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 2016  febbraio 04 Giovedì calendario

HO FATTO 13 E MI HANNO ROVINATO

Si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte»: lo dicono le parole di santa Teresa d’Avila, ma pure il romanzo che Truman Capote ci scrisse sopra e adesso anche l’incredibile vicenda di Martino Scialpi, l’uomo che passerà alla storia come il più iellato tra i fortunati d’Italia. Tutto inizia 35 anni fa. È il primo pomeriggio d’una domenica di novembre del 1981 e le strade sonnacchiose d’Italia si risvegliano dalla pennica del dopopranzo al gracidio metallico delle radioline. Insieme alla messa di mezzogiorno e la susseguente abboffata in famiglia, ascoltare i risultati da 90o minuto, sperando in un 13 milionario, è il rituale d’ogni buon italiano. «Ed era quello che stavo facendo anch’io, in macchina con un amico» mi dice Martino Scialpi con la bella voce vibrante, da tenore. Il maglioncino Gmv, di moda qualche anno fa, e la sciarpa intorno al collo denotano una cura per l’abbigliamento che non ti aspetteresti da un disoccupato ridotto sul lastrico. «Era la prima volta che giocavo la schedina» aggiunge. Superfortunato, però: vincere 800 milioni di lire senza prendere un soldo. Aura, la sua compagna ridacchia, così pure l’avvocato Guglielmo Boccia e le tre avvocatesse riunite per il nostro incontro.
«Massì, ridiamoci pure sopra» fa Scialpi, sul filosofico. «A dirla tutta, la schedina neanche l’avevo compilata io, ma un tizio fissato con il Totocalcio. Lo chiamavamo Giggino il Pitagorico, per via che dava sempre i numeri. Uno di quelli che stanno lì a studiarsi statistiche, gol, formazioni, e alla fine zac, eccoti la schedina perfetta. Era un po’ il beniamino di tutti noi commercianti ambulanti». Perché era questo il mestiere di Scialpi. Anche se lui non è mai stato uno di quegli ambulanti che tirano a campare. «Ennò, ho sempre trattato solo abiti fatti in un certo modo e, a Martina Franca, di gente che sa farli in quel certo modo ce n’è sempre stata tanta.
Così m’era venuta quest’idea ... Metterla insieme sotto un unico grande marchio e farlo conoscere nel mondo. A questo dovevano servire quegli 800 milioni di lire. Ma tornando a Giggino, bè, quella volta, i numeri, ci tenne a darli proprio a me. Mi scrive la schedina e spara: “Con questa farai 13!”. Guardi, potrei dirle che la giocai giusto per farlo contento, il povero Giggino... sa, nel frattempo, è pure morto. Comunque, quella domenica sto in macchina a sentire 90o minuto e i minuti sono finiti e bè, mi rendo conto che forse... forse il Pitagorico aveva visto giusto». Come forse? Non ha controllato la schedina? «No, non ce l’avevo dietro... l’ho detto che ero un totocalcista per caso!».
Adesso a ridere è Martino, ma quella domenica fatale, mentre corre a casa, non sta ridendo. Prega. Prega in silenzio la Madonna dell’Assunta, di cui è devotissimo. Vuole a tutti i costi vincere per il suo sogno imprenditoriale. «Non dico che diventare ricco non mi allettasse ma desideravo vincere soprattutto per quello». E una volta a casa? «Dico a Paola, mia moglie: “Devo controllare la schedina” e... essì, avevo vinto». E cos’ è successo? «Cosa vuole sia successo? Salti, urla di gioia. Ma il mio pensiero è andato subito alla Madonnina» aggiunge Scialpi, che è religiosissimo. E immagino ancora di più quando ha saputo della cifra: 800 milioni di lire erano davvero tanti, oggi varrebbero quasi 1,8 milioni di euro. «Da perderci la testa. Pensi che alla Lotteria di Capodanno se ne vincevano 500. Ma fu leggendone sui giornali che m’arrivò la prima mazzata. Nessuno dei quattro 13 risultava giocato in Puglia, c’era scritto». E allora che fece? «Corro alla mia banca per chiedere al direttore. Ma appena provo a mostrargli la schedina quello mi dice: “Per carità, non voglio saperne niente. Già stanotte m’è toccato soccorrere mio cognato. Ha vinto 40 milioni con un 12 ma s’è fatto venire un infarto per quanti ne ha persi non facendo 13... il deficiente!». Ridiamo di nuovo ma a quel rifiuto, a Scialpi gli monta un’ansia da cardiopalma. Quella stessa mattina si precipita alla sede del Coni, sul lungomare di Bari, trovandola assediata da una piccola agguerrita folla. «Erano giocatori che reclamavano le loro vincite, da anni. Evidentemente c’era qualcosa che non funzionava nel Totocalcio, almeno qui da noi, in Puglia. Trovo una porticina laterale ed eccomi dal direttore. L’infarto questa volta lo fa quasi venire a me. Mi dice che a loro non è arrivata nessuna matrice e che quindi, per quanto li riguardava, non c’è nessun 13 in Puglia. Gli faccio vedere la schedina, lui balbetta. Poi però mi dice la sola cosa da fare: ricorso. E al più presto, perché allo scadere del sesto giorno avrei perso ogni diritto sulla vincita».
