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 2015  novembre 28 Sabato calendario

La Russia, la Turchia e la guerra in Siria


ALBERTO NEGRI, IL SOLE 24 ORE 28/11 – 
Il botta e risposta tra i due guasconi euro-asiatici è una guerra di parole ma anche di sostanza. Per questo la crisi tra Russia e Turchia, tra squilli di telefono veri o presunti, si fa profonda, con scambi di accuse e minacce dai toni accesi. Tayyp Erdogan è un alleato dei ribelli anti-Assad e lo vorrebbe morto mentre Vladimir Putin sostiene il presidente siriano ed è intervenuto militarmente per salvarlo dal collasso, altrimenti ora scriveremmo una storia diversa anche sul Califfato.
Non solo. Erdogan ha stravinto le elezioni facendo leva sul nazionalismo, sulla paura degli attentati e il pericolo che i curdi minaccino l’integrità territoriale del Paese. Non può rinunciare a mostrarsi forte anche quando non lo è. Difende soprattutto la sua politica spericolata che in questi anni lo ha portato a far passare migliaia di jihadisti dal suo confine per abbattere Assad e proporsi come il vero leader dei musulmani del Levante. Al punto da intrattenere rapporti ambigui con l’Isis spingendosi a bombardare i curdi quando combattevano contro il Califfato. Come Putin non ha scrupoli. Ha bisogno di una rivincita in Siria dopo aver visto crollare al Cairo, con il colpo di stato di Al Sisi, l’alleato Mohammed Morsi: è lui, Erdogan, che si propone come la versione “autentica” e vincente dell’Islam politico.
Anche il suo rivale ed ex alleato Putin spinge sul nazionalismo, strumento per una politica di prestigio che vuole riportare la Russia al rango di superpotenza. Con l’intervento militare in Siria Mosca torna a essere un arbitro della sorti di interi popoli e nazioni e bilancia la potenza americana in una regione dove gli Stati Uniti hanno iniziato, e non finito, direttamente due guerre, Afghanistan e Iraq, a una serie di altri conflitti locali lanciati sotto l’egida della guerra la terrorismo. Ora si permette non solo di esibire forza aerea e missilistica ma ha già impiegato sul terreno le forze speciali. Anche se per recuperare il pilota di un caccia colpito dai turchi è dovuto intervenire il sagace generale iraniano dei Pasdaran Qassem Soleimani, il vero stratega della guerra siriana sul campo.
Se alle considerazione geopolitiche si aggiungono le note caratteriali dei due personaggi si capisce bene che la sceneggiata è destinata a continuare. Erdogan vuole incontrare Putin a margine della Cop21 a Parigi, «Voglio vederlo faccia a faccia», ha detto, e avverte: «Non scherzi col fuoco». Il leader del Cremlino fa sapere che non gli parlerà finché non ci sarà la volontà di chiedere scusa per l’abbattimento del jet di Mosca. Ed è stata smentita la sospensione dei voli militari turchi. Il tutto accompagnato da ritorsioni russe, dalla sospensione del regime esente da visti con la Turchia alle rappresaglie su imprenditori e turisti turchi. Mancano solo le pedate nel fondoschiena. Erdogan usa i missili con la destrezza con cui un tempo si usavano i coltelli nel suo quartiere di Kazimpasha, Putin non rinuncia a impartire lezioni di educazione siberiana. In queste mani è finito l’Occidente per la sua insipienza.
Con questi duelli in corso c’è da riflettere su come andrà la presunta guerra al Califfato. La coalizione anti-Isis è tutt’altro che un’alleanza elastica: ha due teste, una a guida americana, l’altra con a capo i russi, e un terzo volto, quello di Erdogan, leader di un Paese della Nato, che è ha andato spesso contro gli interessi dell’Alleanza e ha concesso assai malvolentieri le base di Incirlik agli Usa per bombardare l’Isis. Ora la Nato in questo scontro Turchia-Russia abbassa i toni perché gli Usa non vogliono un conflitto allargato e mettere truppe a terra ma si sta ponendo la questione scottante del confine turco-siriano, alle porte dell’Alleanza, che già da quattro anni è il nervo ultrasensibile di questo conflitto siriano: qui, sull’”autostrada della Jihad”, passano i foreign fighters con biglietti di andata e ritorno, qui si è installato l’Isis, qui fuggivano e fuggono migliaia di rifugiati, qui si contrabbanda il petrolio siriano. Ma l’Europa e gli Stati Uniti sono stati per anni a guardare sornioni in attesa di un verdetto su Assad e la Siria che non è mai venuto, strizzando un occhio complice a Erdogan: ed ecco i risultati.
Alberto Negri

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MAURIZIO MOLINARI, LA STAMPA 25/11 – 
Il Sultano e lo Zar duellano in Medio Oriente: con l’abbattimento del Sukhoi 24 russo da parte degli F16 turchi sul confine siriano la sfida fra Recep Tayyp Erdogan e Vladimir Putin sulla sorte di Bashar al Assad adesso rischia di degenerare in scontro militare fra Stati.
Quando a fine settembre il ponte aereo russo crea attorno a Latakia le basi teste di ponte per l’intervento a sostegno del regime di Bashar Al Assad, i primi colpi di mortaio che cadono arrivano dalle postazioni di Ahrar al-Sham, i ribelli armati e addestrati da Ankara. Sono le avvisaglie di un teatro di operazioni che vede russi e turchi su fronti opposti. I raid di Mosca vogliono aprire la strada all’avanzata di terra di siriani, iraniani ed Hezbollah attraverso la provincia di Idlib, in direzione di Aleppo, ovvero la regione presidiata da Jaish al-Fatah, la coalizione di ribelli islamici creata in maggio con un accordo fra Ankara e Riad. Le forze russe sono il tassello più importante della coalizione pro-Assad, i turchi sono l’alleato-chiave dei ribelli più pericolosi, a cui fanno arrivare rifornimenti e armi come i missili anti-tank Tow.
Disaccordo a Vienna
Quando a fine ottobre si svolge a Vienna la prima seduta del Gruppo di Contatto «speciale» sulla Siria attorno al tavolo i ministri saudita e turco fanno scintille con l’iraniano Javad Zarif. L’americano John Kerry fatica per scongiurare il collasso della seduta, ma l’esito apparentemente positivo cela la fotografia della crisi: Ankara e Riad non accettano compromessi sulla fuoriuscita di Assad, a cui Teheran, sostenuta da Mosca, si oppone. Il compromesso mediato da Kerry, con il consenso del russo Sergei Lavrov, sulla transizione – cessate il fuoco e nuove elezioni in sei mesi – non accontenta Ankara perché pur prevedendo l’uscita di scena di Assad non esclude che possa indicare un suo candidato.
Sgambetto al G20
Attriti militari e disaccordi politici trasformano Putin e Erdogan nei protagonisti della coalizioni concorrenti in Siria ed è il G20 di Antalya a mettere in evidenza. Avviene nell’ultima giornata dei lavori quando Putin mette i leader davanti alla lista dei cittadini di 40 Paesi che inviano aiuti finanziari allo Stato Islamico. I turchi sono numerosi. È uno sgambetto a Erdogan nel summit che ospita: una sfida recepita alla stregua di offesa personale. Erdogan sa bene che il 60 per cento del gas nazionale arriva da Mosca, ma accettare lo smacco significherebbe uscire ridimensionato. La contromossa sono le accuse ad Assad di «acquistare greggio da Isis» finanziando i jihadisti per rafforzare un nemico contro il quale si batte per ritrovare legittimità. L’affondo ha per obiettivo Mosca, che copre Assad.
Esodo dei turkmeni
Erdogan vede in Putin una doppia minaccia: sul piano militare vuole salvare Assad e su quello politico sta costruendo, dopo il massacro di Parigi, un’alleanza militare anti-Isis con la Francia di François Hollande capace di portare a un’intesa tattica con la Nato che relega in un angolo la Turchia. Tantopiù che Lavrov (che ha annullato la visita ad Ankara prevista per oggi) non perde occasione per esprimere sostegno ai curdi.
Per scompaginare i piani del Cremlino, Erdogan va all’attacco lì dove gli europei sono più sensibili: l’emergenza umanitaria. È nel weekend appena trascorso che Ankara accusa i jet russi di «attacchi sulle popolazioni turcomanne in Siria» con il risultato di spingere alla fuga «almeno 40 mila persone» mille delle quali già in territorio turco. I turcomanni nel Nord della Siria sono l’etnia più fedele ad Ankara. Il jet Sukhoi-24 abbattuto cade sulle montagne che popolano e i piloti, vivi o morti che siano, sono nelle mani dei loro gruppi armati.
Rivalità strategica
Alla radice di tali contrapposizioni fra Erdogan e Putin ci sono i rispettivi progetti strategici che ruotano entrambi attorno ad Assad, ma con ambizioni regionali opposte. Ankara vuole rovesciare il Raiss per trasformare la Siria in uno Stato sunnita guidato da gruppi islamici portatori dell’ideologia dei Fratelli Musulmani, che coincide in gran parte con la piattaforma del partito Akp di Erdogan, al fine di generare una sfera di influenza neo-ottomana nel Medio Oriente segnato dall’implosione degli Stati arabi. Ovvero gettare le basi di un Sultanato di Erdogan sulla regione. Putin invece vuole salvare Assad per ottenere una vittoria, politica e militare, capace di assegnare alla Russia un ruolo da Zar del Medio Oriente sfruttando l’indebolimento Usa. Ciò spiega perché Putin ha fatto coincidere l’intervento in Siria con accordi con tutti gli attori limitrofi: Iran, Iraq ed Hezbollah libanesi sono alleati mentre con Israele ha una cooperazione militare che la Giordania vuole ora imitare. Unica eccezione: la Turchia, rivale strategico al punto da rischiare di diventare nemico militare. In un conflitto fra Stati che può ruotare attorno a due coalizioni, i fedeli del Sultano contro gli alleati dello Zar.

