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 2015  dicembre 27 Domenica calendario

L’IRA FUNESTA DEL VIRTUOSO BUSI – 

Siamo nati, noi tutti, per deludere Aldo Busi. Uomini e donne, non si scappa, è una fatalità, una legge di natura. E lui ce ne vuole così tanto da tirarci dietro per ripicca i suoi bellissimi libri, ovvero quanto di meglio si riesca a fare oggi con la lingua italiana: ora è il turno di quest’ultimo L’altra mammella delle vacche amiche, che si innesta come un parassita scialacquatore sul precedente Vacche amiche. Una autobiografia non autorizzata facendolo lievitare da 180 a 466 pagine di cui non ce n’è una che non tenga. Felix culpa? Ne valeva la pena?
Per noi sicuramente sì, anche se Busi scrive che il suo sogno estremo sarebbe «istigare coi miei libri più gente che posso al suicidio, uno legge un mio libro e dalla vergogna per le sue azioni, la sua ipocrisia, la sua viltà, la sua doppiezza si suicida, mi sentirei ritemprato». E per fortuna che non crede all’aldilà, altrimenti dio sa (pardon; niente dio) a quale inferno dantesco ci destinerebbe.
Su questo non si può che deluderlo di nuovo: i suoi libri non diminuiscono la curiosità di vivere, l’aumentano, tale è la forza con cui fanno erompere dall’umanità scalena contro cui si accanisce una nebulosa esilarante di dialoghi, immagini, figure e situazioni. Il tristo spettacolo doveva pur essere stato messo su per qualche cosa.
Oggi tocca alle donne (le vacche amiche, appunto), che gli hanno fatto anche loro dei torti inemendabili – come tutti, del resto. Lui le avrebbe anche amate se solo non fossero così inguaribilmente «femmine» (e gli uomini «maschi», quanto di più orrendo si può immaginare: violenti, tirchi, bugiardi, viriloidi, e le femmine giù a volergli somigliare o peggio ancora a pretendere di «completarsi» tramite il commercio con partner tanto infami). Ma nella sua invettiva c’è posto anche per i preti, i politici, i giornalisti, gli intellettuali, gli omosessuali, i cattolici e gli islamici, i normali e gli anomali, che sono solo dei normali mancati, dunque anche peggio.
Due scappatoie e anzi errori fatali da evitare per non perdersi tutto il meglio: 1) Busi scherza, in realtà ci ama; 2) il sollievo a buon mercato della catarsi estetica (anche una cosa brutta diventa bella quando è scritta bene: falso e consolatorio). È vero l’opposto. L’odio è schietto, e il fatto che sia trapuntato ogni tanto da moti di struggente e quasi indicibile tenerezza (per i suoi personaggi irrisi, bistrattati, inzaccherati) non fa che renderlo più accurato.
E nessun riscatto tramite le lusinghe dello stile: mai l’espressione «scrive bene», avulsa dal contenuto di quello che si scrive, ha mostrato la corda come nel suo caso. Busi scrive bene perché odia bene, e la cosa non è facile da mandar giù.
L’odio vero non nasce che dal risentimento, e il risentimento è la più impresentabile, la più inguardabile, la meno confessabile delle passioni umane. Busi è riuscito nell’impresa impossibile di darcene la poesia, e si tratterebbe di capire come ha fatto e come mai – oggi che il risentimento è tracimato in politica e ne informa quasi per intero lessico e narrazioni, sfigurandola – il suo sia così scintillante e vitale da leggere. Tra tutti i meriti di scrittore civile che generosamente si autoascrive, quello che conta davvero è questo: guardare in faccia la bestia, restare vivo e farla guardare a noi.
Altri autori, significativamente tutti della sua generazione (Busi è del 1948), fanno qualcosa di simile: Walter Siti (classe 1947), Francesco Pecoraro (1945), Antonio Moresco (1947), Francesco Permunian (1951), chi dicendo come Siti e Pecoraro è tutta colpa mia, chi come Moresco e Permunian (e Busi stesso) è tutta colpa vostra. Ma Busi è stato il primo e il più radicale, ed è in ciò più nostro contemporaneo di tanti scrittori delle generazioni successive, dove si ha sempre l’impressione che la spazzatura sia tornata sotto il tappeto.
Il risentimento è oggi la passione dominante, il soggetto oscuro che accomuna nel loro brancolare a tentoni la miriade di «Io minimi» con cui l’umanità spera di sopravvivere. Busi non va a tentoni, ci vede chiaro e mira giusto. Reali o immaginarie che siano colpe e offese, l’unico reagente con cui le tratta è la bile nera. Nello scrittore satirico, diceva Benjamin parlando di Karl Kraus, sopravvive un resto dell’antico cannibale: mangiare il nemico per incamerare la sua forza.
Ma Busi è molto più di un satirico, mangia tutti in primis gli amici, per un angelo sterminatore il travaso di bile è una malattia professionale. Quale sarebbe infatti l’alternativa? Dice, l’amore. Ma come si fa, ribatte Busi, se le uniche persone di cui mi sono davvero innamorato, uomini e donne, «avevano tutti un passato in comune: erano stati come me maltrattati da piccoli, questo mi aveva fatto innamorare ma al contempo inibito ogni desiderio sessuale, perché di loro non vedevo più il corpo adulto nei suoi legittimi desideri carnali che danno e prendono, vedevo il bambino tormentato e maltrattato che vorrebbe un po’ di affetto e di rispetto e semplicemente non potevo fare una cosa del genere con una creatura del genere»?
Come si fa quando l’odio ha la stessa radice della tenerezza? Non resta che inalberare le proprie convinzioni civili a misura che il mondo si fa sempre più incivile (a misura che e proprio perché; per maledirlo meglio, altrimenti non sarebbe che uno dei tanti spacciatori di prediche).
Niente trama, niente «temi», niente suspense, in questo monologo interminabile, che non sia lo spettacolo mozzafiato dei suoi smodati, snodatissimi periodi infarciti di digressioni, a-parte, ritardi e ritorni a bomba: ce la farà anche stavolta? Ce la fa sempre, è sempre al suo centro, e tutti noi al centro del mirino. Non si vorrebbe mai che finisse. Perché poi, chiuso il libro, con la bestia ce la dobbiamo vedere da soli.