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 2016  febbraio 05 Venerdì calendario

ORA E SEMPRE PALAZZINARI – 

La vera torta miliardaria di Roma, sfuggita finora alle indagini della procura, è l’urbanistica. È qui che i potenti allungano le mani. È qui che i palazzinari ingordi si lanciano per concludere affari di cemento grazie anche alla complicità di quei politici devoti e grati per il sostegno ricevuto durante le campagne elettorali. Nella città che tutto concede ai costruttori, dove alcuni impiegati "fedeli" del Campidoglio segnalano - prima dell’arrivo del commissario Francesco Paolo Tronca - il «sistematico abuso» di varianti urbanistiche e gli affari conclusi dietro le quinte, è sempre il mattone a dettare i compiti all’amministrazione.
Oggi come ieri la Capitale ha solo due padroni. La politica e i palazzinari. Dalla loro alleanza Roma si è trasformata in ciò che ora è visibile: il grande spettacolo di un totale declino.
L’asse fra i rappresentanti del popolo e i costruttori resiste a tutto. Si evolve. Trova strade nuove anche in tempi di casse pubbliche raschiate fino in fondo e di bilanci privati stracarichi di debiti. Lo scambio di favori continua anche se il linguaggio si è modernizzato con una dose di termini anglosassoni, dal project financing al real estate development. Gli eletti cambiano. Cambiano i partiti al potere. La nomenklatura imprenditoriale invece conserva gli stessi nomi del boom economico-cementizio degli anni Sessanta: Toti, Armellini, Parnasi, Mezzaroma, Cinque, Salini, Caporlingua, Bonifaci, Scarpellini, Navarra.
Fuori da questa lista soltanto Francesco Gaetano Caltagirone, l’uomo d’affari di gran lunga più influente di Roma, e Pietro Salini sono riusciti a superare i confini del Grande raccordo anulare. Per il proprietario del "Messaggero", la Vianini è una componente in un pacchetto di partecipazioni che include Unicredit, Generali, Acea, Grandi stazioni, Cementir. Per Salini, la conquista di Impregilo significa appalti in tutta Italia e all’estero. Gli altri annaspano nella palude di un settore che vende un decimo delle stanze che piazzava prima della crisi.
Qualcuno ha scavalcato la barricata ed è passato dal mattone alla politica. La candidatura a sindaco di Alfio Marchini, nipote omonimo di "Calce e martello", l’amico di Palmiro Togliatti che regalò Botteghe Oscure al Pci, è un unicum. Allo stesso tempo, dimostra il peso della razza palazzinara almeno quanto le dimissioni di Ignazio Marino, marziano a Roma che non ha saputo trovare il magico accordo con gli interessi dei costruttori.
VARIANTE A COMANDO
Una dirigente del segretariato generale del Campidoglio scriveva pochi mesi fa un appunto interno in cui denunciava l’abuso di varianti urbanistiche. Lo faceva dopo aver esaminato tantissime «proposte di deliberazione aventi ad oggetto le compensazioni urbanistiche e più in generale, a quelle che costituiscono atti procedimentali di un iter volto all’approvazione di programmi urbanistici non conformi al piano regolatore vigente». La dirigente sottolinea l’abuso «sistematico». Troppe volte, su pressione dei costruttori, i progetti vengono modificati. Con più cubatura, una diversa destinazione d’uso, meno oneri concessori. Poi c’è il meccanismo delle compensazioni. La funzionaria, oggi trasferita per effetto della turnazione, mette nero su bianco l’allerta: «È stata più volte rilevata la tendenza ad elaborare varianti connotate da una disciplina urbanistica specifica e peculiare, tale da sfuggire ad ogni possibile inquadramento nei paradigmi normativi codificati». Il linguaggio è burocratico, ma il succo è chiaro: nessuna norma riesce a stare dietro alle modifiche richieste dai costruttori.