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FRANCESCO BATTISTINI, CORRIERE DELLA SERA 28/11 –
Così uguali, così rivali. Il Putin turco, come lo definì una volta un giornale inglese, non smette di litigare con l’Erdogan russo. E sembra d’essere tornati ai momenti peggiori della Guerra fredda, quando Mosca e Ankara erano nemici in prima linea. Recep Erdogan non s’abbassa a scusarsi. Vladimir Putin non alza la cornetta per parlare. E si resta fermi alle 10 di martedì mattina, all’F16 turco che abbatte il Su24 russo e incrina un rapporto fino a poco fa, fino agli incontri novembrini del G20 di Antalya, fino all’inaugurazione settembrina della nuova moschea in Crimea, magari non d’amicizia, però di sospettoso rispetto sì. «Non scherzare col fuoco», avverte ora il Sultano. «Con te non parlo», gli risponde lo Zar. I due presidenti s’incrociano lunedì al vertice sul clima di Parigi. I loro ministri degli Esteri, poche ore dopo all’Osce di Belgrado. Che sia pace fredda o caldo rancore — fra due piccoli imperatori appaiati dallo stesso populismo, da una simile ambizione, da un comune antioccidentalismo e da un’identica commiserazione di chiunque s’opponga — dipende solo da loro.
Tanto gelo «sicuramente non ci aiuta», è un po’ preoccupato Staffan de Mistura, il mediatore Onu per la Siria. Su sollecitazione Nato, Erdogan ha tentato di chiudere il caso: chiamando Mosca 7 ore dopo l’abbattimento (ma senza ricevere risposta), giustificandosi («nessun Paese può cedere la sovranità, per reazione automatica abbiamo applicato le regole d’ingaggio: sapendo che l’aereo era russo, avremmo agito in modo diverso, ma per noi, poteva essere anche un piano d’Assad…»), lanciando segnali («a Parigi, potremmo sederci e parlarne faccia a faccia, riportare la questione a un punto ragionevole…»). Infine negando all’altro l’unica cosa che chiede, le scuse: «Putin pretende che consideriamo i suoi aerei “come ospiti”, ma non esistono ospiti non invitati. Il nostro spazio è stato violato. Faccia come noi, dimostri le sue ragioni con audio e radar. Invece, sentiamo solo accuse generiche e ingiuste». Dietro i toni, c’è una Turchia preoccupata. Che convoca l’ambasciatore di Mosca, protesta per gli insulti in aeroporto a 50 imprenditori, per i fantocci bruciati in piazza e i supermarket che equiparano chi acquista turco a chi finanzia l’Isis: non saltano gli accordi su gas e nucleare, per ora, ma in ballo fra i due Paesi ci sono affari per 44 miliardi di dollari l’anno.
Putin, no. Per contrappasso, lui mostra un’ira gelida che ricorda molto l’Erdogan offeso («voglio le scuse!») quando fu Israele, nel 2010, a sparare sulla nave turca Mavi Marmara che aveva sconfinato violando il blocco di Gaza. La sua linea è chiara: niente scuse, niente colloqui a Parigi. «S’è superato il confine dell’accettabile, Erdogan rischia di trascinare il suo Paese in una situazione complicata» e (parole del presidente della Duma) «abbiamo diritto a una risposta militare». Per cominciare, dal 1° gennaio tutti i turchi che vanno in Russia devono avere il visto. Si rivedono anche gli appalti per la moschea in Crimea. E si chiudono le importazioni agricole: il secondo partner commerciale di Ankara rinuncerà a vendere il grano e punterà di più su israeliani e iraniani. Quanto a una coalizione militare unica in Siria, dice Mosca, l’episodio dimostra che l’Occidente non è pronto. E forse è l’unica cosa su cui Erdogan concorda.
Francesco Battistini

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DAVIDE FRATTINI, CORRIERE DELLA SERA 28/11 –
Vladimir Putin accusa la Turchia di rifornire i «terroristi» in Siria con carichi di armi e ordina di bombardare i camion che attraversano il confine. Per il governo di Ankara sono convogli che trasportano aiuti umanitari: è la stessa spiegazione che il presidente Recep Tayyip Erdogan ha fornito in maggio quando il giornale Cumhuriyet ha rivelato — foto comprese — che i tir sarebbero stipati di armamenti per i ribelli turkmeni, gli stessi che sparavano ai due piloti russi mentre scendevano con il paracadute. Le immagini, scattate nel gennaio del 2014, mostrano la polizia di frontiera turca che sta ispezionando le casse e l’intervento di quelli che sarebbero agenti dei servizi segreti per fermare l’operazione. Erdogan allora aveva promesso a Can Dundar, il direttore del quotidiano, di «fargliela pagare» e aveva presentato alla magistratura una denuncia contro di lui chiedendo che fosse punito con «svariati ergastoli».
Ieri i giudici gli hanno dato retta e hanno incriminato Dundar ed Erdem Gul, il capo dell’ufficio di Ankara. Sono accusati di terrorismo e spionaggio, di aver reso pubblici segreti di Stato e
di aver compromesso la sicurezza della Turchia. Erdogan ha sempre smentito di fornire armi ai ribelli che combattono Assad o ai miliziani fondamentalisti dello Stato Islamico, non ha mai negato di voler vedere il presidente siriano deposto. Putin considera «terroristi» tutti i rivoltosi che si oppongono al regime: la stessa definizione usata da Assad fin dalle prime manifestazioni nel marzo 2011 in Siria per chiedere le riforme. Cumhuriyet critica il partito islamista che governa la Turchia e come altri giornali subisce i tentativi di censura, i licenziamenti di chi non si allinea. Centinaia di persone hanno manifestato a Istanbul davanti alla sede del quotidiano per protestare contro gli arresti. «Per noi questa decisione dei giudici è solo una medaglia al valore», ha detto il direttore in tribunale. Il giornale ha ricevuto quest’anno il premio di Reporter senza frontiere. L’organizzazione internazionale parla adesso di «persecuzione politica»: «Se verranno condannati, sarà l’ennesima prova che le autorità al potere sono pronte a qualunque metodo per sopprimere le voci indipendenti». Nell’ultima classifica di Reporter senza frontiere sulla libertà di stampa la Turchia è stata piazzata al 149o posto su 180 nazioni.

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STEFANO AGNOLI, CORRIERE DELLA SERA 26/11 – 
Mosca rispolvera l’arma del «ricatto» energetico, come nel 2006 e nel 2009? È vero che da qualche settimana Gazprom ammoniva l’Ucraina sul fatto che senza ulteriori pagamenti avrebbe sospeso le forniture di gas. Ma il rapporto nell’energia tra Mosca e Kiev non è mai stato solo commerciale, e la coincidenza con l’abbattimento del Su-24 (e il sabotaggio tre giorni prima delle linee elettriche verso la neoannessa Crimea, che ha lasciato la penisola al buio) è parsa fin troppo evidente. Le formule e la retorica di Gazprom sono le stesse di sei e nove anni or sono, ma non sfugge neppure che questa volta ad essere destinataria del medesimo messaggio non sono solo Ucraina e Unione Europea ma anche la Turchia, che importa dalla sponda russa del mar Nero circa il 60% del gas di cui ha bisogno. Alleate fino a qualche mese fa, tanto da siglare un memorandum sulla costruzione del Turkish Stream, il gasdotto che avrebbe dovuto bypassare l’Ucraina, ora Mosca e Ankara si trovano su posizioni contrapposte. Nel breve periodo la pressione energetica potrebbe mettere nei guai Turchia e Ucraina, soprattutto se l’inverno fosse freddo, e preoccupare l’Europa, che dipende per il 30% del suo fabbisogno dalla Russia (e il 12-13% passa proprio per l’Ucraina). Ma con gli incassi da petrolio falcidiati dal barile sceso sotto 50 dollari, anche Mosca ha bisogno del denaro dei suoi clienti. Sul lungo periodo, poi, la vecchia mossa sul gas non farebbe che convincere ancora di più l’Europa ad investire sul «Corridoio Sud», che ha le sue fonti di approvvigionamento in Azerbaigian (e in prospettiva in Iran). Poco cambierebbe anche per le imprese italiane. Quella più esposta era la Saipem, che comunque da tempo ha messo una pietra sopra il Turkish Stream. L’azienda di servizi petroliferi è invece in corsa per il raddoppio del Nord Stream, il gasdotto del Baltico che i russi vogliono rafforzare, e lavora da tempo proprio in Azerbaigian.

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ROBERTO TOTTOLI, CORRIERE DELLA SERA 25/11 – 
Nel mosaico di etnie e confessioni religiose della Siria e dell’Iraq, vi è anche una importante minoranza turca. Nelle tragedie che hanno sconvolto curdi, yazidi e cristiani, o diviso sunniti e sciiti, i turcomanni sono finora passati inosservati, eppure sono un fattore fondamentale per il futuro della regione. I turcomanni hanno una presenza secolare tra Siria, Iraq e Iran. Sono il residuo di passate dominazioni e spostamenti tribali che hanno portato queste popolazioni dall’Asia verso occidente tra Medioevo ed età moderna. Tutti i turchi hanno origine dall’Asia centrale e hanno abitato progressivamente il mondo musulmano a partire dal IX secolo, grazie alla loro abilità militare e alle capacità di governo. Questa è del resto la comune origine dei turchi che hanno invaso l’Anatolia e poi creato l’Impero Ottomano e la Turchia moderna. Un ricordo ancestrale o forse più semplicemente un’origine mitizzata accomuna tutte le popolazioni turche che oggi sono sparse dal Mediterraneo all’Afghanistan.
I turcomanni di Siria e Iraq vivono nelle stesse regioni abitate dai curdi, con cui si contendono spazi e anche rivendicazioni politiche. In Iraq, secondo gli stessi turcomanni essi costituirebbero il 10% della popolazione irachena, mentre in Siria sarebbero poco di meno. In Iraq quasi metà dei turcomanni sarebbero sciiti. La famiglia Assad ma soprattutto Saddam Hussein hanno potuto utilizzare la rivalità tra curdi e turcomanni all’inizio per governare e poi per schiacciare nella repressione un non facile equilibrio.
I governi turchi, al di là dei confini, hanno sempre avuto un occhio particolare per loro. Erdogan vede nei turcomanni i suoi naturali alleati. Il sostegno americano all’autonomia curda del nord iracheno è anche, in parte, a detrimento del ruolo e delle rivendicazioni turcomanne, e a questo guarda Erdogan con sospetto e con la massima attenzione. L’intento neppure nascosto di queste attenzioni è sempre quello di frenare le rivendicazioni curde ovunque esse siano, e quindi anche in Siria e Iraq. E a tal fine la Turchia può contare su quelle minoranze etniche di lingua turca che ne sono i naturali alleati.

