuovo Canale di Suez.
E poi c’è Zhor, il super-giacimento di gas da 850 miliardi di metri cubi, scoperto l’estate scorsa da Eni. Poche altre attività economiche come questa, create o promesse da aziende straniere, sono una garanzia di ricchezza per l’Egitto. Ma occorre tempo. Le operazioni di estrazione sono incominciate il giorno dopo Natale ma il gas non sarà in produzione prima del 2018 o 2019. E per il momento verrà destinato solo al mercato interno. Il picco di estrazione dovrebbe essere raggiunto nel 2024 per incominciare ad esaurirsi verso il 2040. In gran parte sarà un lavoro dell’Eni.
Ma accanto a questo c’è un altro business nel quale gli italiani partono con qualche vantaggio. Zhor e le altre scoperte nella zona faranno delle coste egiziane un gigantesco hub mediterraneo per l’estrazione, la lavorazione e l’esportazione di gas. Porti, gasdotti, infrastrutture.
Ma da ieri un’ombra grava su tutto questo. La nostra presenza, i nostri interessi condivisi con quelli degli egiziani, possono essere uno strumento di pressione sul governo del Cairo per avere una modica quantità di verità e di giustizia sulla morte di Giulio Regeni? Matteo Renzi è stato il primo leader occidentale a incontrare Abdel Fattah al-Sisi. E l’unico, meno di un anno fa, a partecipare al vertice economico di Sharm el-Sheikh sul quale il presidente egiziano contava per lanciare i suoi faraonici progetti.
Diversamente dagli altri europei, il governo italiano non si è segnalato per le critiche alle ripetute violazioni dei diritti umani commesse da quello egiziano. Abbiamo sempre preferito il realismo di un Egitto stabile piuttosto che un po’ più democratico. Non è una scelta necessariamente brutale, osservando la mappa del Medio Oriente e ricordando che l’Egitto ha 90 milioni di abitanti. Non è vero che è “troppo grande per fallire”. Può fallire e, grande e affollato com’è, provocare un caos inimmaginabile.
Ma è sull’economia, cioè sul denaro, gli investimenti che producono occupazione (il 27% degli egiziani fra i 18 e i 29 anni è disoccupato e il 51,2%vive attorno o sotto la soglia di povertà) che abbiamo qualche capacità per chiedere conto della morte di Giulio. Lo faremo? È auspicabile ma è difficile. Xi Jinping aveva preceduto di pochi giorni la missione italiana, offrendo strabilianti occasioni di business: come è noto i cinesi non confondono gli affari con i diritti umani. Né lo fanno i russi, gli ultimi grandi venuti fra i clienti dell’Egitto. E in fondo nemmeno inglesi, francesi e americani sono così rigorosi quando si devono vendere squadriglie di caccia Rafale. C’è ressa alle porte dell’Egitto come di ogni regime che abbia un peso economico e geopolitico. Se usciamo dalla coda, gli altri in attesa sono solo contenti. Ma questo non esclude che un Paese autorevole – se con l’Egitto lo siamo – mostri comunque la sua dignità e chieda giustizia.
Ugo Tramballi

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ALBERTO NEGRI, IL SOLE 24 ORE 6/2 –
Un cadavere trovato in un fosso, un’altra vita spezzata, un’altra storia sbagliata e ora scriveranno fiumi d’inchiostro facendo domande a un generale che non può rispondere. Il sistema di potere egiziano, e quelli del Medio Oriente in generale, sono brutali, qui la tortura non è l’eccezione ma la regola. Lo abbiamo sperimentato il 17 gennaio 1991 in un caserma giordana, con Eric Salerno del Messaggero, una ventina di militari in divisa prima ci massacrarono metodicamente di botte usando il calcio del fucile, poi tentarono di buttarci da una finestra dove sotto aspettava una folla urlante ed eccitata. Fummo fortunati a cavarcela.
La realtà di solito è un’altra. Il generale Abdel Fattah al-Sisi, e come lui tutti gli autocrati e i regimi mediorientali, esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno: 12 se ne contavano nella Siria di Assad alla vigilia della rivolta, sei nella macchina infernale dell’Iraq di Saddam Hussein, tre in Egitto dove il Mukhabarat è andato a scuola dal Mossad. I veri capi dell’Algeria negli anni ’90 e Duemila, durante i massacri islamici, erano i generali della polizia, non i governi. I ministri di solito qui contano poco. In Turchia quando non si capisce chi fa le stragi si parla dello Stato Profondo, il “Derin Devlet”: l’intreccio tra militari, polizia, servizi, criminalità e terrorismo che sopravvive in tutte le stagioni politiche compresa questa di Erdogan. Ovunque c’è un ministro dell’Informazione per filtrare, censurare e controllare giornalisti locali e stranieri: è la stessa esistenza di questo ministero a dirci che l’informazione non è gradita, se non quando è propaganda.
Le istituzioni repressive si perpetuano nel tempo: cambiano i capi e i torturati di prima diventano dopo i torturatori. Lo Shah, all’inizio degli anni 60, sembrava in pieno controllo. Aveva creato la polizia politica Savak con 60mila agenti ma si calcola che negli anni ’70 circa un terzo degli iraniani avesse lavorato come informatore o fosse entrato in contatto con i servizi. Questi numeri possono apparire esagerati,forse lo sono. Ma lo stesso fenomeno si riscontra in molte dittature. In Iran oggi i servizi della Vevak, acronimo che ricorda sinistramente la Savak imperiale, lavorano in modo capillare e con tecnologie moderne. Una macchina formidabile ma anche semplice: per ogni due rappresentanti di un’istituzione c’è un terzo, di solito un pasdaran, che fa rapporto sull’attività interna o esterna. Hussein Shariatmadari, attuale direttore di Keyhan, un giorno mi mostrò un braccio mutilato dalla Savak dello Shah ma negli anni ’80 era lui a torturare i prigionieri nel carcere di Evin. A volte ci tengono a dirtelo per fare capire che contano davvero. L’Iran è un Paese dove la repressione è un meccanismo oliato come dimostra la fine dell’Onda Verde nel 2009 che a Teheran fallì ma anticipò il crollo dei regimi arabi.
È questo il potere che invece di sfaldarsi rinasce negli apparati. Le rivoluzioni da questo punto di vista possono sembrare illusioni ottiche. I miliziani di Mubarak sono stati riciclati da al-Sisi dopo il colpo di Stato contro i Fratelli Musulmani. In Egitto i militari come Nasser, Sadat, Mubarak, Sisi, svestono l’uniforme e mettono giacca e cravatta, ma continuano a gestire da 60 anni un lato oscuro dello Stato che è il vero potere. È questa la macchina infernale che stritola i popoli mediorientali: cambiano i manovratori non i metodi. Non c’è neppure bisogno di impartire ordini: gli apparati polizieschi che sostengono i raìs sono zelanti, anche troppo. Per questo il generale egiziano non può dirci tutta la verità su Giulio Regeni e le ombre del potere.
Alberto Negri

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ALESSANDRO ORSINI, IL MESSAGGERO 6/2 –
Al Sisi teme di cadere per mano dei nemici interni e ha un enorme interesse ad avere ottimi rapporti con i Paesi vicini, affinché questi riducano i pericoli, anziché moltiplicarli. Detto più chiaramente, al Sisi non trarrebbe alcun vantaggio a deteriorare i rapporti con l’Italia e tutto ciò che ha fatto verso il nostro Paese, almeno finora, è stato animato da una sorta di “ossessione dell’amicizia”, confermata il 30 agosto 2015, quando Claudio Descalzi, l’amministratore delegato di Eni, si recò al Cairo, sospinto dalla scoperta del più grande giacimento di gas naturale mai trovato nel Mediterraneo, nelle acque territoriali dell’Egitto.
Gioioso di stringere accordi commerciali con l’Italia, al Sisi riservò un’ottima accoglienza a Descalzi, ricambiando le parole con cui Matteo Renzi, il 13 marzo 2015, aveva espresso l’interesse dell’Italia in favore della stabilizzazione dell’Egitto. Ne ricavo che, se Giulio Regeni è stato ucciso dai servizi segreti egiziani - e se questi non sono un gruppo di “disadattati politici” che opera senza rendersi conto di ciò che fa - l’orrenda uccisione del nostro connazionale ha lo scopo di compromettere le relazioni dell’Egitto con l’Italia per danneggiare al Sisi.
Se così fosse, è davvero difficile che gli attentatori riescano a raggiungere il proprio intento, almeno per tre motivi.
Il primo è che al Sisi non può permettersi di inimicarsi un Paese importante come l’Italia, dal momento che ha pessimi rapporti con Erdogan, il quale era in ottimi rapporti con Morsi che si trova in carcere con una condanna a morte, emessa nel giugno 2015. Quando al Sisi realizzò il colpo di Stato contro Morsi, Erdogan chiese al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di colpirlo con le sanzioni, dopo averlo definito «un tiranno illegittimo». Al Sisi ricambiò generosamente, operando contro la richiesta della Turchia di ottenere un seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. I due hanno poi scaricato le loro tensioni in Libia. La Turchia condannò i bombardamenti aerei che l’Egitto condusse contro le postazioni dell’Isis, a Derna, il 16 febbraio 2015 ed è certo che al Sisi si prese una bella soddisfazione quando espulse l’ambasciatore turco.
La Turchia è schierata con il governo di Tripoli mentre l’Egitto sostiene il governo di Tobruk e questo aiuta a comprendere come mai due moncherini protostatuali, come Tobruk e Tripoli, abbiano potuto tenere sotto scacco tutta l’Europa, Stati Uniti compresi, arrivando a far saltare, per ben sette volte, gli accordi proposti da Bernardino Leon, in favore di un governo di unità nazionale che unisca le forze per combattere contro l’Isis.
In sintesi, al Sisi non resisterebbe all’ostilità congiunta di Turchia e Italia. Il secondo motivo per cui è molto difficile che gli assassini di Regeni riescano a danneggiare le relazioni tra Italia ed Egitto è la certezza che l’Italia avrà il ruolo di Paese guida in tutto quello che avverrà in Libia, nei mesi a venire. Non esiste omicidio politico che possa far cambiare idea a Stati Uniti, Francia e Inghilterra, che hanno già espresso la loro fiducia verso il nostro Paese.
Il che aiuta a comprendere, ancor meglio, le ragioni di quella “ossessione dell’amicizia” di al Sisi verso l’Italia, intesa a costruire un asse Tripoli-Roma-Cairo che in prospettiva dovrebbe accrescere la stabilità del suo governo.
La terza ragione che rende difficile immaginare che l’omicidio di Regeni possa danneggiare seriamente le relazioni tra l’Italia e l’Egitto è che la lotta contro l’Isis in Libia è, in questo momento, un interesse vitale per Stati Uniti, Francia e Inghilterra che interverrebbero, diplomaticamente, per ridurre i rischi di uno strappo tra il governo di Renzi e quello di al Sisi, obbligati a rimanere uniti, in funzione anti-Isis.

