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 2016  febbraio 04 Giovedì calendario

FENOMENOLOGIA DELLO SCARICABARILE

Sepolte da uno scaricabarile, inamovibili per proverbiale scaltrezza, epperò disprezzate, irrise e infide. È il destino delle cattive coscienze italiane, da ultimo quelle renziane che hanno velato le nudità statuarie del Campidoglio per servilismo preventivo nei confronti del semi ignaro presidente iraniano Hassan Rouhani in visita a Roma il 25 gennaio. Salvo poi scaricare, quando è venuto giù il sipario e il mondo intero ha preso a darsi di gomito e a darci di zerbini dell’occidente in ritirata, ogni responsabilità su papaveri e papere del cerimoniale di palazzo Chigi. Sono soddisfazioni.
Lo scaricabarile di suo sarebbe un gioco fanciullesco, un mettersi schiena contro schiena a braccia incrociate per sollevarsi da terra a vicenda e riderne insieme. Nell’Italia dei furbi è divenuto figura retorica, marchio di piccole infamie per classi dirigenti inadeguate.
C’è una fenomenologia da raccontare, eccome se c’è, prima però agguantiamo il genotipo, l’archetipo di primo novecento: Pietro Badoglio. Non il maresciallo d’Italia che il 25 luglio del 1943 avrebbe sostituito Benito Mussolini alla guida del governo, quello dell’8 settembre, della fuga a Brindisi mentre Roma pagava il conto ai tedeschi inferociti. No, qui parliamo del Badoglio di Caporetto, l’allora maggiore generale che per poco non ha perso la Grande guerra a sua insaputa: gli austroungarici cominciarono l’attacco nella notte del 24 ottobre 1917, ma Badoglio soltanto a mezzogiorno avrebbe saputo della catastrofe. Roba da degradazione sul posto, corte marziale, esilio a voler essere generosi. E invece niente: Badoglio brigò, traccheggiò, badogliò. Risultato: una commissione d’inchiesta nel dopoguerra avrebbe dichiarato colpevoli d’insipienza i comandanti di corpo d’armata. Tutti tranne uno: Badoglio appunto.
Avessero pagato solo i più alti in grado... ma come spiegarlo alle centinaia di soldati semplici sbandati e decimati a occhi chiusi pur di arrestare la rotta dell’esercito? Memorie dell’oltretomba: «Ti riconosco, scaricabarile!».
E ti ritrovo così come fosti allora, nell’Italietta tardorepubblicana dei nostri giorni post democratici, post identitari, post italiani perfino. Quando i renziani fanno la pelle alla pitonessa del cerimoniale (per altro già indiziata per la faccenda dei Rolex raccattati dalle mani dei ricchi sauditi) sull’altare dell’insaputo e dell’ipocrisia, mostrano la propria affiliazione a un lignaggio antico, sono il volto pavido nell’autobiografia dello scaricabarile seriale.
L’avevano già praticato, nell’ottobre scorso, questo gioco di bambini servili, quando fu ricevuto a palazzo Vecchio il principe ereditario degli Emirati Arabi, Mohammed Bin Zayed al Nahyanl, un uomo da 150 miliardi di dollari. Allora si trattò di coprire con un paravento gigliato la scultura dell’artista Jeff Koons, un’opera dal titolo Gazing Ball, calco in gesso d’una scultura greco-romana (nuda) «impreziosita» da una sfera azzurrognola. Il vizietto, insomma, non è nuovo.
Ma l’arte di svignarsela, la destrezza nello schivare gli effetti della propria malafede, quel voltarsi altrove dalla propria ombra e nel frattempo immolare l’oscura vittima di un’ordalia posticcia in cui uno-vale-tutti, la rivedi tale e quale nel sacrificio umano di Antonio Azzalini, il dirigente Rai licenziato per quel ridicolo veglione tivù nel quale il Capodanno è stato anticipato di 40 secondi pur di fregare la concorrenza. Era un favore da zelota all’azienda di viale Mazzini, un pegno d’amore per alti dignitari che «non potevano non sapere», come ha provato a obiettare il rottamato. Macché, la logica dell’insaputa ha vinto e si è ammantata di padronale e chiodata pedagogia: disintermediarne uno per educarne cento. Meschinerie da romanzo distopico, quelli in cui si vende la famiglia o il miglior amico per scansare la punizione di una malefatta immaginaria. E c’è qualcosa che ricorda le famigerate delazioni sovietizzanti, prototipo est europeo di uno scaricabarile in cui per liberarsi del vicino odioso lo si denunciava alla «securitate» di turno.