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GUIDO OLIMPIO, CORRIERE DELLA SERA 25/11  –
I l falco era lì ad aspettare. Ha costruito la sua trappola lasciando che la preda passasse nella sua zona più volte. Per pochi istanti. E nulla è successo. Fintanto che non hanno deciso di agire quando l’F-16 turco ha centrato il Sukhoi-24 russo, sconfinato per appena 30 secondi o meno. Un niente preceduto da tanto.
Ankara contro Mosca. Uno dei duelli ingaggiati attorno alla poltrona di Assad. I turchi vogliono rovesciarla, i russi puntellarla. Due forze contrastanti che pure fanno ricchi affari tra loro, dal campo energetico al turismo. Senza contare che le navi che riforniscono il contingente russo in Siria passano dal Bosforo. I servizi segreti turchi possono fare la conta. Infatti la fanno da quando il Cremlino ha fatto sbarcare fanti di marina a Latakia per soccorrere il regime.
L’intervento ha ridato vigore al raìs locale, quindi ha cercato di restituire l’iniziativa militare ai lealisti. La mossa dello Zar ha fatto infuriare il Sultano Erdogan e i principi del Golfo Persico, sostenitori da sempre di una parte della ribellione anti assadiana. Molti raid hanno infatti colpito le «brigate» finanziate dai Paesi sunniti che hanno reagito riempiendo le scorte di missili Tow. Armi non proprio recenti, però sufficienti per creare perdite ai governativi. Indiscrezioni hanno anche sostenuto di attività di intelligence condotte da alcuni servizi arabi.
Il confronto si è fatto feroce. L’Isis ha rivendicato il massacro dell’Airbus precipitato nel Sinai. La tesi sposata da Mosca e Washington è quella della bomba a bordo. L’hanno messa gli uomini del Califfo o è solo una firma? Resta la strage, con tutto quello che ne segue. Sono poi riemerse le accuse ad Ankara di fare poco per fermare il flusso di migliaia di jihadisti, le notizie sui legami tra turchi e Stato Islamico, gli acquisti di greggio. Relazioni pericolose sottolineate da Putin, convinto di una collusione evidente, e ben note anche in campo occidentale.
Quando l’asse siro-russo-iraniano è tornato a bombardare il settore dove vivono i turcomanni e un migliaio sono scappati, Ankara ha lanciato un avvertimento diretto. Il 19 hanno parlato apertamente di iniziative per difenderli ed è arrivato l’abbattimento del Sukhoi. Lo aveva preceduto la distruzione di un piccolo drone, sempre sulla frontiera, microincidente che però diceva molto sulla sensibilità dei turchi.
Non estraneo a queste prove di forza anche il progetto di Erdogan di creare una fascia di sicurezza nella parte nord della Siria, idea rilanciata anche nelle ultime ore, e i timori che Obama cerchi qualche forma di intesa con Putin. La storia del caccia, è chiaro, riattizza, il fuoco, mette la Nato in una situazione difficile. Gli Usa, sempre cauti quando sentono la parola Siria, chiedono invece un’azione decisa per sigillare 98 chilometri di frontiera, una porta usata dai volontari stranieri decisi a unirsi al Califfo. Obama non si fida per nulla dei turchi, però ha bisogno della base di Incirlik.
Il risultato è un concentramento di aerei russi, turchi, siriani, americani in un quadrante ristretto che ha già riservato sorprese mentre lungo i confini velivoli spia captano comunicazioni e dati. Superattivi gli israeliani. Una missione simile a quella del Phantom turco che, nel giugno 2012, è stato tirato giù dalla contraerea siriana al largo di Latakia. Allora si disse che i consiglieri russi avevano dato una mano all’alleato per tracciare una linea rossa. Ieri è arrivata la risposta.

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LUIGI SGUEGLIA, LA STAMPA 28/11 – 
La «battaglia tra Imperi», come l’hanno soprannominata alcuni media russi, si avvicina. È gelo tra il Putin e Erdogan dopo l’abbattimento del bombardiere russo dagli F16 turchi sul confine siriano, con toni sempre più duri, accuse e ritorsioni. E dalla «guerra del pomodoro e dei resort» si passa alla guerra diplomatica: dal primo gennaio 2016 Mosca annullerà i viaggi senza visti per i turchi, annuncia minaccioso il ministro degli Esteri Lavrov, «Ankara ha oltrepassato la linea rossa». Motivo ufficiale, la «minaccia terroristica»: Ankara non può assicurare pienamente la sicurezza dei russi nel Paese. Ma dietro c’è l’accusa di flirtare con l’Isis: la Turchia, nota il ministro, è diventata «nervosa» dopo che Mosca ha cominciato a bombardare le risorse petrolifere del Califfato. «La Russia ha diritto a una risposta militare» dopo l’incidente, incalza lo speaker della Duma Naryshkin.
Frattura insanabile
Erdogan prova a ricucire. Sospende i voli militari di Ankara in Siria, vorrebbe incontrare Putin «faccia a faccia» lunedì al vertice Onu sul Clima a Parigi. Ma il capo del Cremlino dice niet, non gli parlerà finché non arrivano le scuse turche. «Non scherzi col fuoco», replica il Sultano. Viktor Bondarev, capo di Stato maggiore dell’aeronautica russa dichiara che il Su-24 era «a non meno di 5,5 chilometri dal confine turco» quando è stato colpito martedì.
Se Ankara dovesse rispondere per le rime, a perderci sarebbero i 3 milioni di turisti russi che ogni anno visitano le coste turche. Niente Capodanno a Istanbul o Antalya, mete predilette dopo il Sinai ormai perduto, addio frutta e baklava? A risentirne sarà soprattutto il business. L’anno scorso in Russia sono entrati 360 mila cittadini turchi; molti lavorano nel settore edilizio, quasi il 70% delle costruzioni a Mosca è opera di imprenditori turchi. Alcuni supermercati russi hanno già sostituito i prodotti turchi con quelli «made in Marocco».
Sanzioni vicine
E in attesa che il governo ufficializzi le sanzioni contro Ankara, la campagna anti-turca prosegue anche con proposte deliranti. C’è chi vuole «de-turchizzare» l’Islam russo, eliminando i finanziamenti alle organizzazioni musulmane, cacciando predicatori e imam turchi «radicali». La Crimea ha già detto no ai fondi di Ankara per la moschea di Simferopoli.
La Duma, «stampante impazzita», si accoda. Il nazionalista Zhirinovsky suggerisce di lanciare «una bomba nucleare» nel Bosforo per distruggere Istanbul. Un altro deputato chiede di boicottare i ristoranti turchi. Il Comune di Mosca vuole eliminare i serial di Ankara dalla tv. Più seriamente, il Parlamento potrebbe votare un progetto di legge per punire con fino a 5 anni di prigione chiunque neghi il genocidio armeno (che la Russia già riconosce). Per rappresaglia, il premier turco Davutoglu promette di aiutare Baku a «liberare i territori occupati dell’Azerbaijan», cioè l’enclave disputata del Nagorno-Karabakh ora controllata dagli armeni. Sulle tv federali la Turchia ha sostituito l’Ucraina come nuovo nemico, e domina gli schermi con la guerra in Siria. Come fare ora a estrarre la «coltellata nella schiena?».

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ALBERTO PASOLINI ZANELLI, ITALIAOGGI 28/11 –
Negli ultimi giorni, anzi nelle ultime ore, la situazione tra i paesi della Nato e la Russia si è complicata ulteriormente un po’ dappertutto, come se fosse legata da un immenso nodo gordiano che dal Medio Oriente si estende in tutte le direzioni. Nelle ore della visita del presidente francese a Mosca e in quelle immediatamente precedenti si sono verificati, fra l’altro, i seguenti fatti nuovi.
In diversi paesi e in moltissimi inciampi nella campagna contro l’Isis. A cominciare dall’abbattimento da parte turca di un aereo militare russo intento a colpire le posizioni degli integralisti nel nord della Siria. Dovuto a un fuoco di interdizione in risposta a una micro violazione dello spazio aereo turco, durato 17 secondi in tutto. E seguito da un violento scambio di accuse. Che hanno portato in superficie uno dei problemi fin qui sotterranei della zona: quello dei turkmeni o turcomanni. Di cui la Turchia si proclama protettrice. Quasi contemporaneamente un’altra minoranza è balzata, anzi ritornata, in primo piano: i tartari, quelli della Crimea, una delle minoranze nei secoli in cui la regione era dominata dalla Russia. Ribelli durante la seconda guerra mondiale, i tartari furono barbaramente perseguitati da Stalin, prima di essere regalati da Nikita Krusciov ai suoi compatrioti ucraini e di ritornare alla Russia dopo la disgregazione dell’Urss.
Oggi i tartari sono l’opposizione più organizzata e combattiva e hanno scelto questi momenti di tensione per effettuare atti di sabotaggio contro la rete elettrica della loro area e di parte dell’Ucraina. Ciò segnala una ripresa delle ostilità fra russi e ucraini, con rapido scambio di contromisure: dalla Crimea senza luce, al boicottaggio di Kiev del petrolio russo, alla sospensione delle forniture di gas. Uno scambio che danneggia entrambi i paesi, conseguenza e segno di una ripresa delle ostilità dopo l’armistizio firmato a Minsk.
Evento non proprio nuovo se non fosse evidentemente collegato ad altri sviluppi e ostilità in altre aree, che ha portato rapidamente a scontri militari. E anche alla resurrezione di un’antica questione territoriale che riguarda una provincia della Turchia a popolazione mista fra musulmani e cristiani, storicamente centrata sull’antica città di Antiochia, passata con la disgregazione dell’impero romano, dopo la prima guerra mondiale, alla Siria, allora sotto mandato francese. Vecchi rancori che non solo ritornano, ma si estendono, a tutto vantaggio di quello che dovrebbe essere il nemico comune contro il quale Hollande va in giro per il mondo a invocare unità, sempre a rischio a causa del moltiplicarsi degli incidenti.
I protettori occidentali della Siria, e quindi baluardo contro l’Isis, continuano però a perseguire la caduta del regime di Damasco per sostituirlo con una democrazia auspicata, ma non in vista sui campi di battaglia. La presenza russa nella grande alleanza invocata da Parigi si fa sempre più ardua in vari campi. Negli ultimi giorni il governo americano ha imposto sanzioni al presidente (russo) della Federazione mondiale degli scacchi, accusato di fare affari con il dittatore siriano Assad, mentre il campo petrolifero si segnala più surreale nei paradossi: la vendita di petrolio dall’Isis a una ditta siriana fedele al governo.
Decisioni non facili da spiegare all’estero, ma considerate evidentemente necessarie nella fase attuale della campagna elettorale americana. Obama è più che mai sotto il tiro dei repubblicani proprio per gli scarsi risultati finora ottenuti nella lotta contro l’Isis, accusato di debolezza anche all’interno del suo partito, a cominciare da colei che quasi certamente ne sarà il candidato il prossimo novembre, Hillary Clinton. E intanto l’area coinvolta nella guerra continua a estendersi: gli Emirati Arabi Uniti, sostenitori dell’Isis, hanno spedito nuovi mercenari sul fronte dello Yemen. Arruolandoli in Colombia.