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PAOLO LEPRI, CORRIERE DELLA SERA 6/2 – 
Q uando il dolore e l’indignazione si intrecciano, come dopo l’assassinio di Giulio Regeni, il rischio è di non reagire in modo giusto. La morte non torna indietro, ma è possibile cercare di «cambiare lo stato di cose presente», come si legge nei libri che il giovane ricercatore teneva sul suo comodino al Cairo, in una città luminosa e babelica, ridotta oggi ad un nascondiglio di forze impietose e oscure.
Quanto è accaduto nell’Egitto di Abdel Fattah al Sisi deve essere un punto di svolta nella nostra percezione dell’altro (che sia un «quasi amico» o un «quasi nemico») in un nuovo disordine globale prodotto dal fallimento delle primavere arabe e dall’ascesa sanguinosa del terrorismo islamista dell’Isis. Se l’Italia è veramente un «grande Paese» (e non esiste ragione per mettere in discussione questa giusta pretesa di normalità) non può essere disposta a tollerare che la vita di un suo cittadino venga stroncata in nome dell’odio, come peraltro è probabilmente accaduto negli altri 340 casi di persone che negli ultimi mesi dell’anno scorso sono state fatte scomparire dalle squadracce al soldo di un regime senza scrupoli. Deve elaborare il lutto pensando alle mosse da compiere.
La prima è quella fare chiarezza definitiva sulla natura del regime e di Al Sisi e, più in generale, sull’atteggiamento da tenere nella geometria variabile dei rapporti internazionali interessati. Il generale egiziano è un partner prezioso nella lotta al terrorismo? La risposta è sì, ma solo perché questa è la lezione più semplice. Impossibile dimenticare, però, che la sistematica azione repressiva servita a mettere in ginocchio i Fratelli musulmani ha prodotto contraccolpi pericolosi, ha ingrossato le file dell’estremismo jihadista, è stata utilizzata cinicamente per il consolidamento del potere personale e del controllo dello Stato.
Il rispetto dei diritti umani deve essere una legge scritta a caratteri maiuscoli nel nostro universo, costi quel che costi. Ma se non fossimo in tante occasioni rimasti a guardare, quasi impotenti di fronte alla barbarie, costerebbe di meno. Ci potremmo permettere alleanze meno indiscriminate. E imporci tassativamente l’obbligo di ricordare.

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FRANCESCA BASSO, CORRIERE DELLA SERA 6/2 – 
La scoperta dell’Eni nelle acque egiziane del maxi giacimento di gas Zohr, il più grande mai rinvenuto nel Mar Mediterraneo, è forse il caso più emblematico di quella relazione storica forte tra l’Italia e l’Egitto — il Cane a sei zampe è entrato nel Paese nel 1954 —, che si traduce in una presenza consolidata delle nostre imprese. Sono oltre cento quelle che operano nel Paese in diversi settori, dagli idrocarburi al tessile, dalle costruzioni all’energia, passando dalla meccanica e dal settore bancario. E i big ci sono tutti: Pirelli, Saipem, Edison, Ansaldo Energia, Breda, Italcementi, Cementir, Danieli, Trevi, Tecnimont, Iveco, Technit, Carlo Gavazzi. L’interscambio commerciale, secondo i dati Istat, supera i 5 miliardi di euro ed è in aumento del 9,9% (2014 sul 2013), con un export in crescita ad oltre 2 miliardi.
Dopo le elezioni del maggio 2014, che hanno portato alla presidenza il generale Al Sisi, i rapporti con l’Italia si sono intensificati e le missioni governative sono state continue, con l’obiettivo di stringere nuovi accordi commerciali. L’Italia, secondo l’Ice, è il secondo mercato di sbocco in Europa dopo la Germania. La notizia dell’uccisione dello studente italiano Giulio Regeni è arrivata mentre al Cairo il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, era in missione con una delegazione di 60 aziende e i rappresentanti di Sace, Simest e Confindustria. «Un momento difficile», ricorda Marcello Sala, presidente del Business Council italo-egiziano e vicepresidente esecutivo del consiglio di Gestione di Intesa Sanpaolo, che faceva parte della delegazione. Sala conosce bene l’Egitto, ha cominciato a frequentarlo nel 2006 quando Intesa Sanpaolo è entrata nel Paese con Alexbank, che ora conta 200 sportelli con personale che parla italiano, una rete di sostegno per le nostre imprese, soprattutto quelle di medie dimensioni, che vogliono sbarcare in Egitto. «Il legame non si limita allo scambio di import ed export — spiega Sala —. Ci sono molte storie di travaso di know how , come il progetto “Cotton for life” presentato in luglio all’Expo, che ha come protagonista la Filmar». La società bresciana sta promuovendo un progetto per lo sviluppo sostenibile focalizzato sulla coltura e la valorizzazione del cotone egiziano che è di alta qualità. «Nel Paese opera anche lo storico cotonificio Alpini di Bergamo. Le nostre imprese godono del supporto di preparazione professionale dell’Istituto salesiano Don Bosco (che ha due sedi, una al Cairo e una ad Alessandria d’Egitto, ndr ), che quest’anno ha anche avviato un progetto per un corso di ingegneria con il Politecnico di Torino».
Il governo egiziano sta incoraggiando gli investimenti esteri nel Paese. Alla Conferenza per lo sviluppo economico dell’Egitto di Sharm el Sheik dello scorso marzo, a cui avevano partecipato oltre 1.800 delegati da 70 Paesi, il governo aveva illustrato un piano ambizioso che prevede investimenti per circa 80-90 miliardi su settori strategici: energia, edilizia residenziale, trasporti, grandi opere infrastrutturali e logistica. Settori in cui il Made in Italy è forte. Ma tra le opportunità offerte dal Paese ci sono anche le telecomunicazioni, uno dei settori in maggiore crescita. Mentre il turismo, che era in forte espansione, sta subendo una forte contrazione a causa del rischio elevato di attentati terroristici. «L’impatto è stato pesantissimo — spiega Sala —. Ma mentre l’economia tunisina si basa prevalentemente sul turismo, quella dell’Egitto è diversificata. Ha una struttura molto sviluppata di piccole e medie imprese e la manifattura ha un ruolo importante, così come le telecomunicazioni». L’Italia esporta soprattutto prodotti derivati dalla raffinazione del petrolio, macchinari meccanici ed elettrici, prodotti chimici e materie plastiche, mentre importiamo petrolio greggio, metalli, filati tessili, minerali e prodotti chimici. L’ultima missione del Mise ha contribuito alla finalizzazione dell’accordo per l’ammodernamento e l’espansione della raffineria di Midor, vicino ad Alessandria d’Egitto, progetto affidato a Technip Italy: un investimento da 1,4 miliardi di dollari.
Francesca Basso

