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 2016  febbraio 05 Venerdì calendario

DOTTOR JEKILL E MR GRILLO

Nel mezzo del palcoscenico un Grillo in giacca e cravatta sta facendo un veemente comizio. È un ologramma: l’ologramma di un celebre leader politico che appena un paio d’anni fa aveva il Paese in mano, e forse anche adesso. Dopo un paio di minuti, il tempo di sospettare che quella è solo un’ombra, entra Grillo in carne e ossa, in camicia bianca da artista. L’abito fa il monaco. L’artista Grillo (quello vero) guarda stupefatto il leader politico Grillo (quello falso). Gli gira attorno, lo osserva. È un attimo di teatro - di vero teatro – e chi come me è arrivato qui, nel triste capannone Linear Ciak di Milano, quartiere Corvetto, sperando che il teatro possa sconfiggere la politica, che la carne viva dell’artista possa prevalere sull’ologramma del comiziante, si illude che il miracolo possa accadere.
(Ho lavorato con Beppe a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta e lo devo dire, è onesto che io lo dica. Lo conosco, gli sono stato amico, gli insulti personali che il suo blog mi ha destinato mi fanno un baffo, Beppe mi interessa, i suoi mesti, frustrati giannizzeri nemmeno li considero. Sono curioso del suo destino molto più di quanto vorrei, più di quanto mi piacerebbe. Sono curioso del suo destino molto più del novantanove per cento dei suoi seguaci, disposti a impiccarlo al primo albero il giorno che applaudirlo li avesse stancati).

QUANDO RUBAVA CANZONI
Con tono malinconico, riflessivo, il vero Grillo commenta il suo sdoppiamento. Rimpiange la libertà che la condizione di artista gli consentiva, schiacciata dalla spropositata responsabilità politica che gli è piovuta addosso. Lo spettatore è con lui: sto parlando di me stesso, almeno. Non so dire i circa duemila che mi stanno attorno, con una percentuale non verificabile di attivisti del Movimento. È una platea attorno ai 35-45 anni, la fascia di età nella quale, statisticamente, il Movimento Cinque Stelle spopola. Pochissimi i ragazzi in sala, ma quella è una condizione abbastanza diffusa anche altrove, quasi ovunque si faccia spettacolo o si faccia politica. Non c’è il tutto esaurito.
Per almeno dieci minuti la trama regge, e con lei regge la tensione emotiva dello spettatore. Grillo rievoca i suoi primi passi di artista, il quartiere popolare di Genova dove è cresciuto, le battute rubate, le canzoni trafugate, l’umano arrabattarsi di tutti contro tutti, le origini "normali" della sua famiglia, i primi lavori da tornitore. Il porto brulicante di vita, le bagasce, una bella canzone anticlericale del grande e dimenticato Duilio Del Prete spacciata come propria per fare colpo sulle ragazze, Brel e Brassens saccheggiati, «tutti abbiamo rubato». Bello, vero, il Grillo politico non lo direbbe mai, che la vita vera si regge sull’imperfezione di tutti, sulla debolezza di tutti. È solo la politica che si regge sull’inganno rovinoso della purezza. Il Grillo che fu amico di Fabrizio De André - era la stessa Genova, lo stesso angiporto - dalla menzogna della purezza saprebbe come prendere le distanze.