Nessuno stupore però. Roma è la città dove al dipartimento edilizia, in passato, hanno rotto l’allarme all’ingresso, e una volta riparato hanno messo lo scotch sulle telecamere per oscurarle. Si entrava ed usciva in libertà, così, per la gioia dei dipendenti che volevano andare a far la spesa in orario di servizio e di chi, soprattutto, aveva bisogno di mettere le mani sugli incartamenti e accedere all’archivio senza registrarsi.
Roma è la città dei palazzinari, con i quali si è trovato a fare i conti Ignazio Marino. Perché lo sviluppo urbano lo fanno da sempre gli imprenditori del mattone. Con i suoi 129 mila ettari di estensione, è il comune più grande d’Europa. A distanza di quarant’anni il Campidoglio ha adottato, nel 2003, un nuovo piano regolatore generale, poi approvato nel 2008. Sovrapponendo la cartina di oggi della metropoli a quella disegnata nel piano regolatore, si può constatare che la situazione non combacia. Varianti su varianti hanno portato a modificare tutto, in silenzio. E a guadagnarci sono stati sempre i soliti.

L’OCCASIONE PERDUTA
Giovanni Caudo, ultimo assessore all’Urbanistica prima del commissariamento, appena lasciato l’ufficio dopo la «repentina interruzione» della giunta Marino, ha scritto una lettera indirizzata al commissario Tronca che "l’Espresso" ha letto. La «repentina interruzione», appunto, ha lasciato aperti molti dossier. Alcuni milionari. Sono una decina di progetti che Caudo segnala al prefetto. Dagli alberi nella spoglia piazza San Silvestro all’eliminazione della previsione di "valorizzazione urbanistica in variante" - appunto - al piano regolatore delle aree di Monti Tiburtini, Santa Maria del Soccorso, Rebibbia e Torraccia. Sospesa c’è pure una pratica per l’edilizia popolare: «Le segnalo gli atti che concernono le regole da applicare nell’edilizia agevolata (già approvati dalla giunta ma non dall’Assemblea Capitolina) e quelli che prevedono la realizzazione di alloggi sociali in attuazione del protocollo di intesa firmato con Cassa depositi e prestiti». Caudo segnala che a rischio ci sono 198milioni di euro di investimento il cui impegno «dovrà avvenire, pena la decadenza, entro il prossimo mese di dicembre». Dicembre è passato, e nulla è stato fatto. I vertici di Cdp non hanno mai incontrato né Tronca né il subcommissario all’Urbanistica Ugo Taucer. È un peccato perché il fondo della Cassa aveva detto sì a due interventi, uno a Muratella per 78 milioni e uno a Santa Palomba per 110. Le case sarebbero state ad affitto calmierato, 5 euro a metro quadro. Per il mercato immobiliare un invito ad abbassare i prezzi. Che non si conciliava con gli affari di costruttori e immobiliaristi.
Eppure l’esperienza di Marino, più ancora di quella del predecessore Gianni Alemanno, ha rivelato i termini reali dei rapporti di forza. I costruttori intendono mantenere le mani sulla città. Non possono più contare su finanziamenti statali a fondo perso, come insegna la vicenda della metro C, un calvario di ritardi e interruzioni, o l’aborto della linea metropolitana D. I programmi di sviluppo residenziale e commerciale sono impiombati dalla crisi. Interi quartieri di recente inaugurazione sono in larga parte sfitti e producono solo costi. Che fare? I progetti sportivi possono essere la chiave per rianimare le acque stagnanti. I re del mattone puntano sul nuovo stadio della Roma, sul nuovo centro della Federcalcio e soprattutto sulle Olimpiadi 2024. Sono tutte operazioni che possono andare in porto grazie alla partecipazione finanziaria di partner privati, dal Cio (Comitato olimpico internazionale) alla squadra di business raccolta intorno all’As Roma. Ma il pubblico conserva un ruolo fondamentale, sia nella partita delle concessioni urbanistiche sia nel sostegno infrastrutturale dove la Capitale sconta ritardi storici.