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FIORENZA SARZANINI, CORRIERE DELLA SERA 6/2 – 
Le persone che hanno catturato Giulio Regeni volevano conoscere l’identità delle sue fonti. Scoprire chi gli avesse passato le informazioni contenute nei suoi articoli pubblicati sotto pseudonimo sull’agenzia Nena news — specializzata sui temi del Medio Oriente — e in parte ripresi dal quotidiano Il Manifesto . Individuare la «rete» di amici e conoscenti che lo aiutava nelle sue ricerche sul sindacato. Per questo lo hanno sottoposto a interrogatori pesanti e poi — evidentemente di fronte al suo rifiuto a collaboratore — lo hanno seviziato fino a ucciderlo.
È questa la convinzione degli investigatori che cercano la verità sulla fine dello studente italiano di 28 anni ritrovato cadavere mercoledì sera in un fosso sulla strada che dal Cairo porta ad Alessandria. Una ricostruzione che porta ai servizi di sicurezza locali, gli stessi che avrebbero poi cercato di depistare le indagini.
«Morte causata da prolungate torture», è scritto nei documenti trasmessi a Roma per via diplomatica dopo il primo esame del corpo. E questo basta a capire quanti e quali misteri debbano essere adesso svelati. Compreso quello legato ai due arresti annunciati ieri e poi non confermati, che potrebbero essere stati soltanto una «copertura» per provare a sviare gli accertamenti.
Il giorno del decesso
Regeni scompare nel pomeriggio del 25 gennaio scorso. Per sei giorni la notizia viene tenuta riservata, ma il 31 gennaio di fronte al muro eretto dalle autorità egiziane, che negano di sapere che fine possa aver fatto, la Farnesina decide di renderla pubblica con una nota ufficiale. Polizia e servizi segreti al Cairo continuano a negare di avere informazioni. Il 3 febbraio — di fronte alle insistenze italiane che minacciano la crisi diplomatica — l’ambasciatore Maurizio Massari viene informato del ritrovamento del cadavere. Il referto parla di «numerosi tagli e bruciature», il corpo è martoriato. I medici evidenziano le «prolungate torture» e ciò fa presumere che il giovane sia rimasto diversi giorni nelle mani dei suoi aguzzini. Per questo ha un’importanza fondamentale l’autopsia che si svolgerà oggi a Roma, pur nella consapevolezza che prima della consegna della salma alle nostre autorità, possano esserci stati interventi tali da alterarne lo stato.
La «rete» dei contatti
La tesi per il dottorato di ricerca che stava svolgendo aveva portato Regeni a incontrare numerose persone del sindacato, qualcuno dice che avesse partecipato anche a qualche riunione. I carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco incaricati delle indagini stanno cercando di ricostruire i suoi ultimi contatti nella convinzione che la polizia locale lo avesse già fatto e per questo avesse cominciato a tenerlo sotto controllo. L’arresto potrebbe essere avvenuto nel corso di una «retata», ma con il trascorrere delle ore si fa strada l’ipotesi che fosse in realtà mirato e che tra gli obiettivi della cattura ci fosse anche quello di impedirgli di continuare a pubblicare articoli, evidentemente ritenuti dannosi per il regime. Del resto Nena news è un’agenzia online ed è molto diffusa tra gli attivisti, soprattutto per la posizione presa in favore della rivoluzione cominciata con la primavera araba e per le posizioni di appoggio alla causa dei palestinesi.
L’altra vittima
Le «modalità» dell’omicidio sono identiche, persino nei dettagli come le date e le «giustificazioni», a quelle di un altro caso che risale a tre anni fa. Era il 25 gennaio, quando scomparve Mohammed Al Jundi, ventottenne impegnato contro il regime. Arrestato e torturato dalla polizia fu ritrovato in un ospedale il 3 febbraio e morì il giorno dopo. Anche per lui la prima versione fornita a familiari e amici parlava di un incidente stradale. Esattamente come per Giulio Regeni. Entrambi vittime di una repressione che ha coinvolto centinaia di persone. Ecco perché c’è grande cautela rispetto alla collaborazione assicurata dalle autorità egiziane. Il rischio è che un’indagine congiunta debba accontentarsi di analizzare le circostanze fornite dalla polizia e dai servizi di sicurezza locali, senza alcuna possibilità di verifica indipendente. E dunque di continuare a scontrarsi con il muro di silenzi e bugie che hanno già segnato questi dieci giorni.
I depistaggi
In questo quadro sembra rientrare l’annuncio, poi smentito, dei due arresti avvenuti ieri al Cairo, e soprattutto la notizia, circolata per tutto il pomeriggio e poi «negata categoricamente» dai servizi segreti italiani, che Regeni fosse un collaboratore o addirittura un agente dell’Aise, l’Agenzia per la sicurezza estera. E dunque che possa essere stato punito come spia. Un altro tentativo, assicurano gli investigatori, di depistare l’inchiesta. Il timore della diplomazia è che alla fine si cerchi di chiudere il caso con una verità di comodo, che il regime egiziano — per salvaguardare i rapporti bilaterali — consegni all’Italia finti colpevoli. E tenti di chiudere il caso prima possibile.

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FRANCESCO BATTISTINI, CORRIERE DELLA SERA 5/2 –
Non faceva neanche ridere. «Ne ho disegnate di migliori». Ma li ha fatti arrabbiare, e tanto: il vignettista Islam Gawish, 26 anni e un milione 600 mila follower su Facebook, una mattina s’è visto arrivare gli Scorpions della polizia egiziana. Proprio mentre parlava coi giornalisti d’un sito web. Proprio mentre l’Italia — era domenica scorsa — ancora chiedeva notizie del desaparecido Giulio Regeni. «Sono entrati in redazione, ci hanno ammanettati, hanno sequestrato i computer». La grave colpa d’Islam? Una vignetta che irrideva la nuova commissione governativa per i diritti umani e il suo presidente, Mortada Mansour, raffigurato vicino a uno sbirro a sua volta intento a torturare un poveraccio («picchialo pure, ma fallo con gentilezza!»). Gli Scorpions non hanno molto senso dell’umorismo: preso Islam, l’hanno messo dentro contestandogli l’uso di software tarocchi. Ma già lunedì han dovuto rilasciarlo: un po’ perché non avevano un mandato, un po’ perché i software erano a posto, un po’ perché la protesta montava e rischiava di degenerare. «Questo Stato dev’essere molto debole — ha detto il reaparecido Islam — se ha paura di uno come me».
Sicurezza nazionale, silenzio internazionale. Nel terzo anno di regno del feldmaresciallo Abdel Fattah Al Sisi, secondo Faraone del dopo Mubarak, al Cairo si sparisce per molto meno d’una vignetta. Human Rights Watch l’ha appena detto nel suo ultimo rapporto: «Gli ufficiali di polizia sono responsabili di decine di scomparsi», 160 in soli tre mesi del 2015. Due anni e mezzo dopo il golpe che rovesciò i Fratelli musulmani, sono 465 i casi provati di tortura in carcere. E in tempi di lotta all’Isis, nel diffuso rimpianto per la «democrature», non è che il mondo se ne sia accorto granché: ad Al Sisi ormai s’applica il principio che gli americani elaborarono all’epoca dei Somoza in Nicaragua — sarà uno spregiudicato, ma almeno è il nostro spregiudicato — e molto passa. Il generalissimo combatte una guerra vera: il charter russo esploso sul Sinai, fine ottobre, è già costato sei miliardi al turismo egiziano. E in fondo nulla è certo su questa morte: al Cairo c’è stata qualche mese fa la decapitazione d’un ingegnere croato, rivendicata dall’Isis, e di criminalità comune si muore spesso. Ma la coincidenza con l’anniversario rivoluzionario, i depistaggi spingono anche molti egiziani — ieri il nome Regeni era l’hashtag più popolare — a catalogare il caso fra le tante vittime della sicurezza nazionale: «La tortura in Egitto è ormai un fatto comune e ordinario — accusa Amnesty International — e s’assiste a un drammatico deterioramento nel rispetto dei diritti umani».
Diritti&delitti. Per Gamal Eid, leader d’una storica ong, «oggi in Egitto ci sono almeno 60 mila prigionieri politici». E la grande opera di Al Sisi — altro che le trivellazioni Eni nel Mediterraneo o il raddoppio del Canale o il gigantesco porto franco di Suez (dieci volte quello degli Emirati) già promesso agl’italiani — «sono le carceri: con l’ultimo decreto di gennaio ha ordinato quella enorme di Giza, ma in trenta mesi ne ha già progettate sedici». Ogni giorno, qualcuno da levar di torno. Gli ultimi: il medico Taher Moktar arrestato perché chiede di rispettare i detenuti, l’avvocato Tarek Elawady bloccato in aeroporto perché si batte per i diritti umani, il poeta Omar Hazek fermato mentre va in Olanda a ritirare un premio, la sociologa Amal Grami zittita alla Biblioteca d’Alessandria ed espulsa in Tunisia, un ricercatore egiziano della Nasa non gradito perché troppo critico… Difficile, lavorare al Cairo: se devi girare immagini, compili moduli per settimane e non è detto che basti; se provi ad andare nel Sinai, chiedi timbri che non ti daranno mai; se intervisti qualcuno sulla lista nera, compare chi chiede di te al portinaio. E non dimenticare mai un nome: Ayman Helmy, il potente capo della polizia che tutto può. Anche scrivere di sindacalisti rompiscatole, sotto pseudonimo e forse senza press card come faceva Regeni, è rischioso: «Ci sono nostri ricercatori — racconta Amy Austin Holmes, docente di sociologia all’American University del Cairo — che sono stati arrestati per le inchieste che stavano facendo». Narra una fiaba egiziana che il dio della saggezza un giorno creò la Storia e le disse: vai sulla terra e annota tutto ciò che vedi. La Storia s’imbatté in una bella donna che stava istruendo un ragazzino: quella donna era l’Egitto, quel ragazzino era il mondo. Umm ad-Dunya, chiamano ancora oggi Il Cairo: la madre del mondo. Qualche volta, matrigna cattiva.

