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 2016  febbraio 05 Venerdì calendario

CINQUE STELLE DIVISI IN DUE

Nello spettacolo del "passo laterale", il ritorno sulle scene e l’allontanamento dalla politica, Beppe Grillo dialoga con il suo doppio: immagine plastica della divisione che spacca la sua creatura politica, il Movimento 5 Stelle. Dilaniato, all’apice nei sondaggi e alla vigilia di un turno di elezioni amministrative nelle grandi città che si annunciava trionfale, tra un’anima governativa e una di opposizione, tra il destino inevitabile di crescere e diventare adulti, trasformandosi in un partito, e la sindrome dell’eterna fanciullezza, la nostalgia dell’adolescenza movimentista. Una distanza di identità e di prospettiva che spiega il dilemma dei 5 Stelle più delle rivalità personali e delle fragilità dei giovani leader che provano a prendere in mano l’eredità di Grillo. Due movimenti in uno, con due obiettivi radicalmente diversi, anzi, opposti.
Il primo movimento è quello che ha conquistato la guida di M5S da più di un anno, si fonda sul cosiddetto direttorio, il gruppo a cinque che dirige i gruppi parlamentari e gli amministratori locali, impersonato mediaticamente dal giovane vicepresidente della Camera Luigi Di Maio. È la corrente che punta a conquistare il governo, convinta di riuscire a vincere le prossime elezioni contro il Pd di Renzi, a patto che il Movimento si dia un volto moderato. Il filo che tiene insieme le aperture degli ultimi mesi: le votazioni insieme al Pd sui giudici della Corte costituzionale, la disponibilità ad appoggiare la legge sulle unioni civili, l’ingresso nel Cda della Rai con l’esterno Carlo Freccero, le apparizioni in tutti i salotti televisivi di Di Maio e i suoi, sorridenti, rassicuranti. Mosse che hanno fatto inorridire i duri e puri ma che rispondono alla necessità di dimostrare che il Movimento sa dire anche qualche sì, accanto a tanti no. Sembrava un cammino trionfale. E invece la fazione governista è uscita gravemente ferita dal caso di Quarto, il comune alle porte di Napoli che M5S aveva espugnato alle elezioni amministrative del 2015. Il sindaco Rosa Capuozzo è stata costretta a dimettersi dopo l’espulsione dal M5S e un’inchiesta della magistratura per voto di scambio che ha sfiorato il gruppo in consiglio comunale del Movimento. Una vicenda locale esplosa a livello nazionale, la prova, agli occhi del Pd, che il Movimento non sa gestire neppure una realtà dell’hinterland napoletano, figuriamoci una grande città o, peggio, i dossier interni e internazionali di Palazzo Chigi. Ma ancora più feroce è stata la dialettica interna al M5S, celata agli occhi del pubblico eppure visibilissima. Giù Di Maio, considerato il responsabile politico del pasticciaccio di Quarto, e giù i governisti. E su l’altra corrente, quella di chi ritiene che il Movimento non debba mai sporcarsi le mani con la gestione del potere ma rimanere una grande forza di opposizione, un gigantesco network di controllo di chi governa, la rappresentanza e l’organizzazione di tutti gli scontenti e i critici del sistema. Un ritorno alle origini, alla purezza del grillismo prima maniera, dei meet-up che non potevano essere infiltrati dalla vecchia politica o dalle camorre perché mai avrebbero aspirato al primato elettorale. Un sentimento molto diffuso alla base che stravede per il pasdaran Alessandro Di Battista. È stato lui ad avere l’idea di mettere in rete il video con cui il Movimento si difendeva dalla bufera su Quarto: l’unico felice di esserci, seduto in mezzo ai rabbuiati Di Maio e Roberto Fico, vistosamente a disagio. Quasi un passaggio di leadership. Di Battista è anche il deputato che rifiuta di candidarsi a sindaco di Roma in nome della fedeltà alle regole interne, in contraddizione alla regola numero uno della politica, si candida chi è nelle condizioni migliori per vincere. Meglio perdere che perdersi, replica "Dibba". E a Roma, infatti, M5S non ha ancora trovato il suo nome per il Campidoglio.