L’obiettivo della giunta Marino era di rimettere in moto la macchina sfiancata dell’economia locale senza ignorare il dato di partenza, cioè che Roma è dominata dalle costruzioni. Però senza patti leonini. Così nel mese di agosto del 2014 è stato bocciato il piano dell’housing sociale, ereditato dal sindaco Alemanno e dal suo assessore all’Urbanistica Marco Corsini, che avrebbe piazzato 28 milioni di metri cubi di cemento nell’agro romano. Per i progetti nuovi l’indice di patrimonializzazione a favore del Comune è stato aumentato da pochi punti percentuali fino a un quarto del valore delle opere. In termini meno tecnici, si è tentato di rompere con la tradizione che trasforma i soldi pubblici in patrimoni privati di costruttori e immobiliaristi.

L’ORO OLIMPICO
Lo scorso 15 settembre Marino ha individuato in Tor Vergata, nel quadrante est-sudest dell’area metropolitana, l’area di riferimento per il villaggio olimpico del 2024. La scelta non è stata indolore né pacifica visto che parte della giunta preferiva la zona a nord tra la Flaminia, il vecchio villaggio dei Giochi 1960 e l’area demaniale dell’aeroporto dell’Urbe. Fino alla fine, gli amministratori pubblici hanno litigato con i due animatori del comitato Roma 2024, il presidente del Coni e Luca Cordero di Montezemolo, presidente di Alitalia in ottimi rapporti con Matteo Renzi.
A Tor Vergata la Vianini di Caltagirone ha una concessione datata 1987 su terreni di proprietà dell’ateneo in parte espropriati al cassiere della banda della Magliana Enrico Nicoletti. La convenzione precede il codice degli appalti e per certi aspetti è una replica in piccolo della convenzione fra l’esecutivo e il Consorzio Venezia Nuova per la realizzazione del Mose. Tutto ciò che è stato costruito (le Vele di Santiago Calatrava, il policlinico universitario, lo studentato) e si costruirà a Tor Vergata lo realizzerà Vianini. Un’altra società del gruppo Caltagirone, Fabrica sgr, in joint venture con il Monte dei Paschi, si candida a gestire il post-Olimpiadi nell’area.
La giunta Marino non aveva voce in capitolo sui terreni di proprietà dell’ateneo. Una convenzione analoga del 1985 fra Comune e Acer, l’associazione dei costruttori romani è stata disattivata. L’accordo era stato firmato con il Consorzio Tor Bella Monaca, espressione dei costruttori, presieduto da Alessandro Cremonesi, nipote di Giancarlo, presidente della Camera di commercio e presidente di Acea estromesso da Marino.
Su Tor Vergata la giunta Marino è venuta a patti soprattutto sulla scelta della metropolitana che servirà l’area. In origine doveva essere un prolungamento della linea A. Poi si è puntato su una diramazione della Linea C, ancora in costruzione da parte del consorzio Vianini-Astaldi-Lega coop-Ansaldo sts e bloccata dal braccio di ferro sugli extracosti fra appaltatori privati e Roma metropolitane, la società pubblica concedente.
Gli uomini di Caltagirone minimizzano in 70-80 milioni di euro il possibile avanzo di cubature da realizzare a Tor Vergata, una cifra molto sottostimata se arriveranno i Giochi, da qui al momento decisivo (settembre 2017). Ma l’area di Tor Vergata potrebbe muoversi anche prima. La chiave è sempre lo sport. Già da mesi il presidente della Federtennis, l’avvocato cagliaritano Angelo Binaghi, si lamenta dell’inadeguatezza del Foro Italico rispetto al successo di pubblico degli Internazionali d’Italia. Tor Vergata è la nuova sede ideale per le prodezze di Novak Djokovic. Certo, i Giochi valgono ben altro: quasi 4 miliardi di indotto. Così, il 21 gennaio, Malagò si è portato anche Renzi per presentare il dossier sui Giochi a Roma al numero uno del Cio Thomas Bach. Che arrivino non è per niente scontato considerata la concorrenza di Los Angeles e Parigi, già bocciata due volte e ospite dei Giochi nella preistoria decoubertiniana (1900 e 1924).