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MIRKO MOLTENI, LIBERO 28/11 –
Verrà presentata oggi al primo ministro russo Dimitri Medvedev una prima serie di sanzioni alla Turchia studiate dai funzionari del Cremlino. Pur permanendo qualche spiraglio, ormai sembra quasi una guerra fredda fra Mosca e Ankara dopo l’abbattimento dell’aereo russo da parte dei turchi martedì. Se il grosso delle sanzioni deve arrivare, già ieri il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov ha annunciato che dal 1° gennaio verrà sospesa la libera circolazione senza passaporto fra i due paesi, anche perché «le possibili minacce dalla Turchia non sono inventate, ma reali». Fonti del Cremlino ritengono che questa ritorsione non avrà effetti sull’economia russa: «In un anno, 69.000 turchi hanno dichiarato di entrare nel paese per turismo e 31.000 per lavoro e affari. Un flusso così esiguo da essere ininfluente». Fra i due presidenti, Recep Erdogan e Vladimir Putin, il gelo è profondo. Il turco ha proposto al russo un colloquio a Parigi il 30 novembre, ma lo “Zar” fa notare: «Prima ci deve chiedere scusa». Erdogan ha ribattuto in giornata che «la Russia sta scherzando col fuoco». Si sente forte perché lunedì incontrerà a Bruxelles il segretario della Nato Jens Stoltenberg, sperando di essere spalleggiato dall’alleanza atlantica, finora rimasta un po’ in disparte. Anzi, ieri si è appreso da indiscrezioni che la Francia, nella riunione del consiglio Nato di martedì scorso, avrebbe apertamente sostenuto le posizioni russe. Lo statista turco ha anche minacciato la Russia perché «non deve usare i missili antiaerei S-400 contro gli aerei di Ankara», ma subito dopo per prudenza si è deciso ad annullare tutti i voli di caccia turchi al di là della frontiera siriana. I russi sono pronti a reagire se oggetto di un nuovo attacco, coi suddetti missili e anche con caccia Su-30, più moderni degli F-16 turchi e perdipiù muniti di armi che colpiscono più lontano, nonché con l’incrociatore lanciamissili Moskva, che comunque dovrà stare attento a eventuali sottomarini turchi, e coi sistemi di inganno elettronico Krasukha-4, capaci di disturbare radar e missili avversi. Per disinnescare la “bomba”, per ora il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu è riuscito a incassare da Lavrov l’accordo per un incontro fra i due nella sede neutrale di Belgrado il 3 o 4 dicembre. Dice Cavusoglu: «Penso che nei prossimi giorni la tensione scenderà». Gli attacchi aerei russi hanno distrutto finora ben 500 delle autobotti con cui l’Isis smercia il petrolio di contrabbando oltre il confine turco. E, secondo molti, ostacolano gli affari nientemeno che del figlio di Erdogan, Bilal, socio dei jihadisti. Fonti sempre più varie, dal politico turco di opposizione Gursel Tekin, all’esperto russo Stanislav Tarasov, alla Rossiskaja Gazeta, insinuano ormai da tempo che Bilal Erdogan gestisce una società di commercio, con basi logistiche a Ceyan, in Turchia, e a Beirut, in Libano, che esporterebbe il petrolio da cui il Califfato ricava 2 milioni di dollari al giorno. Per Tekin: «Finché Erdogan sarà al potere suo figlio godrà l’immunità». A inchiodare Bilal, anche foto sorridenti a fianco di presunti miliziani Isis, che in altre foto apparirebbero insieme a teste di nemici mozzate. Di più, anche la figlia del premier, Sumeyye Erdogan, sarebbe implicata, gestendo un ospedale da campo vicino al confine per curare i jihadisti feriti. Se però la bravata dell’aviazione turca contro il velivolo russo abbattuto era un ammonimento a non intralciare tali trame, rischia di diventare un boomerang per Ankara. Ieri, inoltre, a Istanbul almeno 1000 dimostranti dell’opposizione sono scesi in piazza in solidarietà ai giornalisti turchi Can Dundar ed Erdem Gul, arrestati per aver indagato sulle forniture d’armi che il governo invia ai jihadisti.

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MAURIZIO MOLINARI, LA STAMPA 25/11 – 
Il jet russo abbattuto rientra nella battaglia per il controllo di Aleppo. Si tratta della più grande città siriana che da almeno tre anni è contesa fra diversi gruppi ribelli e le forze del regime ora convinti, entrambi, di poterla dominare. I raid dei jet russi sulle province di Latakia, Idlib, Homs e Hama puntano a travolgere le posizioni ribelli a Sud di Aleppo per consentire alle truppe di Assad di avanzare, come sta avvenendo, prendendo alle spalle i ribelli.
Ma se i gruppi armati islamici, in gran parte non Isis, riescono ancora a opporre resistenza al diluvio di fuoco russo è grazie ai rifornimenti che ricevono dalla Turchia del Sud. I comandi russi vogliono tagliare queste linee di comunicazione che, lungo il confine a Nord di Aleppo, attraversano le montagne abitate dalle tribù dei turcomanni sostenute da Ankara. Mosca si è convinta che le retrovie sono il punto di forza dei ribelli perché consentono di portare feriti negli ospedali, far arrivare rifornimenti di ogni tipo e soprattutto recapitare senza interruzione armamenti e munizioni.
Poiché la battaglia urbana ad Aleppo è una guerra di posizione e attrito sono tali aiuti, in arrivo con convogli o singoli mezzi, a consentire ai ribelli di poter resistere agli assalti dal cielo dell’aviazione russa e siriana. I jet russi pattugliano così da 6000 metri di altezza questa regione per monitorare i percorsi di tali traffici al fine di ostacolare sul terreno il movimento dei turchi che, secondo fonti locali, sarebbero presenti con propri agenti ed istruttori.
È una vera e propria caccia dal cielo: gli aerei cercano i rifornimenti e poi i reparti siriani tentano di bloccarli. Si tratta di un braccio di ferro militare non dichiarato fra Mosca e Ankara nelle aree di frontiera. Da qui le frizioni fra i due eserciti. Ankara vuole ostacolare la ricognizione di intelligence russa quanto Mosca vuole bloccare i rifornimenti turchi ai ribelli. Per questo l’esercito turco aveva già abbattuto un drone russo e l’antiaerea russa in ottobre ha più volte «illuminato» i jet di Ankara, per spingerli ad allontanarsi. È un braccio di ferro nei cieli che ha in palio la conquista di Aleppo. [m.mo.]

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MARIO DEAGLIO, LA STAMPA 26/11 – 
Dimentichiamo troppo spesso che l’orso russo non è dotato soltanto di artigli militari, ma anche di artigli economici; che dispone di riserve finanziarie di grandi dimensioni che gli permettono di affrontare con relativa tranquillità l’attuale fase di prezzi bassi del petrolio; che Mosca non ha soltanto nemici nel mondo – e in particolare in Asia – come certe analisi sembrano far credere – ma anche amici, sia pur tiepidi.
È precisamente in virtù di questa forza economica, troppo spesso sottovalutata, che nella giornata di ieri Mosca ha chiuso i rubinetti del gas all’Ucraina, mentre nelle stesse ore per il gigante petrolifero russo Rosneft si sono aperti i rubinetti finanziari: oltre quindici miliardi di dollari, secondo quanto afferma il «Financial Times», sono affluiti nelle sue casse, presumibilmente come pagamento anticipato da parte dei cinesi di future forniture petrolifere e sicuramente come segnale cinese di solidarietà a una Russia probabilmente meno in difficoltà di quanto non appaia.
Sarà forse un caso, ma da settembre il cambio del rublo con l’euro mostra un lento rafforzamento: l’Europa non può a cuor leggero rinunciare al mercato russo e certamente questa scelta sarebbe difficile per la Germania e per l’Italia.
Le sanzioni contro la Russia stanno costando a ciascuno di questi due Paesi almeno lo 0,2-0,4 per cento del tasso di crescita del loro prodotto lordo, solo in parte compensate da un buon andamento delle vendite negli Stati Uniti.
L’Ucraina ha risposto al blocco delle forniture del gas russo bloccando il proprio spazio aereo ai velivoli russi di ogni tipo. Se si continuasse su questa strada, la Russia, per ritorsione potrebbe chiudere, o anche solo limitare, l’uso del proprio spazio aereo ai voli civili occidentali con conseguenze economiche potenzialmente disastrose per l’Europa: la Cina, l’India e il Giappone sarebbero improvvisamente più lontani, il grande mercato globale che – sia pure con sussulti e contraddizioni – sta facendo uscire dalla povertà una parte non piccola del mondo potrebbe rapidamente avvizzire.
Per questo si pone l’interrogativo su fino a che punto l’Europa intende sostenere la linea americana di duro sostegno all’Ucraina, alla quale il Fondo Monetario Internazionale ha concesso prestiti estremamente elevati, sostanzialmente senza condizioni, mentre la Grecia ha ottenuto da questo stesso organismo internazionale un trattamento molto meno favorevole.
La risposta russa alla Turchia potrebbe risultare estremamente dura in termini economici, senza necessariamente spostarsi sul terreno militare. Una parte importante del futuro sviluppo economico turco si gioca infatti nell’Asia ex-sovietica, ossia in Paesi in cui l’influenza politico-economica di Mosca continua a essere molto rilevante. L’espansione commerciale di Ankara potrebbe essere abbastanza facilmente bloccata da un’azione congiunta russo-cinese con un prevedibile inasprimento delle tensioni interne del Paese.
Va inoltre considerato che il programma di costruzione di nuovi oleodotti e gasdotti mediante i quali gli idrocarburi provenienti dalla Russia arriveranno nei prossimi decenni sui mercati europei è stato da poco modificato in senso favorevole alla Turchia. Potrà la Turchia davvero sbattere la porta in faccia a questo tipo di futuro, dopo che l’ingresso nell’Unione Europea le è stato di fatto negato?
Nelle ultime settimana in Occidente molti hanno guardato alla Russia soprattutto dal punto di vista militare, ossia come il Paese che ha mandato i propri soldati in Siria, ossia là dove né gli americani né gli europei vogliono «mettere i propri stivali», secondo il termine usato dal presidente Obama in un importante discorso sulla strategia militare degli Stati Uniti. Entrambi si limitano a bombardamenti, a quando sembra fino a non molto tempo fa non molto efficaci e neppure troppo intensi. In realtà l’Occidente, e l’Unione Europea in particolare devono compiere valutazioni congiunte di tipo militare per quanto riguarda l’intervento in Siria e di tipo economico per quanto riguarda gli effetti il sostegno all’Ucraina e le sanzioni alla Russia. I tempi nei quali potevamo disinteressarci di tutti questi «Paesi lontani» sono davvero finiti.
Mario Deaglio, La Stampa 26/11/2015