Le elezioni amministrative di primavera dovevano essere il salto definitivo verso l’età adulta, candidati competitivi in grado di battersi per vincere, a Roma, Napoli, Milano, Torino, Bologna, per poi lanciare la sfida nazionale a Renzi. Si stanno trasformando al contrario in un ritorno all’indietro, con la ricerca di candidature di testimonianza, incapaci di rappresentare un’alternativa di governo nelle grandi città. A Napoli, dopo lo shock di Quarto, nella città di Di Maio e di Fico, M5S valuta addirittura la possibilità di non presentare la lista, finendo per sostenere nei fatti il sindaco uscente Luigi De Magistris. A Milano la candidata sindaco Patrizia Bedori è finita sotto esame da parte della Casaleggio & Associati: considerata inadeguata sul piano mediatico e politico, diffidata dall’apparire in tv, è stata per ora confermata nella corsa per Palazzo Marino, ma fino a quando? A Roma il Movimento è tornato all’antico: video-presentazioni dei candidati, come alle elezioni politiche del 2013, scelta della rete su 218 candidati. La lista resta in testa ai sondaggi, dopo il disastro amministrativo Pd dell’ultimo anno e le dimissioni del sindaco Ignazio Marino, ma forse la voglia di vincere le elezioni è passata, dopo le difficoltà di Quarto, di Civitavecchia (con il sindaco del M5S preso a schiaffi per strada da un cittadino), Livorno, Parma... Meglio contare restando all’opposizione: in fondo il Pci lo ha fatto per decenni, perché non dovrebbe pensarci il Movimento?
Diviso tra i compromessi necessari per allargare lo spazio elettorale e il radicalismo di chi individua nel rifiuto di ogni alleanza e contaminazione il dna del Movimento, su M5S piovono ora le critiche dei compagni di strada delusi. Sotto accusa, soprattutto, lo strapotere di Gianroberto Casaleggio e del suo staff. «Casaleggio ha trovato il modo di prendere decisioni che impattano sulla vita di milioni di cittadini senza avere alcuna responsabilità formale, senza la necessità di candidarsi per qualsiasi ruolo e dover entrare nelle istituzioni. Giornali e tv continuano ad attribuire a Grillo una funzione che ormai è stata assunta da un’altra persona che agisce dietro le quinte. Stiamo andando verso una nuova forma di democrazia, non quella diretta ma quella eterodiretta. La rete non è più utilizzata come strumento di liberazione, ma come mezzo per manipolare le coscienze. E non ci si deve stupire se un domani la Casaleggio&Associati riuscirà a controllare dall’esterno il governo del Paese...». A scrivere queste parole non è un avversario abituale dei grillini ma un intellettuale che fino a poco tempo fa ha militato nel Movimento, il filosofo Paolo Becchi, autore di una lunga, spietata e approfondita analisi che sarà pubblicata nel prossimo numero di "Mondoperaio". Becchi, la cui parabola sembra seguire passo passo quella di Gianfranco Miglio nella Lega, l’illustre politologo sbarcato alla corte di Umberto Bossi che finì sbeffeggiato dal Capo e isolato dalla base, denuncia l’uso politico delle regole per epurare gli avversari interni, soprattutto a livello locale. «Gli espulsi vengono accusati di aver violato regole fondamentali del Movimento, ma non si specifica mai di quali regole si tratti. Gli attivisti ricevono una mail in cui lo staff di Beppe Grillo, ma sarebbe più corretto dire lo staff di Gianroberto Casaleggio, accusa l’iscritto di aver violato regole, senza specificare, e lo si invita a presentare giustificazioni che poi vengono ignorate con l’invio di una seconda mail che laconicamente afferma di non aver ricevuto "controdeduzioni atte a rivalutare" la decisione di espulsione. Un metodo che si ispira alle purghe staliniane».
Movimento addio, è nato un partito. Partito 5 Stelle: il suo leader non è più da tempo Beppe Grillo, si chiama Casaleggio. Ma quale sarà il suo destino non è ancora chiaro. Se entrare nel gioco per diventare maggioranza, a costo di normalizzarsi e sporcarsi le mani. Oppure, al contrario, assecondare l’improvvisa voglia di restare in minoranza. Una scelta che non riguarda soltanto il Movimento 5 Stelle ma tutto il sistema politico, alla ricerca di un’alternativa al necessario governo di Matteo Renzi.