È invece abbastanza scontato che arrivi una richiesta di risarcimento danni al Comune per il prolungamento della linea B1 a Casal Monastero. Sotto Alemanno, i dirigenti di Roma Metropolitane hanno firmato la concessione al raggruppamento Vianini-Salini senza che ci fossero le varianti urbanistiche.

NELL’ARENA DELLO STADIO
La vicenda del nuovo stadio dell’As Roma è lo specchio deformante dei rapporti di potere della capitale. Sull’operazione ci sono alcuni appunti riservati del Campidoglio, di cui è in possesso "l’Espresso": «Il progetto è deficitario sotto molti aspetti», «il dipartimento ambiente e mobilità ha rilevato deficienze», soprattutto per la «relazione idrogeologica» e per il «codice appalti». Lo stesso documento riservato segnala poi che la proprietà dei terreni scelti è «in parte di Armellini». Armellini «quello di Ostia», si aggiunge, ricordando che la famiglia Armellini con il Comune ha molti affari, a Ostia nuova interi quartieri sono affittati per l’edilizia popolare. Persino il circolo del Pd - uno dei primi commissariati da Matteo Orfini - ha goduto per decenni di un locale affittato dal Campidoglio nei possedimenti Armellini. Il resto della proprietà è di Parnasi.
La scelta dell’area di Tor di Valle, passata appunto dal gruppo Papalia a Eurnova (gruppo Parsitalia) di Sandro e Luca Parnasi, è stata duramente osteggiata da Caltagirone, interessato allo sviluppo dell’area di Tor Vergata (Città dello sport) e, in generale, del quadrante est-sudest dell’area metropolitana.
Ai vertici di Trigoria sottolineano la regolarità, passo passo, di tutta l’operazione e ricordano, durante la gestione della famiglia Sensi, la scelta di realizzare l’impianto nell’area della Massimina, di proprietà di Sergio Scarpellini, per decenni locatore a prezzo impopolare di Camera, Senato e altri palazzi istituzionali.
Per dare un’idea della fame di progetti da parte di chi si è per anni accaparrato aree a Roma e dintorni nella speranza di una variazione di piano regolatore, la prima ondata di proposte affidate alla scrematura dell’advisor Cushman & Wakefield contava 124 terreni sparsi fino al lago di Bracciano, 40 chilometri a nord. La finale si è giocata a tre fra l’area della Bufalotta dei fratelli Toti, i terreni di Tor Vergata e il vincitore finale Parnasi.
La giunta Marino ha abbracciato il progetto Tor di Valle e lo ha difeso fino alle dimissioni, nonostante alcuni problemi di rilievo. Il primo per importanza era il passaggio di Tor di Valle dal gruppo Papalia sull’orlo del crac a Parnasi, con un rischio di revocatoria fallimentare. Il secondo riguardava le critiche dell’Atac, presentate alla luce del progetto preliminare del 15 giugno 2015, sul potenziamento della linea B della metropolitana e le contestazioni su altre criticità infrastrutturali e idrogeologiche. Infine, c’era la crisi finanziaria dello stesso promoter Parsitalia, carico di debiti verso Unicredit, l’istituto che ha ereditato montagne di mutui, garanzie e fideiussioni al momento di acquisire Capitalia, la banca patrona dei palazzinari romani.
Il primo problema è stato superato da una sentenza del giudice delegato al fallimento Papalia che ha riconosciuto la validità della transizione sull’ex ippodromo (42 milioni). In quanto alle criticità infrastrutturali, Parnasi conta di superarle con il progetto definitivo, che dovrebbe arrivare a giorni. Infine, Parnasi ha trovato nel gruppo Pizzarotti un partner che può garantirgli ossigeno finanziario grazie a uno spinoff della parte edilizia di Parsitalia (vedi box a pagina 33).