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ALBERTO NEGRI, IL SOLE 24 ORE 27/11 –
Hollande e Putin concordano: siamo uniti in una grande coalizione contro l’Isis. Ma forse le coalizioni sono due, a doppia velocità o bicefale e le tensioni da guerra fredda con Mosca, tra Turchia e Ucraina, non aiutano.
La guerra al Califfato è molte guerre insieme. Per la Russia, l’Iran, gli Hezbollah libanesi e il loro protetto Bashar Assad i nemici sono tutti coloro che si oppongono al regime di Damasco: anche l’Isis ma non solo. Per la coalizione a guida americana con i francesi i nemici sono l’Isis e altri gruppi jihadisti: esclusa da questa lista l’araba fenice dell’opposizione laica o moderata.
Come se non bastasse si è aperto un fronte tra la Turchia, Paese Nato, e la Russia, che hanno obiettivi opposti. I nemici di Erdogan sono Assad e i curdi, che lo sia pure il Califfato è molto meno evidente. Anzi. Gli americani si fidano così poco di lui che in cambio della base aerea di Incirlik non hanno concesso ad Ankara la “no fly zone”, il divieto di sorvolo, né zone di sicurezza in territorio siriano.
Con l’abbattimento del jet russo, Erdogan per ora ha bruciato anche le legittime preoccupazioni della Turchia ai suoi confini. Non è riuscito a buttare giù Assad con l’appoggio dei jihadisti e si trova i russi all’uscio di casa. Dalle dolci colline a cavallo tra il confine turco e quello siriano, possono partire i missili di Mosca e Putin vorrà vendicare l’uccisione del suo pilota da parte dei ribelli turcomanni, addestrati e foraggiati da Ankara in funzione anti-curda. I turcomanni sono forse il 10% della popolazione siriana, più o meno come alauiti, cristiani, curdi, drusi e altre minoranze etniche e religiose.
La Siria è una sorta di Jugoslavia araba, un mix di etnie e culti: la morte di Hafez Assad nel giugno del 2000 fu un evento epocale paragonabile a quella di Tito, alle sue esequie parteciparono leader di ogni continente. «Nella bara ci sarà veramente dentro Assad o è desolatamente vuota?», si chiese allora l’ambasciatrice italiana Laura Mirakian guardando il feretro ermeticamente chiuso. Aveva avuto il lampo dell’intuizione: con la morte di Hafez, uomo abile, segreto, onnipotente, incline alle mosse astute e beffarde, si era svuotata la Siria e cominciava il declino. Henry Kissinger, estimatore di Hafez, sostiene che prima di abbattere Bashar la priorità è distruggere l’Isis: lo scriveva un mese prima della strage di Parigi.
La coalizione per funzionare deve trovare un terreno comune, una spartizione di compiti e di territorio che potrebbe preludere alla divisione della Siria e forse dell’Iraq. La Russia e l’Iran intendono assicurare al regime l’asse Nord-Sud, Aleppo-Damasco, con la zona costiera alauita. Americani, francesi e alleati, secondo quanto fatto capire da Hollande e Obama, non metteranno gli stivali sul terreno ma con i bombardamenti e le truppe speciali puntano a eliminare la leadership jihadista a Mosul e Raqqa. Se la duplice coalizione avrà successo – e non è detto vista la resilienza degli attori in campo – avremo una Siria dell’Ovest e una dell’Est con un pezzo di Iraq sunnita. Ma oltre alla distruzione dell’Isis e all’uscita di scena di Assad, che chiedono con insistenza Obama e Hollande, ci si dovrà interrogare su cosa fare del Califfato.
Forse, come in una vecchia canzone che ritorna, avremo una Jugoslavia araba, sempre che rimanga qualche pezzo del suo disgraziato popolo che come la ex Jugoslavia di Tito cominciò ad affondare senza saperlo nella penombra di un’estate lontana.
Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 27/11/2015


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ALBERTO NEGRI, IL SOLE 24 ORE 25/11 –
È ora di gettare la maschera. Se nel Levante ognuno fa la sua guerra Al Baghdadi potrebbe persino dire la sua nella spartizione dell’Iraq e della Siria, un’ipotesi improponibile adombrata dalla Bbc ma non così remota se ciascuno vuole portarsi a casa un pezzo di Medio Oriente. Non sarebbe la prima volta: gli inglesi con Lawrence fomentarono una celebre rivolta araba per poi spartirsi la regione con i francesi. Ma questa volta né gli arabi anti-Isis né gli iraniani sono disposti a fare la fanteria dell’Occidente.
Tutto per un semplice e tragico motivo. Nel 2011, anno delle primavere arabe, la rivolta in Siria si è trasformata quasi subito in una guerra per procura che partiva da un calcolo sbagliato delle potenze sunnite e dell’Occidente: che Bashar Assad sarebbe stato sbalzato dal potere in pochi mesi con una spinta esterna.
Seguito da un altro non meno grave: che potesse restare in sella con un sostegno limitato dei suoi alleati, Russia e Iran, ora impegnati a combattere una battaglia a tutto campo. Hanno investito in Assad e non lo vogliono mollare. Sarà interessante vedere cosa si diranno domani Hollande a Putin: la Francia era d’accordo per buttarlo a mare, oltre Latakia.
Da questi errori di calcolo ne è derivato un altro: che le milizie islamiche sarebbero ricadute sotto il controllo di chi le sponsorizzava, Turchia e monarchie del Golfo. Ma i jihadisti sono confluiti nell’Isis, la cui intuizione strategica è stata quella di unire il campo di battaglia iracheno a quello siriano.
Non bastava ancora: si è pensato che il Califfato potesse essere manovrato nella guerra tra sunniti e sciiti per disegnare nuovi confini ed equilibri. E ora che i jihadisti hanno portato il terrorismo in Europa, Turchia compresa, i leader protagonisti di questo disastro geopolitico e umanitario, con implicazioni travolgenti per la nostra sicurezza, reagiscono in maniera sconcertante per difendere dei calcoli sbagliati.
La Francia è alla ricerca di alleati per una coalizione che non si trova. In realtà esisterebbe già: è quella guidata dagli Stati Uniti. Ma non ha combinato granché. Al punto che quando Putin è sceso in campo sembrava fosse il dio della guerra: eppure le esangui truppe del regime, ormai guidate da Pasdaran iraniani ed Hezbollah libanesi, non fanno passi avanti.
Tanto però è bastato a fare perdere la testa a Erdogan, punto sul vivo da Putin nel cortile di casa, e ai suoi alleati del Golfo, che comunque qualche cosa da rimproverare agli Stati Uniti e agli europei ce l’hanno. Si sentono traditi. La Siria, a maggioranza sunnita, doveva essere l’ambito premio per avere perso l’Iraq nel 2003 con l’intervento americano contro Saddam. Allora la Turchia rifiutò il passaggio delle truppe Usa, applaudita dalla stessa Russia.
Prima l’accordo sul nucleare con l’Iran, poi l’alleanza tra Mosca e Teheran e ora l’ipotesi che la Francia e gli europei concordino con Putin e gli ayatollah la strategia anti-Califfato: è troppo da sopportare per un fronte sunnita passato da una sconfitta all’altra. E che non ha mai perdonato agli Stati Uniti di avere consegnato l’Iraq all’influenza dell’Iran.
Gli americani sono così coscienti dell’errore di Bush junior che nel giugno dell’anno scorso hanno guardato senza fare una piega il Califfato conquistare Mosul, città di due milioni di abitanti, e arrivare a una trentina di chilometri da Baghdad. Come dire ai sunniti: accomodatevi pure e vendicatevi.
Si chiama politica Usa del “doppio contenimento” e ha già portato a diversi disastri: negli anni’80 alla guerra Iran-Iraq (un milione di morti) e a uno degli equivoci storici più sconcertanti, quando nell’estate del 1990 l’ambasciatrice Usa a Baghdad, April Glaspie, incontrando Saddam diede un implicito via libera all’occupazione del Kuwait. “Non potevamo sapere che gli iracheni si prendessero “tutto” il Kuwait”, fu la sua giustificazione. Sostituite Kuwait con Siria e avete l’equazione con il Califfato.
Per evitare nuovi equivoci l’Europa dovrebbe far sentire la sua flebile voce per combattere l’Isis a una Turchia che, tenuta fuori dalla Ue, ama i ricatti, a una Russia sempre più vorace, a un mondo sunnita cui è legata da affari miliardari, a un’America che ci chiede di pagare i conti della Nato. Ma forse è sperare troppo che si getti la maschera: vorremmo che fossero gli altri a combattere per i nostri valori e interessi.
Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 25/11/2015

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ANTONELLA SCOTT, IL SOLE 24 ORE 26/11 – 
La Russia non si metterà in guerra contro la Turchia, come ha detto ieri il ministro degli Esteri Serghej Lavrov. E probabilmente, sul fronte economico, non utilizzerà neppure l’arma più potente che Vladimir Putin ha in mano, il rubinetto del gas. Il giorno dopo l’abbattimento del caccia russo in Siria, sia Mosca che Ankara calibrano le proprie reazioni, accettando l’invito a evitare un’escalation. Ma i russi non lasceranno correre: «Riconsidereremo seriamente le relazioni», dice Lavrov. Proprio sul fronte dei legami commerciali, nelle dogane e nelle agenzie viaggi, la ritorsione russa ha già preso forma.

