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 2015  dicembre 27 Domenica calendario

IL PETROLIO IN CADUTA LIBERA METTE FINE AL SOGNO ALASKA

C’era una volta un paradiso di nome Alaska. Certo, dovevi accettare di vivere per otto mesi all’anno in mezzo alla neve, evitare gli orsi, sopportare lunghe giornate piene di buio o di troppa luce, e ascoltare i discorsi della governatrice Sarah Palin, che scrutando l’orizzonte dalle finestre della sua casa sosteneva di poter divinare le intenzioni politiche della Russia. Poco più di mezzo milione di esseri umani riuscivano a superare tutte queste prove, ma se ce la facevano, avevano poi a disposizione 1,7 milioni di chilometri quadrati di bellezza e ricchezza.
Lo stato più grande degli Usa, e la montagna più alta del Nordamerica, con i 6.100 metri del Denali. Fiumi pieni di salmoni, e un tempo di oro; mari popolati da balene, halibut e orche; parchi abitati da alci, caribou e grizzly. E poi il petrolio, naturalmente, che scorrendo dalle regioni artiche di Prudhoe Bay aveva contribuito a regalare un reddito medio sopra i 64.000 dollari all’anno, cioè il quarto più alto degli Stati Uniti. La cosa più complicata che dovevano organizzare i suoi abitanti era probabilmente la Iditarod, la mitica corsa con le slitte tirate dai cani sopra un sentiero lungo oltre 1.500 chilometri, per ricordare l’epopea dell’ultima frontiera e le imprese come quella della muta guidata dal cane Balto, che salvò i bambini della cittadina di Nome portando il siero contro la difterite.
Scorriamo ora con le immagini al 2015, che probabilmente verrà ricordato come l’anno della catastrofe in Alaska. A febbraio comincia a circolare la notizia che probabilmente il villaggio di Kivalina andrà abbandonato, e la sua popolazione dovrà trasferirsi da qualche altra parte. La sorte di un paesino con 400 abitanti in genere non attirerebbe così tanta attenzione, da finire sulle pagine dei grandi giornali nazionali tipo il Washington Post. In questo caso, però, si tratta di un segno epocale. Kivalina, infatti, sopravviveva da decenni a 83 miglia sopra il Circolo polare artico, perché il ghiaccio la proteggeva dall’oceano. Così le generazioni di Inupiat che ci vivevano potevano andare a pescare le balene e tirare avanti. Ora però il ghiaccio non c’è più, o almeno non più come una volta. Il riscaldamento globale lo sta squagliando e il villaggio non è più al sicuro. Il presidente Obama ha stanziato 50 milioni di dollari per consentire alle popolazioni indigene di adeguarsi ai cambiamenti climatici, e una parte di questi soldi servirà ad evacuare Kivalina, che insieme al paesello della Fiji Vunidogoloa diventerà una delle prime vittime dell’innalzamento dei mari.
Se tutto questo non bastasse, ora l’Alaska è finita sulle pagine del «New York Times», perché per la prima volta negli ultimi 35 anni potrebbe essere costretta a far pagare le tasse ai suoi residenti. Motivo: il crollo del prezzo del petrolio.
Finora era accaduto il contrario: era lo Stato che regalava soldi ai cittadini. Il petrolio, con tutti i diritti incassati a partire dagli Anni Settanta per farlo scorrere nell’oleodotto dall’Artico al porto di Valdez, finanziava il 90% dei circa 5 miliardi di dollari del bilancio statale. Anzi, i profitti erano così abbondanti che il governo locale li depositava in un Permanent Fund, e li ridistribuiva fra i residenti. Ogni autunno spediva l’assegno, che quest’anno è arrivato a 2.000 dollari per abitante. Una famiglia di quattro persone riceveva 8.000 dollari all’anno, che magari non bastavano a vivere di rendita, ma in alcuni casi giustificavano la decisione di trasferirsi in Alaska.
Così era diventato lo Stato dei fannulloni, secondo i critici più velenosi, tenuto in piedi dall’assistenza pubblica nonostante fosse governato dai repubblicani. La natura e il mercato, però, hanno deciso che la festa è finita, e il governatore indipendente Bill Walker ha avvertito che per far quadrare i conti, dovrà reintrodurre le tasse. Almeno fino a quando l’Alaska, già sopravvissuta alla fine della corsa all’oro, scoprirà qualche altro tesoro con cui tornare ad essere un paradiso.