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BERNARDO VALLI, LA REPUBBLICA 6/2 – 
Cinque anni fa piazza Tahrir, nel cuore del Cairo, a due passi dal Nilo, si riempiva di migliaia di egiziani inneggianti alla libertà e alla democrazia. Assistendo quel giorno di fine gennaio alla manifestazione improvvisa, impetuosa ma non violenta, in cui non risuonavano i soliti richiami religiosi, non mi sfiorò neppure l’idea che in diciotto giorni quella folla disarmata avrebbe scalzato dal potere Hosni Mubarak, presidente da trent’anni.
E quando questo accadde, non fui il solo a sorprendermi del ruolo decisivo svolto dalla quasi onnipotente società militare. Sia pur riluttante essa sembrava aver interrotto la tradizione che riservava ai suoi rappresentanti sulle sponde del Nilo il posto di capo dello Stato. Dalla proclamazione della Repubblica, nel 1952, il rais era sempre stato un uomo in divisa: Naguib, Nasser, Sadat, Mubarak. Ed ecco che la società militare rinunciava alla vocazione bonapartista, coltivata dall’epoca ottomana. E lasciava al suffragio universale il democratico diritto di scegliere il primo cittadino della Repubblica.
In realtà era una concessione temporanea. Era un abbaglio credere che l’elezione dell’islamista Mohammed Morsi, oggi in galera, potesse essere rispettata fino alla legittima scadenza. I generali hanno lasciato alle avanguardie democratiche il tempo di sognare la vittoria e ai Fratelli musulmani, più popolari, di appropriarsene trionfando alle elezioni. E di dimostrare poi, molto presto, la loro incapacità a governare. Nei cinque anni ci sono stati referendum caotici, due parlamenti eletti, due presidenti e migliaia di morti. È stata una “ricreazione”, ricca di speranze, illusioni, inganni e sangue, alla quale la società militare ha messo fine con la forza. Ha riportato più che l’ordine la disciplina, uccidendo gli avversari e riempiendo le prigioni, e riassumendo tutti i poteri in realtà mai abbandonati.
I cicli rivoluzionari sono lunghi e imprevedibili. Le restaurazioni non riescono sempre a spegnere del tutto i fermenti della rivolta originaria. I quali possono riemergere a distanza. Ma per ora la saga dei generali ha ripreso al Cairo. Continua il racconto dei rais in uniforme. Il sessantenne Abdul-Fattah al-Sisi, autentico prodotto della società militare, è stato il regista dei cinque anni iniziati in piazza Tahrir. Non li ha sempre dominati, ha seguito gli avvenimenti con l’attenzione di una casta di ufficiali che insieme al nobile compito di difendere i confini della nazione, si riserva anche l’incombenza meno popolare ma più redditizia di vegliare all’ordine interno. Ed è quest’ultima missione che soprattutto l’impegna, attraverso un’attività spesso di intelligence. In cui è compresa l’azione psicologica. Quest’ultima favorita dal fatto che le forze armate, non particolarmente distintesi nei conflitti con Israele, sono invece versate a varie attività commerciali e industriali: pozzi di petrolio, alberghi, apparati turistici, tenute agricole, ospedali. Sono insomma proprietarie di larga parte delle attività economiche. E quindi sono dispensatrici di occupazioni a tutti i livelli.
Il presidente Sisi ha frequentato accademie in Arabia Saudita e negli Stati Uniti. Dove ha avuto la possibilità di fare un confronto tra una società occidentale liberale e la sua società musulmana. Questa esperienza non ha relativizzato la sua fede nell’Islam. Al contrario l’avrebbe rafforzata. Egli è un musulmano devoto, le donne della sua famiglia portano il foulard islamico, ma è anche un militare che non ha tollerato la concorrenza dei Fratelli Musulmani e la loro goffa inesperienza. Ha salutato l’elezione di Morsi ma ben presto l’ha messo in disparte, come un semplice politicante, intrigante e incapace. Pochi mesi dopo, repressi i Fratelli musulmani, e dichiaratili fuori legge, si è fatto eleggere alla presidenza con una valanga di voti in larga parte probabilmente autentici, poiché incarnava l’esercito e quindi l’ordine di cui il-Paese sentiva il bisogno. Il presidente Sisi è anche un moralista rigido per quanto riguarda i costumi della società. Quando in piazza Tahrir fu controllata all’improvviso la verginità delle donne che la frequentavano, fu lui a spiegare come l’iniziativa volesse garantire l’innocenza dei militari accusati di stupro. Gli oppositori e i gruppi interessati ai diritti dell’uomo stimano a quarantamila i detenuti nelle carceri egiziane. E denunciano torture sistematiche. Segnalano inoltre un importante numero di persone scomparse.
Prelevate dalla polizia senza alcun controllo giudiziario. Alcune ricompaiono dopo avere subito evidenti violenze. Le perquisizioni che appaiono arbitrarie, compiute da gruppi tollerati ma senza alcuna impronta ufficiale, nelle società editoriali, nei circoli culturali, negli ambienti artistici mobilitano gli avvocati che hanno tuttavia un’azione molto limitata. I metodi sbrigativi, giustificati con la sicurezza, non investono soltanto gli ambienti sospetti di salafismo radicale o di jihadismo ma anche liberali, ancora legati allo spirito di piazza Tahrir.
L’Egitto usufruisce di una vasta indulgenza: è alleato scomodo ed essenziale. Se il regime militare risultasse seriamente minacciato dai salafisti radicali e dai jihadisti l’intera regione ne risentirebbe. E nel caso di un probabile intervento in Libia, per snidare lo Stato islamico che si è installato lungo la costa mediterranea, l’Egitto sarebbe una base indispensabile. La necessità e la morale non vanno d’accordo.

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VINCENZO NIGRO, LA REPUBBLICA 5/2 –
In Egitto i desaparecidos li chiamano muktafi. Scomparsi. Paradossalmente fino al luglio del 2013, quando con un golpe il generale Sissi riportò i militari al potere, in Egitto non c’erano muktafi. La violenza della polizia di Mubarak era selvaggia, il regime oppressivo, ma i corpi delle vittime venivano fatti ritrovare.
Fu ritrovato quello di Khaled Said, il 7 giugno del 2010. Massacrato di botte ad Alessandria d’Egitto. Il suo martirio accese la miccia della rivoluzione, quella che nel gennaio 2011 portò prima all’arresto di Mubarak, poi alla presidenza del Fratello musulmano Morsi e poi all’avvento del regime militare di Al Sisi. Con un golpe incitato dalla piazza laica egiziana, e sostenuto da tutta Europa.
L’Egitto è un partner economico strategico per l’Italia e l’Europa, per la Francia è un mercato militare straordinario. Per tutti un alleato contro i jihadisti. Ma con Sisi al potere il pugno di ferro sul paese è peggiorato sempre di più. Innazitutto contro i Fratelli Musulmani: 4.000 uccisi, 30.000 in carcere, dichiarati in blocco tutti “terroristi”, anche i più innocui e moderati. La violenza è poi cresciuta esponenzialmente anche contro i figli della rivoluzione, i giovani di Facebook e piazza Tahrir, i ragazzi che Giulio Regeni doveva incontrare il 25 gennaio. L’anniversario della cacciata di Mubarak.
Human Rights Watch elenca le centinania di persone “muktahi” scomparse e mai ritrovate, i torturati, i detenuti illegalmente, senza sentire neppure un giudice. Per
Hrw «le autorità continuano a limitare la libertà d’espressione aprendo indagini sulle Ong, arrestando persone sospettate di essere gay o transgender, o perseguitando giudiziariamente coloro accusati di diffamare la religione». Il primo rapporto drammatico sul nuovo Egitto Hrw lo pubblicò nel 2014, dopo le uccisioni di massa del 2013 nelle piazze di Rabaa e Nahda del Cairo, quelle in cui i Fratelli musulmani finirono sotto il tiro dei fucili della polizia e dei servizi segreti. Solo nel 2015 12.000 persone sono state arrestate con l’accusa di “terrorismo” rivolta anche a studenti, blogger o giornalisti. Una nuova legge manda direttamente in carcere i giornalisti che contraddicono la versione della polizia su incidenti o attentati terroristici.
Hassam Bahgat, un giornalista investigativo arrestato dalla polizia segreta militare, ha raccontato la settimana scorsa la “preparazione” che i servizi di sicurezza avevano messo in piedi prima del quinto anniversario della rivoluzione, quel 25 gennaio in cui è scomparso Regeni. «E’ il peggio che si sia mai visto in Egitto, un livello di violenza inconcepibile: non si era mai visto nulla del genere con Mubarak, e i nostri vecchi ci dicono che non è neppure lontanamente comparabile a quello che l’Egitto ha vissuto negli anni Cinquanta, ai tempi di Nasser».
La verità è che durante il regno di Mubarak, negli anni di Nasser, non c’era la minaccia dei jihadisti, che colpiscono nel Sinai ma anche al Cairo. «Ma sotto la copertura della lotta al terrorismo ormai passa di tutto», dice Esra Abdel Fatah, una dei fondatori del “Movimento 6 aprile” di piazza Tahrir: «C’è gente arrestata per un tweet, per una parola su Facebook, ci sono decine e decine di persone che scompaiono, senza accuse, senza imputazioni».