E l’impatto si farà sentire. «Un colpo da 44 miliardi di dollari», titolava ieri il portale russo di informazione economica Rbk: udar, il «colpo», è la pugnalata turca alla schiena citata martedì da Putin mentre, furibondo, commentava l’abbattimento del jet. Quei 44 miliardi sono un modo per quantificare la posta in gioco nel confronto tra russi e turchi: la Russia è il secondo partner commerciale di Ankara, un interscambio pari a 31 miliardi di dollari nel 2014, e a 18,1 miliardi per i primi nove mesi del 2015. Considerando anche il settore dei servizi, la cifra sale appunto a 44 miliardi.
Due mesi fa, le ambizioni correvano alte: in visita a Mosca il 23 settembre - pochi giorni prima dell’avvio della campagna militare russa in Siria - il presidente turco Recep Tayyep Erdogan disse a Putin che entro il 2023 il commercio bilaterale avrebbe dovuto raggiungere i 100 miliardi. Approfittando anche del fatto che le sanzioni americane ed europee contro la Russia, a cui la Turchia non ha aderito, le lasciavano spazi in cui inserirsi.
Ambizioni oggi vittime della guerra in Siria. Attribuendo alla Turchia «un atto criminale», il primo ministro Dmitrij Medvedev ha avvertito ieri che «le dirette conseguenze potrebbero implicare da parte nostra il rifiuto a partecipare a tutta una serie di progetti congiunti, mentre le imprese turche perderanno posizioni sul mercato russo».
La ritorsione è già scattata. Ubbidendo alla raccomandazione dell’Ente federale per il turismo, tutti i più importanti tour operator russi hanno bloccato ieri le vendite di pacchetti vacanze in Turchia, tra le mete favorite dei russi: più di 4 milioni l’avevano scelta nel 2014. E intanto, l’Associazione russa dei produttori tessili ha indirizzato una lettera al governo chiedendo il boicottaggio degli acquisti di abiti e beni di consumo dalla Turchia. L’import dalla Turchia in questi settori, scrive l’Associazione, è pari a sette miliardi di dollari.
La ritorsione ha un effetto valanga. Al porto di Novorossiisk, sul mar Nero, le dogane russe ora bloccano i carichi in arrivo dalla Turchia, senza dare spiegazioni. Mentre l’immancabile Rosselkhoznadzor, l’ente che sorveglia quanto viene importato in Russia dal punto di vista sanitario, d’improvviso ieri ha rinvenuto la presenza di pericolosi batteri nel pollame di un’impresa turca, che si è vista bloccare le vendite. Da parte sua, la Turchia è un grande mercato per il grano russo.
Il grande rischio, ha avvertito ieri Putin, è che l’”incidente” dell’aereo si ripeta. Ma per ora sembra difficile che il gelo piombato tra Mosca e Ankara possa sconvolgere il fronte dell’energia, in cui gli interessi reciproci sono strettamente intrecciati. Mosca è il principale fornitore di gas della Turchia, che importa dai russi il 60% del fabbisogno annuo. E la Turchia, dopo la Germania, è il secondo cliente di Mosca. Su 50 miliardi di metri cubi (e una spesa annua di 50 miliardi di dollari per l’import turco di energia) da Gazprom ne arrivano 30. Senza contare il passaggio al nucleare, che Ankara ha affidato in buona parte ai russi: nel 2013 la Turchia ha commissionato alla russa Rosatom la sua prima centrale, quattro reattori e un progetto da 20 miliardi, il più grande progetto comune. «Perdere la Turchia - disse Erdogan lo scorso ottobre - sarebbe una seria perdita per la Russia». E viceversa.
Anche prima dell’abbattimento del jet, tuttavia, i problemi e le tensioni bilaterali non mancavano certo: come le eterne trattative sul prezzo del gas, o sul progetto che avrebbe dovuto prendere il posto di South Stream, un gasdotto che voleva trasformare la Turchia in un hub per l’Europa. Sul destino di Turkish Stream già gravavano dubbi di carattere economico e finanziario. Dubbi che ora sembrano diventati certezze.
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Antonella Scott

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ALBERTO NEGRI, IL SOLE 24 ORE 26/11 –
Le relazioni tra Mosca e Ankara non sono mai state semplici. Diffidenza e competizione hanno sempre caratterizzato i rapporti fra i due “grandi Imperi”, soprattutto quando c’è un terzo incomodo. I tre Imperi, ottomano, zarista e persiano, non sono mai stati buoni vicini. Nei secoli nei momenti migliori si sono sopportati, in quelli peggiori la Russia prima e l’Urss poi hanno tentato di prendersi qualche pezzo di Turchia o di Iran nella storica marcia di Mosca verso i mari caldi e il Mediterraneo.
Quando poi due di loro si alleano contro l’altro, il terzo avverte un pericolo mortale. Ed è quanto è avvenuto con l’intesa tra la Russia e l’Iran sciita per sostenere Bashar Assad contro il fronte sunnita: non è forse un caso che l’abbattimento del caccia russo sia avvenuto il giorno dopo lo storico incontro a Teheran tra Vladimir Putin e la Guida Suprema Alì Khamenei.
Iran e Russia collaboravano da tempo per tenere in sella il regime di Damasco ma questo incontro deve avere fatto venire un travaso di bile al presidente turco Tayyip Erdogan che considera il confine siriano come il cortile di casa sua e se stesso come l’unico vero leader del mondo musulmano nel Levante. Non solo. Erdogan ha sempre avuto più affinità con Putin che con i leader della repubblica islamica, guardati con sospetto come concorrenti tra le masse islamiche. Lui, grande cliente del gas di Mosca, si sente tradito da Putin, come nel 2011 da Assad che a suo dire non ne seguì i consigli: il problema di questi leader è che hanno un ego smisurato e spesso non commisurato alle loro reali potenzialità. Ed è così che finiscono per coinvolgere amici e alleati nei loro disastri.
L’aspetto singolare è che Putin ed Erdogan sono due iper-nazionalisti, nostalgici dei rispettivi ex imperi, con un’opinione pubblica che aspetta da loro reazioni forti e decise. Al contrario gli iraniani si attendono che la loro leadership, dopo decenni di emarginazione, riaccrediti il Paese nella comunità internazionale. È paradossale ma il mondo visto da Teheran, nonostante sia una repubblica islamica, è più sfaccettato di come viene guardato dal Cremlino o dal megalomane palazzo di 1000 stanze che si è fatto costruire Erdogan.
Alberto Negri

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SISSI BELLOMO, IL SOLE 24 ORE 25/11 – 
Un ponte che collega Oriente e Occidente, Islam e cristianità, ma anche fornitori e consumatori di energia. La Turchia è uno snodo strategico cruciale per i trasporti di petrolio e - in misura crescente - per quelli di gas. È anche per questo che le quotazioni del greggio, finora insensibili agli atti di terrorismo e persino all’escalation militare in Medio Oriente, hanno reagito in modo così brusco all’abbattimento del caccia russo da parte dell’aviazione di Ankara: sia il Brent che il Wti hanno guadagnato oltre il 3%, un balzo davvero sorprendente di questi tempi.
Ogni giorno quasi 4 milioni di barili di greggio e prodotti raffinati raggiungono i mercati occidentali (e soprattutto l’Europa) passando per la Turchia. E in un prossimo futuro, grazie alla sua posizione geografica, il Paese diventerà anche un territorio di transito cruciale per il gas: in Turchia passerà una buona parte del Corridoio sud, il sistema di gasdotti che comprende anche la Tap, su cui la Ue ha scommesso per una parziale emancipazione dal gas russo. Secondo i piani di Gazprom - ufficialmente non ancora abbandonati - il Paese dovrebbe inoltre ospitare il Turkish Stream, progetto di pipeline che ha sostituito il South Stream, destinato a trasportare gas russo bypassando l’Ucraina. Il piano tuttavia, già rinviato da Gazprom, rischia di naufragare definitivamente ora che le relazioni tra Russia e Turchia sono precipitate.
L’intervento russo nel conflitto in Siria, fortemente osteggiato da Ankara, aveva già provocato ripercussioni sui progetti energetici condivisi dai due Paesi. «Siamo tra i primi consumatori di gas russo e se necessario possiamo acquistare gas da molti altri fornitori», aveva minacciato in ottobre il presidente turco Tayyip Erdogan, proprio in relazione a presunte violazioni dello spazio aereo. Una minaccia concreta, perché?le Turchia è superata solo dalla Germania nell’import di gas da Mosca e i suoi consumi, a differenza di quelli tedeschi, sono in forte crescita:?negli ultimi dieci anni sono più che raddoppiati, superando 50 miliardi di metri cubi all’anno, di cui quasi il 60% acquistati da Gazprom.
Le ritorsioni economiche di Ankara potrebbero estendersi anche all’energia nucleare: nel 2013 è stato firmato un accordo con la russa Rosatom per la cotruzione e gestione di una centrale atomica a Akkuyu , sulla costa mediterranea. Un investimento da almeno 20 miliardi di dollari che tuttora resta sulla carta e che potrebbe essere affidato ad altri, ha suggerito Erdogan.
Per il Turkish Stream le schermaglie sono cominciate molto prima. Annunciato a sorpresa da Putin nel dicembre 2014, doveva essere costruito a partire da giugno di quest’anno. Invece Ankara non ha mai neppure approvato gli accordi intergovernativi necessari per l’opera e l’italiana Saipem, che aveva già iniziato la posa dei tubi nella tratta sottomarina del gasdotto, si è vista rescindere da un giorno all’altro il contratto con Gazprom. I turchi stavano provando a tirare sul prezzo delle forniture di gas dalla Russia, ma già prima della questione siriana le trattative si erano deteriorate al punto da spingere Botas a fare ricorso all’arbitrato internazionale.
Gazprom da parte sua ha decretato il rinvio sine die del Turkish Stream e accelerato invece il progetto del raddoppio del Nord Stream, altro gasdotto che invece approda in Germania. Scavalcando l’Ucraina, dunque, con cui Mosca tanto per cambiare è ai ferri corti (ieri ha minacciato di interrompere le forniture a Kiev entro due giorni) e anche la Turchia.
Le ritorsioni sono più difficili in campo petrolifero, anche se dalla Turchia transita circa un terzo del petrolio esportato dalla Russia. La posizione geografica del Paese e i numerosi importanti oleodotti che lo percorrono rendono tuttavia molto elevato il livello di rischio, se la crisi dovesse precipitare. Dal Bosforo e dai Dardanelli in particolare transitano ogni giorno forniture per circa 3 milioni di barili (di cui il 70%?greggio), mentre dal porto turco di Ceyhan, sul Mediterraneo, punto di arrivo di importanti oleodotti, nel 2014 secondo l’Energy Information Administration hanno preso il largo 650mila bg di petrolio proveniente dal Caspio e 130mila bg di greggio iracheno. A Ceyhan arrivano inoltre quantità crescenti di forniture dal Kurdistan iracheno:?lo scorso maggio si è arrivati a 550mila bg.
Sissi Bellomo