Così Scialpi si scapicolla a procurarsi foglio e marca da bollo, per il primo ricorso. «Il primo d’ una serie sterminata». Insomma, la vincita che avrebbe dovuto cambiargli in meglio la vita, da quel giorno, inizia a rovinargliela. «Sapesse quante ne ho dovuto subire. A un certo punto, da parte lesa quale ero (non era certo mia la colpa se la ricevitoria aveva smarrito la matrice) provano a farmi passare dalla parte del torto. Il Coni m’accusa d’aver falsificato la schedina». Ma ci saranno state delle perizie. «Certo, e tutte a mio favore, tant’è che nel 1987 il Tribunale di Taranto mi assolve dall’imputazione di truffa e falso. E sa che succede allora?». Che cosa? «Niente, non succede niente! A nessun giudice è venuto in mente che se la mia schedina era autentica, il Coni doveva liquidarmi il dovuto».
Ma quale cifra può poi ripagare un uomo cui è stata distrutta l’esistenza? Già, perché in questi 35 anni Martino Scialpi ha perso tutto quello che aveva. Prima i risparmi. Poi il lavoro. Infine la famiglia. «E tutto per star dietro a questi maledetti processi. Con mia moglie, povera donna, era un litigio continuo. Con i miei figli non mi ricordo d’una vacanza, d’un compleanno passati insieme, e questo è il mio più grande dolore. Ma non potevo mollare. Era una prepotenza troppo grande quella che stavo subendo». Sono arrivati a pignorargli perfino la casa. A quel punto chiunque, al posto suo, si sarebbe scoraggiato, avrebbe lasciato perdere. Ma questo ambulante di Martina Franca è un osso duro. Ricorda uno di quegli eroi dei film di Frank Capra, ostinati nella loro lotta contro il destino e l’ingiustizia. Una lotta che ha significato ogni tipo di sacrificio. Scialpi mi indica Aura, la sua nuova compagna, la donna che gli è stata vicina negli ultimi anni, forse i più difficili. Ricorda le volte che è toccato loro perfino dormire in macchina, con fuori la neve, mentre aspettavano l’apertura di qualche tribunale, perché non avevano nemmeno i soldi per pagarsi una camera d’albergo.
«Ma devo dire che, in questa mia battaglia, non mi sono mai sentito solo. Ho sempre avuto molti amici che hanno creduto in me e mi hanno aiutato, anche economicamente». Un grande sostegno gliel’ha dato inoltre Guglielmo Boccia, il suo avvocato, che ha saputo condurre la vicenda a una svolta decisiva. Il giudice Federico Salvati del Tribunale di Roma ha infatti chiesto, per mercoledì 10 febbraio, un incontro tra il Coni e Scialpi per avviare una trattativa e risolvere finalmente una controversia così particolare da essere entrata nell’immaginario collettivo, tanto che, ormai, più d’un comico ha in repertorio l’assurda storia dell’ambulante tredicista finito in miseria.
«Nessuno potrà più ripagarmi di questi anni: è come se fossi stato un recluso fuori dal carcere» ha scritto nel suo libro Ho fatto 13! (Schena Editore) il buon Martino. Subito però abbandona la vena malinconica e dice: «Se riesco a ottenere qualcosa, prima di tutto sistemo la famiglia e restituisco i prestiti agli amici, con gli interessi. Poi, col resto, metto su una fondazione a favore dei cittadini non tutelati dalla giustizia e per i bisognosi». Sono le cose che chiunque dice prima di intascarsi la grana. Già, ma Martino Scialpi non è chiunque. Era ed è rimasto un sognatore. L’ha dimostrato in questi anni di lunga, mancata felicità.