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ROBERTO TOSCANO, LA REPUBBLICA 5/2 –
NO, non è stato un incidente stradale a stroncare, al Cairo, la giovane vita di Giulio Regeni. Lo sosteneva fino a poche ore fa la versione ufficiale della polizia, ben presto confutata dalla magistratura locale e dagli atroci particolari di quello che è un barbaro delitto. Giulio è morto a seguito di ferite da arma da taglio, bruciature, contusioni e il suo corpo è stato buttato in un fossato.
Sarebbe azzardato tentare una ricostruzione di quello che può essere avvenuto, ma va detto subito che le modalità del crimine permettono di escludere che si tratti di un episodio di criminalità comune, come una rapina trasformatasi in omicidio.
Da quella ferocia traspare invece l’odio, la volontà — che può essere solo politica — di punire una trasgressione o una intromissione in spazi proibiti. Giulio conosceva bene l’Egitto, lo amava, aveva molti amici, uno dei quali avrebbe dovuto incontrare su Piazza Tahrir, il luogo emblematico della protesta del 2011.
Vogliamo saperne di più: lo chiede una famiglia devastata dal dolore, ma lo chiede anche un Paese che si occupa, e si preoccupa, della sorte dei propri cittadini ovunque essi si trovino. Ci vorrà tempo, e speriamo che le contraddizioni immediatamente emerse fra le versioni delle autorità egiziane non siano il presagio di un insabbiamento, di una confusione in cui l’inefficienza burocratica potrebbe intrecciarsi con la volontà di non arrivare a una risposta. Ma già è possibile fare qualche riflessione.
In Egitto la violenza contro gli stranieri è drammaticamente nota, dagli attacchi con bombe e kalashnikov a gruppi di turisti al recente attentato che ha portato all’esplosione in volo di un aereo russo in partenza da Sharm el-Sheikh. Azioni il cui scopo è quello di chiudere un flusso di visitatori da tutto il mondo che per l’Egitto riveste un’importanza vitale. Sono stati certamente dei terroristi a mettere non molto tempo fa la bomba al consolato italiano al Cairo, ma i terroristi non se la prendono con uno straniero isolato, a meno che non si tratti di rapirlo e chiedere un riscatto.
Ripetute denunce di Ong per i diritti umani sia egiziane che internazionali permettono di formulare un’ipotesi più credibile. Vi si parla di numerosi episodi di sequestro, da parte di forze di sicurezza, di persone che vengono torturate per poi essere in alcuni casi rinviate a giudizio, di solito con l’accusa di terrorismo, mentre in altri casi le detenzioni rimangono clandestine e gli arrestati rimangono a lungo nella condizione di “desaparecidos” o vengono ritrovati morti.
L’Italia ha legittimamente chiesto di potere affiancare gli investigatori egiziani per dare risposte credibili a questi angosciosi interrogativi, ma in attesa di chiarimenti che purtroppo potrebbero tardare, è legittimo spostare la nostra attenzione dal caso al contesto in cui questa atroce morte si è verificata: l’Egitto del presidente Sisi.
Dopo la delusione delle speranze suscitate dalla Primavera Araba, che proprio in Egitto aveva prodotto gli effetti politici più significativi, con la caduta di Hosni Mubarak, il timore del caos — un caos in cui trova spazio e alimento l’offensiva del jihadismo radicale — ha portato un po’ tutti, americani ed europei (compresi noi italiani) a decidere che tutto sommato era meglio tornare a un passato antidemocratico e repressivo capace di garantire, con l’avvento di un regime stabile, la nostra sicurezza e i nostri interessi economici. Lo chiamiamo realismo, ma lo è davvero?
In Egitto si reprimono nello stesso tempo i sostenitori dei Fratelli Musulmani e i giovani liberali che cercano di preservare spazi di libertà e di pluralismo. Ci si deve però chiedere quanto a lungo sarà sostenibile un potere che non è nemmeno una riedizione dell’autoritarismo di Mubarak, spesso mediato da forme di consenso e inclusione, ma è ormai un regime di militarismo puro.
Stabilità regionale, sicurezza e interessi economici sono certamente fattori da tenere presenti nel quadro della nostra politica internazionale, ma si dovrebbe evitare di definire le nostre politiche sulla base del breve termine e della rimozione di un ragionamento serio sulle prospettive anche a medio termine. È giusto essere realisti e incoraggiare, in Medio Oriente e Nord Africa, governi che sono ancora largamente autoritari, ma che non sono costretti, per mantenersi, a puntare su una feroce e indiscriminata repressione — governi che dovremmo cercare di accompagnare in un percorso graduale che dovrebbe tendere a rendere stabilità e democrazia finalmente compatibili. Governi, per intenderci, come quelli di Marocco e Giordania.
Dopo il colpo di Stato del Generale Sisi, all’inizio salutato da molti che constatavano l’inettitudine del governo dei Fratelli Musulmani e ne temevano le intenzioni, l’Egitto si è invece incamminato senza mediazioni su una strada radicalmente diversa in cui la violenza tende sempre più a costituire l’unico terreno della politica creando un contesto in cui aumenta il rischio per tutti — egiziani e stranieri — di diventare vittime.

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FRANCESCA PACE, LA STAMPA 6/2 –
«Giulio è stato ucciso così»: a raccontare cosa potrebbe essere avvenuto all’italiano Regeni è uno dei suoi amici egiziani, originario di El Fayoun. Chiede l’anonimato, ci parla tradendo evidente tensione. Ci dice quanto è avvenuto a lui stesso per descrivere cosa è «probabilmente successo anche a Giulio»: «Sono venuti a prendermi a casa una sera verso le 19, hanno messo tutto sottosopra, hanno preso l’hard disk del pc, mi hanno bendato e legato le mani dietro la schiena e poi mi hanno caricato in macchina, un’auto grande, grigia. Non potevo guardare fuori dal finestrino ma ho riconosciuto la strada, stavamo andando alla borgata “6 Ottobre” e l’ho capito subito perché ho delle persone care che abitavano laggiù.
E so bene dove si trova la “prigione” in cui la “sicurezza dello stato” interroga e tortura la gente. Temo che sia lo stesso posto in cui, passando per qualche commissariato di Giza, è stato portato anche il mio amico, vostro connazionale, Giulio con esiti penosamente diversi dal mio, dai segni lasciati sul suo corpo riconosco una firma che mi è tristemente nota».
Il ragazzo che parla ha l’età di Giulio Regeni, ed è stato arrestato più volte, l’ultima pochi mesi fa. Nella cerchia di amici e conoscenti Omar non si rassegna per non aver iniziato subito la campagna sui social alla scomparsa di Giulio («Lo avremmo salvato come il comico Islam Gewish, invece tenendo il profilo basso abbiamo perso tempo, Giulio è morto poco prima che lo ritrovassero, il sangue era ancora fresco»), ma è il racconto di questo giovane medico di Fayoun a gettare la luce più sinistra sulla tragica vicenda.
Mentre i coniugi Regeni sono prossimi a tornare in Italia dove oggi arriverà la salma, l’amico di Giulio ci spiega cosa succede dentro quelle caserme: «I primi due giorni mi hanno tenuto in un bagno, per terra, un sandwich al giorno e acqua. Non mi picchiavano. Dicevano che sapevano dei miei contatti e io ripetevo che non sapevo nulla. Minacciavano di ammazzarmi, di violentare mia madre e le mie sorelle, la prima tortura è toglierti la dignità. Poi mi hanno portato in una cella sotterranea dove sono rimasto al buio per altri 8 giorni e lì si sono tolti i guanti. Hanno usato l’elettricità perché sotto gli 80 volt lascia meno segni e giacché io avevo contatti con i media sapevano che avrebbero dovuto ammazzarmi perché una volta libero non li mostrassi. Quando usano il taglierino vuole dire che hanno deciso che non esci vivo da lì. Le scariche duravano alcuni minuti, dopo perdevo i sensi. Ricordo che dormivo, sonni vuoti, non pensavo a nulla ma sebbene non sia credente per la prima volta mi sono ritrovato a pregare. Ero certo di morire. Le scosse elettriche me le mettevano sulla schiena, nella parte bassa, vicino ai reni, e sulle ginocchia: sentivo il corpo come “shakerato”, sarà stato per isteria ma ridevo e poi svenivo. Un giorno mi hanno bendato di nuovo e sotto casa mi hanno detto di scendere e non voltarmi indietro a guardarli o sarebbero tornati e non avrei più potuto parlare. Ho aspettato, sono risalito. Subito dopo sono andato al supermercato, avevo bisogno di toccare, letteralmente toccare, il formaggio, i succhi di frutta, le scatolette di fagioli, non credevo che avrei potuto farlo mai più». Tiene gli occhi bassi, parla mangiandosi le parole e le unghie: «Giulio non ha potuto farlo più. Io sono egiziano ok, ma lui no, non era nemmeno la sua causa, è morto per noi».
Poche ore prima la capitale egiziana aveva dato l’ultimo saluto al ricercatore italiano scomparso il 25 gennaio in un clima di paura diffusa, palpabile. Gli amici di Giulio sono sfingi, gli attivisti, anche i più loquaci, stanno in silenzio, i loro cellulari squillano a vuoto. I compagni del corso all’American University, quasi tutti stranieri sui 25 anni, sono stretti intorno alla migliore amica di Giulio, Noura Wahby, velo bianco sul capo, molto più magra delle foto in compagnia di lui che ha diffuso sui social quando ha dato l’allarme. Come mamma Regeni, piange senza freni e abbraccia a lungo il corpo del ragazzo coperto da un lenzuolo e da fiori rossi e bianchi: «Amava questa città, amava noi».
Sono stati i suoi studi sulle rivendicazioni operaie a ridurlo in quel modo, tagli di lama sotto gli occhi, le orecchie e il naso, bruciature e segni di elettrodi sul corpo? Amy Austin Holmes, docente all’American University Cairo, dove da settembre Giulio era di casa, ammette: «Insegno dal 2008 e devo ammettere che non mai stato cosi difficile e pericoloso condurre ricerche qui come ora. Conosco numerosi studenti che sono stati arrestati, detenuti o impediti dall’entrare in Egitto e molti di loro lavorano agli stessi temi di Giulio, il lavoro e la politica in Egitto». Eppure, ragiona in un caffè di Zamalek un altro amico, le domande sono più delle risposte: «Giulio sapeva quello che faceva, al suo compleanno gli abbiamo regalato una torta con sopra il disegno di quel Marx che apprezzava tanto ma lui non ha mai condiviso la foto sui social, conosceva la sicurezza egiziana, non si è mai messo a rischio».
Qualcuno fra gli amici azzarda delle ipotesi: l’hanno preso per caso, o un regolamento di conti. Oppure è un regolamento di conti interno, la frangia dei servizi che vuole fare fuori Sisi e che spera di farlo entro pochi mesi con l’aiuto di una parte dell’esercito ha tirato fuori il cadavere il giorno in cui il Presidente era a colloquio con gli imprenditori italiani. Intanto ci sono stati due arresti. Fonti della polizia fanno filtrare che siano due «criminali» comuni. E cominciano a circolare voci su una presunta omosessualità di Giulio lasciando intendere che l’omicidio potrebbe aver un movente sessuale. Ma non c’è alcuna conferma indipendente. Quello che sappiamo è che Giulio Regeni aveva una ragazza in Ucraina e che era andato a Kiev a trovarla da poco. E uno degli ultimi sms prima di sparire era stato inviato a lei.