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VINCENZO NIGRO, LA REPUBBLICA 28/11 –
Un caffè-libreria nel quartiere Fatih di Istanbul, anzi nella zona di Carsamba, una delle aree più conservatrici di questo che era il distretto bizantino conquistato dal califfo ottomano Fatih. Anche questa zona è popolata dai migliori integralisti sunniti della città: in alto sul muro ci sono i televisori accesi, di lato gli scaffali con i libri in vendita. Ci sono biografie di Osama Bin Laden, di Zarqawi, il capo di Al Qaeda in Iraq. Biografie, anzi agiografie, non libri in cui si racconta della loro uccisione: sembra una di quelle cartolerie con i calendari di Mussolini e la vita di Hitler a puntate.
Le tv ripetono a rullo continuo le ultime sparate di Erdogan contro la Russia di Putin, alternandole alle rassicurazioni, agli inviti al dialogo e all’incontro dopo che Ankara martedì scorso ha abbattuto un caccia russo al confine con la Siria. Russia e Turchia sono in guerra, ma non vogliono combattersi direttamente.
Il presidente turco con politica, militari e servizi segreti è un giocatore d’azzardo. Sa giocare sporco, benissimo. Come sa farlo da sempre Vladimir Putin. Uno è maestro dell’altro. «Sono pronto a incontrare il presidente Putin, gli ho telefonato dopo l’incidente ma non sono riuscito a parlargli», fa sapere conciliante Erdogan. Per tornare poi immediatamente ad alzare la fiamma: «La Russia non giochi col fuoco con noi! La Turchia sa difendere i suoi confini». Mosca replica con il ministro degli esteri Lavrov: la Russia ha deciso di reintrodurre dal primo gennaio i visti per i cittadini turchi.
Tutto questo per nascondere il fatto che, dopo aver sparato alto con l’abbattimento del Sukhoi 24, ora Istanbul non vuole allargare l’incendio, tanto che ha ordinato ai suoi aerei di non volare più sulla Siria: “per errore” un caccia russo adesso potrebbe abbatterne uno turco, la partita tornerebbe in parità. Il Cremlino conferma che Putin non risponde alle telefonate di Erdogan, i 2 uomini non si incontreranno lunedì al vertice internazionale di Parigi, ma forse potrebbero vedersi i ministri degli Esteri il 3 dicembre a Belgrado. Mosca intanto però in Siria continua a bombardare i miliziani che la Turchia ha armato.
Armato e sostenuto, perché di questo non c’è nessun dubbio. Come non c’è dubbio che fra i terroristi appoggiati ci sono proprio quelli dell’Is di al Baghdadi. L’altro ieri, dopo una sentenza della magistratura teleguidata dal governo, sono finiti in carcere il direttore del quotidiano Cumhuriyet Can Dundar e il suo collega Erdem Gul. Sono in prigione per accuse di “terrorismo”: avevano pubblicato le foto dei carichi di armi che il Mit, i servizi segreti turchi, per mesi hanno trasferito in Siria all’Is. Le foto sono del gennaio 2014: un giudice aveva fatto arrestare da un gruppo di poliziotti di campagna gli agenti segreti del Mit che scortavano i carichi di armi provenienti dall’aeroporto di Istanbul. Adesso il giudice è stato trasferito, i poliziotti arrestati e i giornalisti pure.
Ma non sono solo le armi e gli esplosivi forniti dal governo Erdogan all’Is perché i miliziani sunniti combattano fino in fondo il nemico alawita Assad. Sono i militanti dell’Is curati negli ospedali del Sud della Turchia, il petrolio che al prezzo di 1 milione di dollari al giorno l’Is per mesi ha venduto a trafficanti turchi perfettamente coperti dal regime di Erdogan.
«L’Is è uno degli strumenti di questa guerra sporca di Erdogan», dice un giornalista di Cumhuriyet che chiede di non essere citato, «una guerra che parte da ambizioni geo-politiche come quella di unire il mondo sunnita ed evitare che gli sciiti si colleghino da Iraq/Iran al Libano di Hezbollah passando proprio per la Siria. Una guerra economica, perché gli affaristi di Erdogan sono pronti a ricostruire la Siria con le loro imprese, pronti a fare commerci dalla Siria fino nel Golfo come stanno facendo già oggi con la guerra ».
Torniamo al petrolio: in maggio le forze speciali americane hanno fatto un blitz nella casa del “ministro del petrolio” dell’Is in Siria. Abu Sayyaf è stato ucciso, ma le casse di documenti e le pennette elettroniche USB del terrorista sono in mano alla Cia, e provano i dettagli dei traffici con la Turchia.
La situazione, l’infame intesa Erdogan/ Is sembrava potesse cambiare col sequestro dei diplomatici del consolato turco di Mosul. Il consolato fu espugnato dai miliziani dell’ISIS che conquistarono la città nel giugno del 2014. Ankara, il solito Mit, trattò, negoziò, pagò milioni di dollari e liberò miliziani dell’Is che erano in carcere in Turchia. Ma paradossalmente proprio in quella crisi i capi dei servizi segreti turchi rinsaldarono un rapporto diabolico e perverso con i tagliatori di teste che avevano sequestrato i loro 46 colleghi del consolato. I miliziani dell’Is erano “compagni sunniti che sbagliano”, pericolosi e sanguinari, ma sempre utili per combattere Assad. Ma soprattutto funzionali a chissà quale altro tassello della “strategia della tensione” di Recep Tayyip Erdogan.

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NICOLA LOMBARDOZZI, LA REPUBBLICA 27/11 – 
I giovanotti che da due giorni si danno il cambio a decine lungo i marciapiedi innevati di Rostovskij pereulok per lanciare insulti e qualche pietra contro l’ambasciata di Turchia, sono solo l’avanguardia umorale della vendetta del Cremlino contro la «pugnalata alle spalle di Ankara ». Molto più fredda e cattiva, studiata per due giorni da uno speciale gruppo di esperti, è invece la rappresaglia economica che rischia di fare molto male alle casse del regime di Erdogan, mandando all’aria una cooperazione commerciale che solo l’anno scorso ammontava a 42 miliardi di euro.
Vendetta approvata dalla gran parte dei russi, ancora choccati dal racconto del pilota abbattuto e sopravvissuto all’inseguimento dei terroristi appoggiati dall’esercito turco. Messaggi di festa e di «giustizia è fatta» hanno accolto sui siti la notizia dell’arresto, l’altro ieri mattina di 39 imprenditori agricoli turchi, in visita alla fiera di Krasnodar. Condannati per generiche “irregolarità” nei visti a dieci giorni di carcere e cento euro di multa, saranno presto espulsi dal Paese. Sono solo le prime vittime della punizione “scientifica” ordinata da Putin e che si preannuncia spietata. A cominciare dal turismo, già di fatto chiuso d’ufficio con la sospensione di tutti i contratti futuri e l’invito ai russi in vacanza in Turchia a rientrare al più presto «per motivi di sicurezza». Un disastro per i turchi, per cui i quasi cinque milioni di turisti russi del 2015 rappresetavano il 46 per cento del loro mercato alberghiero. Ma il piatto forte sta nel settore energetico con la sospensione di tutte le joint venture stipulate tra colossi russi e turchi. Bloccata dunque la costruzione da parte della russa Rosatom della centrale nucleare di Akkuiu, e congelato l’inizio dei lavori per il Turkish Stream, l’oleodotto che avrebbe dovuto collegare la Turchia e l’Europa meridionale al petrolio russo.
E un’altra tegola, meno vistosa ma ugualmente pesante, si è abbattuta ieri sera sull’imprenditoria di Ankara: la sospensione dei contratti nel mercato dell’edilizia. Da an- ni i costruttori turchi hanno conquistato la fetta di mercato più ghiotta. Hanno lasciato ai russi la realizzazione degli edifici più dozzinali, agli italiani il lusso, e hanno invece monopolizzato il segmento ricchissimo delle case di fascia media, centri commerciali, uffici, allestimenti per fiere e mostre. Gran parte della nuova Mosca, della periferia di San Pietroburgo, della ricostruita capitale cecena Grozny sono opera di società e maestranze turche adesso rimandate a casa. E alle decisioni ufficiali si affiancano quelle pretestuose tipiche delle crisi internazionali. Il governo russo ha scoperto ieri che il pollame e la carne che arrivano dalla Turchia «sono a rischio per la salute», con imminenti proibizioni. I doganieri hanno cominciato a trovare irregolarità mai viste prime nei carichi in arrivo da Ankara, respingendo tir e voli cargo, e costringendo a lunghe attese alla frontiera i prodotti deteriorabili.
E dire che appena due mesi fa tutto sembrava marciare in direzione opposta. Un entusiasta Erdogan, ospite d’onore all’inaugurazione della grande moschea di Mosca, aveva detto a Putin di voler raddoppiare gli scambi tra i due paesi. I giornali di Ankara salutavano come una manna le sanzioni occidentali cui la Turchia aveva deciso di non aderire, conquistando spazi di mercato impensabili. La settimana scorsa l’accordo in vigore dal 2009 per un corridoio doganale agevolato alle due frontiere sembrava sul punto di essere perfezionato con una zona franca. Così come pareva vicina una moltipicazione delle vendite di armi russe alla Turchia, tra cui, ironia della sorte, anche missili anti aerei. Vendite che da ieri sono sospese.
E i contratti a rischio riguardano anche le esportazioni russe: petrolio, ferro, minerali rari e perfino elettrodomestici. La Turchia rappresentava un cliente ideale, dicono molti produttori russi: «Abbastanza ricca per poterseli permettere, abbastanza arretrata per accettarne la bassa qualità». La vendetta avrà dunque contraccolpi interni, che però il Cremlino ha messo nel conto. «Troveremo altri mercati, ma la ritorsioni contro Ankara saranno sempre più serie».