Nonostante il commissariamento del Campidoglio, a Trigoria restano convinti che il cantiere sarà aperto entro il 2016, dopo la presentazione del progetto definitivo e il via libera della conferenza dei servizi della Regione, che ha mandato a Parnasi la richiesta di completare la documentazione quasi sei mesi fa (5 agosto 2015). Ma resta significativo che l’unico salvataggio per Parnasi, sempre se l’operazione andrà in porto, arrivi da un’impresa emiliana, da un finanziamento ai soci americani messo a disposizione da Goldman Sachs con la partecipazione, per adesso molto dietro le quinte, di fondi israeliani.
La moral suasion di Caltagirone sui colleghi meno potenti e molto meno liquidi si sarà fatta sentire? O è vero che l’ingegnere, come sostiene chi gli è vicino, è disamorato della sua città, si disinteressa alla campagna elettorale per il Campidoglio e preferisce il palcoscenico della grande finanza? Resta il fatto che lo stadio giallorosso si sta giocando l’ultima chance. Se andrà bene, è già in lista d’attesa Claudio Lotito. Il patron della Lazio, e della Salernitana, non ha rinunciato al suo stadio di proprietà. In ballottaggio ci sono due aree: quella della moglie Cristina Mezzaroma in Val Tiberina e un’altra nella zona di Settebagni.
Poi nessuno può sapere se si farà davvero, se non si farà o se Parnasi dovrà accontentarsi, si fa per dire, dei permessi di edificabilità già approvati a Tor di Valle, anche senza stadio e opere pubbliche (112 mila metri quadrati). Il borsino dei pronostici è orientato su un moderato pessimismo, non solo per i ritardi, ma per un elemento di sistema. La Roma di oggi funziona secondo il teorema di Jep Gambardella, il protagonista della "Grande bellezza" di Paolo Sorrentino: «Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire».

LA CODA DEL CAAT
Altra partita che ha indispettito un po’ tutti, invece, è quella dei Caat, i Centri di Assistenza Abitativa Temporanei. Sono case - o meglio sono spesso uffici riconvertiti - per chi è in emergenza abitativa e non entra nelle graduatorie per le case popolari. Sono decine gli edifici affittati a caro prezzo dal Campidoglio con una spesa di 54 milioni all’anno. Il Comune - ed è uno dei suoi ultimi atti - ha sostituito il dispendioso sistema dei Caat con quello del contributo all’affitto. Scrive Luigi Ciminelli, direttore del dipartimento politiche abitative , in una relazione all’Autorità anticorruzione: «Tale sistema, che prevede la disponibilità di mille alloggi da destinare ad altrettanti nuclei familiari in assistenza alloggiativa temporanea, consente di ottenere un risparmio anno a regime di 13 milioni di euro».
Chi ci ha rimesso? Sicuramente la cooperativa Eriches 29 che con Salvatore Buzzi incassava, nel 2012, più di 5 milioni di euro per i servizi, dalle pulizie alla guardiania. Poi si va dalla Immobiliare San Giovanni 2005 del costruttore Antonio Pulcini, che con una palazzina da 84 alloggi incassava 2,7 milioni di euro, all’immobiliare Ten di Francesco Totti, il capitano, amministrata dal fratello, che incassava 908mila euro per 35 unità abitative. Perché il sistema dei Caat venisse archiviato bisognava prevedere una serie di strutture per l’accoglienza degli sfrattati. Cambia l’acronimo, sono i Saat, e anche le caratteristiche: niente più uffici riconvertiti, ad esempio. La gara europea lanciata dall’assessore Danese va però stranamente deserta. Non risponde nessuno, a nessuno dei lotti, anche al più piccolo: difficile senza mettersi d’accordo. La Giunta poco dopo va a casa, e il commissario Tronca deve prorogare i Caat, ogni mese in più costa ai cittadini più di tre milioni di euro.