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ROLLA SCOLARI, LA STAMPA 6/2 – 
Quando la rivolta di Piazza Tahrir era ancora lontana, quando il movimento che per primo ha sfidato il regime di Hosni Mubarak si chiamava Kifaya - Basta in arabo - le proteste attiravano poche decine di manifestanti. Era il 2004 e nei cortei c’erano sempre i soliti volti noti, eppure attorno a loro si creava un impressionante cordone di polizia in assetto anti-sommossa. Quegli anni di primo dissenso hanno accresciuto l’odio della popolazione per la polizia. La repressione dell’era Mubarak, gli arresti, le detenzioni arbitrarie, le torture nelle celle delle caserme hanno contribuito a spingere migliaia di persone a scegliere nel 2011 proprio il 25 gennaio, giorno di celebrazione nazionale dell’eroismo della polizia contro il colonizzatore britannico, per scendere in strada contro il regime.
Simbolo di oppressione
Non sono i malpagati giovani che ciondolano magri a ogni angolo di strada, nelle uniformi rattoppate nere di inverno e bianche d’estate, a suscitare terrore. Questi si occupano di incidenti stradali, furti, piccoli crimini. Sono le unità segrete dei servizi di sicurezza, Amn ad-Dawla in arabo - l’eterno simbolo di oppressione nel Paese, temute soprattutto oggi con un ritorno della repressione. Il principale apparato di intelligence del ministero dell’Interno si occupa del controllo dei gruppi d’opposizione ai regimi. Una delle più sentite vittorie della rivoluzione è stata, a marzo 2011, la sua abolizione. È stato un successo breve: a luglio 2013, dopo la deposizione del presidente dei Fratelli musulmani Mohammed Morsi e l’ascesa dei militari, con il crescere degli scontri, i servizi di sicurezza del passato sono stati reinstaurati. «È un ritorno all’era di Mubarak», aveva detto al Guardian Aida Seif al-Dawla, tra le maggiori attiviste per i diritti umani in Egitto. «Queste unità hanno commesso le violazioni più atroci». Sotto l’ex presidente, spiega Hisham Kassem, storico dissidente dell’era pre-rivoluzionaria, c’era però qualcosa di diverso. «Nessuno fiatava senza il permesso di Mubarak. Adesso i servizi di sicurezza non sono ben controllati dal capo di Stato», Abdel Fattah al-Sisi. «Il suo è un sistema autoritario collassato e gran parte dei comportamenti all’interno delle forze di sicurezza sono generati da conflitti».
Nel caos della transizione dalla caduta di Mubarak all’avvento di Al Sisi, tra il 2011 e il 2013, i servizi di sicurezza hanno rafforzato la loro autonomia. E alcuni episodi raccontano le fratture interne: il processo ai giornalisti di al-Jazeera, secondo alcuni osteggiato dalla presidenza ma voluto da apparati giudiziari e ministero dell’Interno; l’arresto controverso dell’uomo d’affari Salah Diab, figura influente, le cui immagini in manette sono state controproduttive per i vertici politici; l’annuncio da parte dei giudici ad aprile 2014 di centinaia di condanne a morte mentre il ministro degli Esteri Nabil Fahmi era in visita negli Stati Uniti.
Scrive H.A. Hellyer sul sito dell’Atlantic Council che quello di Sisi non è un regime coeso, ma l’azione spesso autonoma di diverse entità statali: militarti, apparato di sicurezza, magistratura, presidenza. In questo contesto, la leadership «spera che l’attuale guerra al terrorismo contro una crescente insorgenza islamista ristabilisca un’immagine positiva della polizia», scrive il Washington Post.
Negli ultimi mesi, infatti, i poliziotti sono diventati obiettivo di attacchi di cellule emerse dallo sfascio dei Fratelli musulmani o, nel Sinai, di gruppi legati allo Stato islamico. Facendo leva sul breve momento di popolarità avuto dalla polizia in seguito alla deposizione di Morsi, quando gli agenti erano scesi in strada con i manifestanti, il regime tenta ora di mostrarli come eroi della lotta al terrorismo.

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UGO TRAMBALLI, IL SOLE 24 ORE 6/2 – 
Niente definisce la figura di al-Sisi, il suo successo e le aspettative dell’Egitto, quanto le 45 miglia del nuovo canale di Suez e gli 8 miliardi di dollari, raccolti in gran parte dalla gente, per scavarli. E non metaforicamente ma con badili e strumenti meccanici, erano stati gli egiziani a farlo: cioè il Genio dell’esercito. L’inaugurazione di agosto, monumentale, spettacolare ma caoticamente organizzata, era stata una metafora dell’Egitto di oggi. Scoprire che ad ottobre, dopo tanto impegno nazionale, gli introiti sono calati del 3% è stata una delusione. La causa principale è la crisi globale, il rallentamento dei commerci. Ma il canale, i miliardi raccolti e promessi dal business internazionale per i grandi investimenti strutturali, sono al momento l’unico successo tangibile della “Sisi Economics”, molto simile al modello di sviluppo che aveva reso ricca la Cina, prima del suo rallentamento. Su tutto il resto – riforme interne, burocrazia, piccola e media impresa, trasparenza, occupazione, riserve valutarie – le cose non funzionano come era stato promesso. Nonostante la larghezza dell’aiuto economico a scopo politico di sauditi ed emirati del Golfo.
«Pane, libertà e giustizia sociale», era lo slogan della grande rivolta iniziata cinque anni fa in piazza Tahrir. Ma anche se al-Sisi, il suo governo e i militari, si sentono i continuatori e non gli oppressori di quella rivoluzione, nessuno di quegli obiettivi è stato raggiunto. Quanto a libertà, l’Egitto ne ha molta di meno di quella scarsa che godeva ai tempi di Hosni Mubarak. Ma anche sul piano sociale ed economico non si vedono risultati. Il vecchio regime aveva fallito nel creare equità sociale, ma per anni la crescita economica è stata solida, superiore al 5%.
Alla fine dell’anno scorso, un mese fa, la disoccupazione era al 12,8%, calcolata su una forza lavoro “ufficiale” di 28 milioni di egiziani. Meglio del 2013, quando cadde il governo dei Fratelli musulmani, ma peggio dell’anno scorso. Il problema è che la manodopera informale disponibile è molto più vasta. I giovani fra i 20 e i 30 anni sono circa il 30% della popolazione e il 30% di loro è disoccupato. I militari del Genio impiegati nello scavo del nuovo canale di Suez sono stati un esempio di patriottismo, ma ciò significa che per il momento i grandi progetti infrastrutturali non sono ancora diventati il desiderato serbatoio di occupazione.
Dovrebbe esserlo il gigantesco progetto per la costruzione di un milione di nuove case, ma l’inizio dei lavori è bloccato. Il mega giacimento di gas scoperto da Eni al largo delle coste mediterranee è una promessa per il futuro: ma nel frattempo il governo deve garantire la distribuzione di energia per il 2016. I blackout e la benzina scomparsa ai distributori provocarono il crollo del consenso per l’ex presidente Mohammed Morsi, permettendo ai militari di agire nell’estate 2013. A questo si aggiunge il turismo, fonte di valuta e di manodopera del Paese, preso di mira dal terrorismo islamico. Perfino nel fortilizio di Sharm el Sheikh, presidiato dalle forze di sicurezza.
Era nella doppia promessa di sicurezza e sviluppo economico che al-Sisi aveva ottenuto il sostegno di milioni e milioni di egiziani, per abbattere il governo di Morsi. La prima è stata garantita al prezzo di leggi speciali applicate con una brutalità che non esisteva ai tempi di Mubarak. Per il secondo occorre più tempo ma gli egiziani non ne vedono i segnali. A partire dalla burocrazia – 5,6 milioni di dipendenti pubblici per le statistiche governative, 7,2 milioni secondo la Banca mondiale – che sembra potente, opaca, inefficiente e irriformabile.
Ugo Tramballi