IL DISAGIO DEL RIVOLUZIONARIO
Dura poco. Dura abbastanza per illudersi che veramente la stordente parabola politica di Beppe sia (finalmente!) giunta al termine. Che il ritorno di Grillo a Grillo, alla mirabolante irresponsabilità della satira, alla micidiale profondità del comico, sia davvero in atto. Dura poco perché poi Beppe Grillo, il famoso comico, liquidato il proprio ologramma in giacca e cravatta, presa ogni possibile distanza dagli equivoci della politica, comincia il suo spettacolo. E lo spettacolo, ahimè, è un interminabile comizio. Non un comizio efficace, per giunta. Ma un impressionante farraginoso ammonticchiarsi di argomenti (la robotica, la domotica, la temperatura nei termitai, la piscicoltura, le infezioni in Africa, gli imballaggi, Scienthology, i pastafariani, la nocività dell’automobile, la riconversione delle centrali nucleari, l’alga cannibale, il cibo artificiale, la fine del lavoro salariato, la dittatura delle direttive, il ridimensionamento del cervello umano, lo spazzolino da denti a testina cambiabile, il reddito garantito, il presidente della Volkswagen che va in treno, la funzione termica del mantello della zebra, e poi ho smesso di prendere appunti perché mi mancava il fiato) che non hanno quasi mai uno sbocco logico, però producono un’atmosfera psicologica. Un "clima". Più o meno questo: c’è un "loro" che trama e comanda, che falsifica e governa. E c’è un "io" che svela l’inganno, che si ribella e pone rimedio. A che cosa? E in che modo? Non si capisce bene. Tutto è appeso a un’ipotesi, vaga eppure vibrante (forse: vibrante perché vaga) di svelamento dell’inganno e di purificazione. Le buone battute, le felici intuizioni («quando sei in coda in macchina, tu non sei in coda, tu sei la coda») scompaiono nel magma frastornante di affermazioni "scientifiche" tanto solenni quanto bisognose di verifica, di discussione, in una sola parola: di pensiero. Ma tutto è troppo compresso, troppo trafelato perché l’ossigeno possa circolare. È una specie di "forse non tutti sanno che" mezzo ambientalista, mezzo visionario, illustrato da veloci filmati, grafici, fotografie che passano sugli schermi sormontanti il palco come un palinsesto sincopato. Il pubblico segue partecipe ma piuttosto smarrito. Mano a mano perde il filo, troppa la materia da sviscerare, le menzogne del potere da svelare, le novità salvifiche da accertare. Pochi gli applausi, pochissime le risate, se non quelle appese alle battute sessuali: ma è una croce, quella, di tutti i comici di tutto il mondo.
Di vero rimane, palpabile, il disagio umano di un comico che si è trovato, forse suo malgrado, nel ruolo di Capo della Rivoluzione. Ed essendo un uomo sensibile, e un artista consumato, quel disagio lo mette in scena, se ne sorprende e perfino se ne duole, capendo benissimo che questa condizione lo imprigiona, lo condiziona, lo rende "doppio", schizofrenico, sofferente. Depresso, dice Grillo all’inizio. La sana depressione che conduce al dubbio. La depressione nemica dell’entusiasmo, amica dell’intelligenza. Ma poi nell’entusiasmo Grillo ricade: e nell’entusiasmo lo spettacolo deperisce. Lo spettacolo soccombe.
Lo sdoppiamento dei minuti iniziali è, non per caso, la sola parte teatralmente "vera", ed emozionante, di una performance che di lì in poi smentisce, spietatamente, i suoi stessi presupposti: non è per niente vero che "la satira" salverà Grillo. È vero, al contrario, che "la satira" intesa come una ricognizione forsennata in tutto lo scibile umano, come "controscienza" apodittica, una serie di affermazioni inverificabili anche solo per la velocità folle con la quale sono sciorinate, finisce per sembrare la vera causa del problema. L’uovo del serpente. La satira, se si prende sul serio, è fottuta, e inganna orribilmente il suo pubblico. Perde ogni potere. Si grava di ogni miseria. Diventa la più trombona di tutte le discipline.

UN’USCITA MALINCONICA
Si esce dunque dal poco allegro teatro Linear Ciak di Milano facendo una altrettanto poco allegra riflessione: è il politico Grillo la vittima del Grillo satirico, non viceversa, e questa, in fin dei conti, è la vera scoperta. È il satirico che, nel momento stesso in cui le sue frustate necessariamente veloci, indimostrate, faziose, pretendono di ergersi a "pensiero critico", a "cultura antagonista", genera il mostro di un discorso politico sprovvisto di dialettica e di analisi. Mancano solo, nella cavalcata di Grillo tra diecimila argomenti, tutti difficilissimi e tutti appena accennati, le scie chimiche che ci avvelenano, e il virus dell’influenza sparso dagli aerei per sfoltire il novero dei vecchi e alleviare la spesa sanitaria dello Stato (fole ampiamente diffuse sul web) e il cerchio sarebbe infine chiuso, Grillo e i grillini identificati dalla stessa furente disposizione a tradurre in "complotto" il corso delle cose, a semplificare il mondo e dunque, in ultima analisi, a ignorarne disperatamente i meccanismi ardui, l’ammirevole complicazione.
Gli ambiti sono sacri. Lo scienziato parli di scienza, il satirico di satira, il politico di politica. L’improvvisazione presuntuosa e al tempo stesso ingenua, la tuttologia per giunta innervata dall’idea insana che l’ultimo sprovveduto ne sappia più di un ministro o di un premio Nobel, alla Bouvard e Pécuchet, è una rovina di tipo interdisciplinare: fa perdere il senno tanto al comico, quanto al politico, quanto allo scienziato. Malinconica uscita di teatro, almeno la mia di spettatore. Ulteriore malinconia: quando scriverò questa mia dolente "recensione", che per onestà intellettuale non può essere benevola, quanti capiranno che sto parlando di teatro, quanti la butteranno in politica? Che confusione, cittadino Beppe. Che irrimediabile confusione. Senza ritorno, e senza una vera ricompensa per il tuo coraggio scriteriato.