Poi uno pensa ad Angelino Alfano e si ricrede: la purga ingiusta è roba nostra, nostrissima. Ne sa qualcosa la signora Alma Shalabayeva, moglie del dissidente Muxtar Ablyazov, impacchettata nel 2013 dalla Digos assieme alla figlioletta per essere rispedita in Kazakistan. Ne nacque un permale umanitario, e il ministro dell’Interno riuscì a fare il surf su quell’onda paludosa calpestando come una tavola usa-e-getta il suo malcapitato capo di gabinetto.
È lo stesso Angelino Alfano che la sera del 3 maggio 2015 sedeva in tribuna allo stadio Olimpico per la finale di Coppa Italia, mentre fuori dallo stadio c’era un morto ammazzato (Ciro Esposito) e andava in scena una tonitruante resa dei conti (non ancora conclusa) tra napoletani e romanisti. Dice: che potevo farci? Ecco, è la stessa domanda retorica con la quale il prefetto romano Franco Gabrielli cerca ogni volta di sottrarsi alle polemiche di una cittadella, la Capitale, finita ormai nel sottosuolo dell’anarchia civica e (scusate il termine) morale.
L’altra settimana, appunto, Gabrielli ha ripetuto «che ci possiamo fare?» se un incensurato cittadino di Anagni, padre di famiglia con regolare lavoro, circola nella metropolitana e fra i binari della stazione Termini di Roma con un fucile giocattolo in mano. Fermarlo per qualche ora, no? Oppure dimettersi, ammettendo che se si fosse trattato di un tagliagole col kalashnikov adesso saremmo tutti qui a solennizzare la carneficina: «Je suis Stazione Terminì».
Macché, tutto è perdonato, come dicono tremebondi i sopravvissuti di Charlie Hebdo. O come immagino penserà la famiglia Casamonica: nessuno ha ancora trovato il colpevole di omesso controllo su quelle faraoniche esequie che hanno movimentato l’estate mediatica romana.
E se poi volessimo trattenerci fra i tombini di Roma (topi permettendo), basterebbe accarezzare appena il sommario di decomposizione della sindacatura d’Ignazio Marino, il naufrago in un mare di chiacchierati scontrini mondani che accusava i suoi oscuri burocrati pur di strappare un pezzo di legno e tenersi a galla. Nel suo caso la manovra gli si è ritorta contro: a scaricabarile di Marino, scaricabarile e mezzo del Pd che l’ha espulso come un calcolo dal Campidoglio.
C’è poi, in questa curiosa fenomenologia, lo scaricabarile a somma zero. È quello in cui il carnefice si salva dall’accusa dello spargimento di sangue senza però versarne dell’altro. Esempio? Trovateci il responsabile del calcolo stellare e farlocco sul numero e sulla posizione dei così detti esodati dalla riforma Fornero. Non c’è. Abbiamo dei sospettati, Elsa Fornero medesima e l’Inps, per fortuna ancora in ottima salute; abbiamo delle vittime, gli esodati in carne e ossa (più ossa che carne), ma ci manca un responsabile sul quale addensare lo scontento del nostro malanimo.
Infine, sempre se esista una fine, c’è la versione crociata dello scaricabarile, una versione aggiornata e odiosa del «deus vult»: ce lo chiede un’autorità superiore, inappellabile. In una parola: l’Europa. All’ombra di questa formula i cesaricidi antiberlusconiani hanno giustiziato a colpi di spread il governo politico di centrodestra, sul finire del 2011. E siccome la farsa si ripete sempre in storia contemporanea, ecco adesso ricomparire sul proscenio l’euroscaricabarile utile a trasformare il veleno del decreto salvabanche in un trucco a beneficio della cosmetica renziana: «Abbiamo eseguito quello che ci ha scritto la commissione». Pfui: «L’esecutivo italiano ha agito in autonomia» ha sentenziato Jonathan Hill, commissario europeo alla Stabilità finanziaria. Perché anche il presunto «deus ex machina» prima o poi si stufa, e fa il vago: ma chi vi ha chiesto niente! E così la meccanica del capro o dell’agnello sacrificale si riavvolge su se stessa, l’espiazione vicaria si perpetua come parodia di quegli antichi sacerdoti greci che sgozzavano il toro e poi scagliavano dalla rupe il coltello insanguinato, addossandogli ogni responsabilità.
Non conosciamo l’opinione del toro al riguardo, ma almeno lui saliva in cielo con tutti gli zoccoli.