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LUIGI GUELPA, IL GIORNALE 5/2 –
L’Italia ha scommesso sul nuovo corso di Al Sisi e sul ruolo stabilizzatore che questo può giocare nella regione. Oggi però il rapporto privilegiato che Roma vanta nei confronti dell’Egitto rischia di andare in corto circuito per la vicenda di Giulio Regeni, il giovane trovato morto al Cairo. I rapporti tra Italia ed Egitto sono sempre stati molto solidi all’interno del bacino del Mediterraneo. La presenza italiana costituisce infatti una sorta di testa di ponte per la proiezione verso il Nord Africa e il Medio Oriente. La relazione italo-egiziana ha un valore strategico anche per il Cairo, che vede nell’Italia la via più facile per accedere al mercato europeo. In ballo c’è un interscambio da 4,1 miliardi di euro, che entro la fine dell’anno diventeranno quasi il doppio. I 900 progetti di investimento sono favoriti dall’assenza di un tessuto imprenditoriale strutturato in Egitto che ha aperto uno spazio consistente per le aziende italiane, in grado di fornire competenze tecniche e industriali. Poi ci sono, altrettanto importanti, accordi che riguardano la lotta al terrorismo e all’immigrazione clandestina, e le misure da adoperare nella crisi libica. Matteo Renzi è stato il primo leader occidentale ad atterrare al Cairo, il 2 agosto 2014, per stringere la mano al presidente Abdel Fattah Al Sisi, che si era insediato appena due mesi prima. Una visita preceduta da due missioni dell’allora ministro degli Esteri Mogherini e dai viaggi del ministro dell’Interno Alfano e della Difesa Pinotti. Nel novembre dello stesso anno Al Sisi volò a Roma (prima volta in Europa) in veste ufficiale e l’anno successivo ancora Renzi si presentò nella terra delle piramidi per il vertice di Sharm el-Sheikh. E se non ci fosse stato in ballo la questione Regeni, il ministro per lo Sviluppo economico Guidi sarebbe partita la prossima settimana alla volta dei Cairo per organizzare un nuovo vertice bilaterale.La vivace attività diplomatico-economica è giustificata dal fatto che l’Egitto ha le carte in regola per presentarsi come potenza stabilizzatrice della regione. Il Cairo ha saputo giocare il ruolo di negoziatore nel conflitto israelo-palestinese, ha interesse a risolvere il dossier libico ed è al centro di tutte le questioni legate alla lotta al terrorismo di matrice islamica. L’Egitto è una nazione minacciata dalle cellule jihadiste: non è un mistero che Al Baghdadi vorrebbe usare il Cairo come avamposto per il Maghreb. La presenza del gruppo Ansar Beit al-Maqdes, i Partigiani di Gerusalemme (autori dell’attentato all’aereo russo sui cieli del Sinai) è molto di più di una spina nel fianco. Il Cairo ha posizioni più interventiste rispetto all’Italia e ha colpito in passato postazioni del sedicente Stato islamico sia nel Sinai che in territorio libico, dopo l’uccisione di 21 cristiani copti egiziani, utilizzando indistintamente F-18 e Mirage 2000 di fabbricazione Usa, e Mig 29 e Sukhoi su-27 di provenienza russa. Gli egiziani hanno un debole per le armi e ancora di più per i militari: di fatto dopo re Faruq a governare la nazione sono stati Nasser, Sadat, Mubarak e appunto Al Sisi, tutti generali. Quando l’ingegner Mohamed Morsi, leader della Fratellanza musulmana, prese il potere, ci furono sollevazioni popolari che portarono 30 milioni di egiziani in strada. Gli stessi che si astennero colpevolmente dal voto favorendo la vittoria del Partito Libertà e Giustizia. «La sfida egiziana è anche la nostra sfida, la stabilità dell’Egitto è la nostra stabilità», ha dichiarato Renzi il 13 marzo dello scorso anno da Sharm el-Sheikh. Mai come in questo momento però i due Paesi sono distanti. La morte del giovane ricercatore friulano è uno strappo che va ricucito per rigenerare un rapporto vitale nel traballante scacchiere del Mediterraneo.

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STEFANO STEFANINI, LIBERO 5/2 –
Italia e Egitto sono improvvisamente a un bivio che può segnare irrevocabilmente i loro rapporti. E sullo sfondo la già pesante esposizione del nostro Paese a un Mediterraneo in fiamme. Il Cairo e Roma si trovano in una strettoia fra difesa dei diritti umani, in questo caso dell’incolumità di un cittadino italiano, e rispetto reciproco fra due amici, alleati e partner legati da una fitta rete d’interessi e minacce comuni. Gestire la crisi richiede che entrambe le parti non si lascino prendere la mano dall’inerzia della convinzione delle proprie ragioni.
Quello che è essenziale in situazioni come questa è di lasciare all’altra parte una via d’uscita - di riconoscerne le esigenze e vincoli.
In primo luogo viene la tragica vicenda di Giulio Regeni. L’Italia non può transigere sulla morte di un connazionale, per di più in una città e fra gente amica. Per di più quando vi sono coinvolti elementi che agivano per lo Stato egiziano. La linea fin qui seguita dal presidente del Consiglio e la composta fermezza dell’ambasciatore Massari sono state impeccabili. È essenziale mantenere quest’atteggiamento, senza sbavature, ma anche senza cedimenti alla tentazione di pronunciamenti pubblici che tradiscano incapacità di mettere l’Egitto di fronte alle proprie responsabilità e dare
al Cairo modo, e un minimo di tempo, per assumersele.
Per l’Italia non è certo il momento di scendere a compromessi sulla pelle di un proprio giovane, ma neanche quello di diktat.
Ma neppure l’Egitto può transigere sulla necessità di rendere conto all’Italia (e, per inciso, alla comunità internazionale che osserva) di quanto avvenuto. Al Cairo è morto un italiano. Non è stato un incidente stradale. Non bastano scuse o promesse. L’Italia ha il diritto di chiedere, come ha fatto, e di sapere chi siano i responsabili. L’omertà ammantata di scuse e scusanti non è accettabile.
Cosa può aspettarsi in cambio l’Egitto dall’Italia? Una cosa molto semplice ma cruciale per Al Sisi: che la tragedia rimanga confinata a quello che probabilmente è stata, una brutalità fuori controllo e deprecata vibratamente come tale, senza assurgere a una rottura fra i due Paesi. Quello che il governo italiano può e deve fare è non condannare l’Egitto ma solo i colpevoli scindendo le responsabilità. Ma per arrivare a questo difficile (e non ingiustificato) equilibrio è indispensabile che l’Egitto collabori - anzi, che sia anche l’Egitto a volere la catarsi.
Sarà decisivo come il Cairo e Roma giocheranno la partita nei prossimi giorni. Il nemico principale sono le dichiarazioni pubbliche tonitruanti da cui non si può far marcia indietro. L’Italia si è trovata in passato ad affrontare e gestire tragedie umane che mettevano a repentaglio il rapporto con alleati. Basti pensare, con gli Stati Uniti, all’incidente della funivia del Cermis o agli errori della sparatoria a Baghdad in cui perse la vita Nicola Calipari. Non fu facile, e le soluzioni non furono di nostra completa soddisfazione. Ma gli americani non cacciarono la testa sotto la sabbia, l’Italia ottenne trasparenza d’indagine e accettò che in entrambi i casi la giustizia americana facesse il suo corso. Giustizia - non omertà.
Oggi Italia e Egitto hanno di fronte a sé un’analoga sfida. Se Renzi e Al Sisi saranno capaci della stessa maturità di allora, la tragedia di Regeni potrà ricevere giustizia senza diventare una crisi fra due Paesi e governi che vogliono restare amici.

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ROLLA SCOLARI, LA STAMPA 5/2 – 
Scompaiono, e quando ricompaiono lo fanno soltanto dopo mesi passati in celle segrete, non ufficiali, gestite da quella stessa polizia che per anni ha silenziato il Paese, quella contro cui l’Egitto era scesa in strada a protestare il 25 gennaio del 2011. Il New York Times ha raccontato proprio il giorno dopo la scomparsa di Giulio Regeni al Cairo le storie di alcuni di quei cittadini spariti nel nulla, cercati con ansia e senza successo dalle famiglie. Secondo l’Egyptian Commission for Rights and Freedom (Ecrf), ci sarebbero stati da agosto a novembre 340 casi.
La scomparsa e poi la tragica morte dello studente italiano al Cairo arriva in un momento in cui l’Egitto vive una situazione di profonda instabilità nel campo della sicurezza. Le forze dell’ordine egiziane con l’avvicinarsi del quinto anniversario della rivoluzione del 2011, il 25 gennaio, hanno mostrato un nervosismo non giustificato: da mesi le proteste sono minime, a causa di una serie di arresti e raid in appartamenti del centro.
Benché non ci sia ancora nulla di certo sulle cause della scomparsa e poi della morte del giovane, la difficile atmosfera politica al Cairo ha sollevato preoccupazioni. A gennaio, Human Rights Watch ha parlato di una reale minaccia per la sicurezza dell’Egitto legata a estremismi, ma ha criticato il regime di AbdelFattah al-Sisi per il rafforzarsi della repressione contro oppositori politici e per l’aumento di quelle che i gruppi per i diritti umani chiamano «sparizioni forzate». Campagne come quella di ECRF hanno obbligato il ministero dell’Interno attraverso il semi-ufficiale Consiglio Nazionale per i Diritti Umani a rendere pubblica la sorte di 118 su 191 cittadini spariti negli ultimi mesi. Il nome più noto di attivista scomparso è quello di Ashraf Shehata, di cui non si conosce la sorte da gennaio 2014. La maggior parte dei casi è legata a membri dei Fratelli musulmani, considerati dal regime gruppo terroristico. Chi sparisce lo farebbe per mano dei temuti agenti delle forze dell’ordine, che agiscono spesso in borghese.
Per Heba Morayef, dell’Egyptian Initiative for Personal Rights, «negli ultimi tempi il numero di scomparse forzate e morti in carcere è aumentato. Si tratta per la maggior parte di egiziani, a parte il caso del francese morto in custodia della polizia nel 2013. Le forze dell’ordine hanno allora incolpato i compagni di cella: lo avrebbero ucciso perché omosessuale, un fatto che non attenua le colpe della polizia».
È in questa atmosfera di nervosismo da parte della autorità che si è mosso dopo la scomparsa di Giulio Malek Adly, tra i più noti avvocati per i diritti umani del Paese, del Centro per i Diritti Sociali ed Economici. «Abbiamo ricevuto una richiesta di aiuto da amici egiziani ed italiani di Giulio già la sera del 25 gennaio, verso le 9. Abbiamo cercato di capire se era detenuto, senza successo. Siamo andati prima di tutto al commissariato della polizia a Dokki - dove abitava il ragazzo, ndr – dove siamo stati aiutati da un giovane agente». Nessuno della sua associazione ha potuto vedere il corpo. «Siamo stati all’obitorio martedì notte, ma non ci hanno lasciato entrate. Fuori, c’erano moltissime forze dell’ordine».

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GUIDO RAMPOLDI, IL FATTO QUOTIDIANO 5/2 – 
Qual è la differenza tra Augusto Pinochet, golpista cileno, e Abd al-Sisi, golpista egiziano? Nessuna differenza, risponderà chi non conosce Il Principe di Machiavelli nella versione in uso a Palazzo Chigi. L’ignaro si lascerà impressionare dalle similitudini tra i percorsi compiuti dai due generali. Tanto Pinochet quanto al-Sisi sono nel vertice militare quando il governo che li ha nominati sprofonda in una grave crisi di consenso. Entrambi pugnalano quel governo con un colpo di stato. Entrambi s’intestano il potere e massacrano oppositori. Entrambi massacrerebbero di più se non fossero frenati, il cileno dalla Chiesa, l’egiziano da Obama. Così Pinochet si ferma a quota 3 mila uccisi; al-Sisi probabilmente l’ha raggiunto. Parte alto, almeno 1.150 morti in un giorno, 14 agosto 2013. “Il più grave massacro di dimostranti nella storia dei crimini contro l’umanità”, dice Sarah Leah Whitson, di Human Right Watch, ascoltata lo scorso novembre dal Congresso Usa.
Dai giorni della strage il regime ha continuato a reprimere nel sangue le manifestazioni e ha arrestato 41 mila egiziani, tra Fratelli musulmani e militanti di partiti laici. Uno studio legale cairota ha documentato, finché ha potuto occuparsene, 465 casi di tortura, 129 dei quali hanno condotto alla morte del torturato. Lo stupro delle donne arrestate, o di mogli o figlie di arrestati, è diventato un metodo per intimidire ed estorcere confessioni. La stampa non può scriverlo, una nuova legge stabilisce che è grave reato smentire la versione prodotta dalle centrali della repressione.
Ma allora perché – si domanderà a questo punto l’ignaro – Matteo Renzi si vanta (con la platea di Cl) di essere stato il primo capo di governo occidentale ad aver incontrato il Pinochet egiziano? Perché lo definisce “un grande statista” e invita a riconoscergli “il merito di aver ricostruito il Mediterraneo”, frase priva di senso ma ammirativa nella sua sonorità? “La tua guerra à la nostra guerra, e la tua stabilità è la nostra stabilità”, gli disse l’anno scorso, come ricorda impietosamente un saggio recentissimo, The Egyptians. Non sarà stato quel saltellare festoso intorno allo sterminatore lo spettacolo più basso mai offerto all’estero da un nostro premier, perfino più triste del Berlusconi acciambellato come un cagnolino nel salotto di casa Bush?
Quando poi constata che i salamelecchi di Renzi non hanno provocato il minimo sussulto nei partiti e nei media maggiori, l’ignaro comincia a sospettare che quelle smancerie corrispondano ai costumi di una classe dirigente cui l’odore del petrolio abbatte il senso del pudore. L’Eni ha interessi enormi in Egitto e la benevolenza del Cairo è necessaria per qualsiasi iniziativa militare in Libia, altra cruciale piazza petrolifera.
Eppure neanche questo è sufficiente a spiegare gli slanci di Renzi, così intensi e reiterati da risultare sinceri. Quando il premier dice ad alla tv al-Jazeera che “in questo momento l’Egitto può essere salvato solo dalla leadership di al-Sisi (…), sono orgoglioso della nostra amicizia e lo aiuterò a proseguire nella direzione della pace”, non recita. È davvero convinto che l’amico del Cairo applichi, con metodi inevitabilmente duri, quella famosa teoria di Nicolò Machiavelli oggi conosciuta come la dottrina del male minore.
Qui è cruciale sapere che Renzi si ispira al Machiavelli, come ci ricordano i giornali. Dunque diamo per scontato che il premier abbia letto il Principe e ricordi il capitolo 17, dove sono i paragrafi che fondano la dottrina del male minore, spesso spiegata nei termini del fine che giustifica i mezzi. E così paiono interpretarla tanto Renzi quanto il nostro giornalismo.
Ma per Machiavelli un governo incalzato da una suprema emergenza può ricorrere alla ‘crudeltà’, solo a patto che quel male porti a un bene maggiore; e comunque rappresenti la deroga, non il sistema. Il male praticato da al-Sisi non soddisfa né l’una né l’altra condizione. È il sistema, non la deroga. E non funziona. Non riesce a fermare gli attentati nel Sinai. Smantella legalità, accresce corruzione. E potenzia il terrorismo. Nelle carceri e nei centri di tortura gli jihadisti incalzano i detenuti politici: ora sapete dove conducono non-violenza e democrazia in questa regione; e sapete anche quanto gliene importi alle democrazie europee dei diritti umani, li hanno scordati appena al-Sisi ha aperto i forzieri; convincetevi, l’unica soluzione è la guerra santa.
Nessuno dei leader europei tranne Renzi si è spinto fino a dire ad al-Sisi quel che mai fu detto a Pinochet, neppure dall’amica Thatcher: “La tua guerra è la nostra guerra”. Nel caso non improbabile che la casta militare liquidi al-Sisi e s’accordi con i protagonisti della tenace ‘primavera araba’, il machiavellismo alla Checco Zalone ci costerà molto più del disonore che oggi ci attira quella terribile ammissione di complicità.