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NICOLA LOMBARDOZZI, LA REPUBBLICA 25/11 – 
C’è voluta una giornata intera per frenare, almeno in parte, la furia di Vladimir Putin e dei suoi. E per arrivare a una precisazione non richiesta affidata a tarda sera al portavoce del Cremlino: «Non sono previste, al momento, rappresaglie di tipo militare nei confronti della Turchia». Ma questa possibilità è stata invece valutata e accarezzata più volte nel corso di tempestose riunioni al vertice. Pur con la consapevolezza che una ritorsione nei confronti di Ankara avrebbe portato a «tragiche conseguenze» come annunciato in tv dallo stesso Putin. Del resto lo schiaffo subìto rimane pesante da sopportare e soprattutto da spiegare a un’opinione pubblica ormai allenata da mesi a sentire il proprio Paese accerchiato. A peggiorare il clima misto di paura e di indignazione, ci si mettevano anche le immagini circolate su Internet e su molte tv, e poi censurate «in attesa di verifiche ». Si vedeva un orribile tiro a bersaglio sui due piloti russi che scendevano con i paracadute. Poi una folla che urlava “Allah u Akbar” e che infieriva sul cadavere di un giovane in divisa da aviatore. E infine un gruppo di jihadisti con tanto di armi made in Usa che distruggevano un elicottero russo arrivato in soccorso dei piloti abbattuti. Quanto bastava per scatenare la rabbia di lettori e blogger, e per spiegare quel gruppo di giovani che da ieri mattina picchetta l’ambasciata turca di Mosca con cartelli del tipo: «Il giusto castigo sta per arrivare».
Il ministero della Difesa russo ha annuciato che l’incrociatore Moskva avanzerà verso Latakia per rafforzare la difesa contraerea. Ma con il passare delle ore, e dopo molte consultazioni con i governi occidentali, Putin ha deciso di fermarsi ed aspettare. Si accontenta di aver messo in chiaro le cose sui rapporti con la Turchia e denunciato ancora una volta pubblicamente quello che in Russia tutti danno per scontato: «Ankara protegge molti terroristi». In particolare quelle formazioni integraliste composte da turcomanni di Siria e da molti volontari del Caucaso russo che combattono a fianco del Califfato e che fino a qualche tempo fa sono state protette e armate dall’Occidente in funzione anti Assad.
E’ il nodo fondamentale della questione che sta paralizzando ogni tentativo di formare una coalizione compatta contro l’Is. E che vede nei turchi l’ala più estrema e meno elastica dello schieramento Nato. Lungo il confine turco gli aerei russi danno sin dal primo giorno la caccia a formazioni di ribelli che si tengono il più vicino possibile al territorio turco per sfuggire ai raid. Un confine “poroso”, dice Putin. «Completamente aperto e ospitale per i terroristi», dicono molto più chiaramente i militari russi. Gli aerei di Mosca inseguono i jahidisti percorrendo una linea sottilissima e rischiando ogni giorno possibili sconfinamenti.
E la fiscalità del governo turco sui presunti sconfinamenti, viene considerata dal Cremlino un’altra prova della malafede di Ankara. Già tre volte dall’inizio dei bombardamenti sono fioccate proteste e minacce nei confronti dell’aviazione russa. Lo stesso sconfinamento di ieri sarebbe stato «di pochi secondi e di meno di un chilometro» secondo fonti del Pentagono ampiamente riportate dai media di Mosca. «Comunque sia andata - dice un alto ufficiale del ministero della Difesa – seppure un’ala del nostro Sukhoj avesse toccato i cieli turchi, la reazione sarebbe esagerata e gravemente sospetta».
Ma perchè Ankara dovrebbe spingersi a gesti così eclatanti e pericolosi? Secondo Mosca i motivi sarebbero tanti, dal doppio gioco di Erdogan con gli islamici estremisti, denunciato da Putin all’ultimo G20, fino alla insofferenza per il ruolo dominante assunto dall’aviazione russa in tutta l’area. Adesso il Cremlino spera in un intervento occidentale e americano in particolare. Le prime dichiarazioni di Obama («Mosca cambia i suoi obiettivi in Siria») non hanno fatto un bell’effetto ma in questi casi più che le frasi ufficiali contano i contatti dietro le quinte che procedono senza soste. Intanto le più grandi compagnie turistiche russe hanno chiuso i rapporti con la Turchia minacciando perdite clamorose per le strutture alberghiere di Ankara. I deputati della Duma si esercitano nel suggerire ritorsioni di ogni tipo dalle sanzioni economiche, agli attacchi aerei contro gli autori della «pugnalata alle spalle». Puro folklore in attesa di decisioni a livello più alto che appaiono molto difficili. Gennadj Gudkov, deputato di Russia Giusta, ex colonnello del Kgb, descrive la situazione con un termine degli scacchi: «Zugzwang, quando il giocatore a cui tocca muovere è destinato comunque a una grande perdita o addirittura alla sconfitta».

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BERNARDO VALLI, LA REPUBBLICA 25/11 –
Il giallo avvenuto nello spazio aereo, martedi mattina, al di qua o al di là del confine tra Siria e Turchia, ha già serie conseguenze internazionali. Anzitutto mette in periglio la coalizione contro i terroristi dello Stato islamico. Stava per allargarsi, e diventare più potente ed efficace grazie all’adesione della Russia, e adesso tutto appare compromesso. Vladimir Putin era sul punto di unirsi all’alleanza guidata dagli Stati Uniti, spinto dalla strage di Parigi e dal suo aereo esploso con più di duecento passeggeri sul Sinai. In queste ore si dice «pugnalato alle spalle».
Il presidente russo non era un avversario aperto, ma un concorrente dichiarato della grande armada aerea più chiassosa che efficace creata da Washington. L’F-16 turco che ha abbattuto con un missile il Sukhoi Su-24 non solo ha rimesso in discussione l’allargamento dell’alleanza contro il terrorismo salasfista, ma può pregiudicare la distensione che si profilava tra l’Occidente e la Russia dopo la lunga “guerra fredda” cominciata con gli avvenimenti d’Ucraina e prolungatasi fino all’ottobre scorso con l’intervento a sorpresa di un robusto corpo di spedizione russo (aereo, navale e di terra) in Siria. Erdogan conta sull’Alleanza atlantica, di cui il suo paese è un importante membro veterano. Per Putin quell’affiliazione della Turchia appesantisce invece la situazione. E certo non l’ha rassicurato la dichiarazione di Barack Obama che ha riconosciuto nelle ultime ore «il diritto di difendersi della Turchia». Non è stato un gesto distensivo neppure la decisione del presidente russo di far salpare per il Medio Oriente l’incrociatore Moskwa. Più incline a raffreddare i toni è stata la Nato, riunita d’urgenza a Bruxelles dietro richiesta di Ankara. È stata ecumenica: ha esortato i due paesi a ritrovare un’intesa.
Si tratta di un giallo perché Ankara sostiene che il Sukhoi Su-24 sia stato abbattuto dopo ben dieci avvertimenti perché aveva sconfinato nello spazio aereo turco; e perché Mosca sostiene al contrario che l’F-16 ha colpito l’aereo russo quando si trovava nello spazio siriano. Gli apparecchi russi violano spesso i confini. Capita nei Paesi baltici quando sono diretti a Kaliningrad, l’enclave dove sono acquartierate numerose loro unità militari. Durante il percorso provocano la Lituania sorvolando per brevi tratti, senza autorizzazione, il suo territorio. Sarebbe accaduto di recente anche al confine siriano, da quando Putin ha deciso di intervenire in Medio Oriente, ma il passaggio dalla provocazione senza danni al lancio di un missile che disintegra l’aereo indisciplinato equivale a un atto di guerra.
Nel tentativo di ristabilire le responsabilità, come in un giallo, si cerca il movente. Il pilota turco dell’F-16 non ha sparato il missile di propria iniziativa. Per ammissione delle stesse autorità di Ankara gli è stato ordinato, dopo le dieci intimazioni lanciate in cinque minuti, di abbattere l’apparecchio indisciplinato. Nel frattempo senz’altro identificato come russo. Anche se, nonostante Mosca lo neghi, il Sukhoi Su-24 fosse sconfinato di poco, e in quel momento si trovasse nello spazio turco, non trattandosi di un nemico dichiarato, ma distratto, al massimo provocatore, era forse ragionevole non ricorrere a misure drastiche.
Il movente era tuttavia piuttosto politico. Erdogan non gradisce l’allargamento della coalizione contro lo Stato islamico. Non vuole che ne facciano parte la Russia e l’Iran, suo partner del momento. Gli alleati reali o virtuali non hanno nel conflitto mediorientale gli stessi nemici. La Russia appoggia Bashar Al Assad, il rais di Damasco, che la Turchia considera invece un nemico da abbattere o da destituire. La Russia accusa la Turchia di favorire sottobanco lo Stato islamico che fa passare il petrolio acquistato di contrabbando in Iraq. Russia e Turchia non solo non hanno gli stessi nemici. Non hanno neppure gli stessi alleati.
Gli americani usano i curdi come fanteria. Nessun paese occidentale o arabo vuole impiegare soldati a terra. Le loro aviazioni si servono in particolare dei curdi, i quali stanno acquistando prestigio e indirettamente l’appoggio, che col tempo potrebbe diventare un diritto, per arrivare a creare un prorio Stato nella futura Siria. La quale si annuncia come una federazione. Questa prospettiva non va certo a genio al governo turco che combatte i curdi in patria e nei paesi vicini, temendo che possano affermarsi.
I turchi accusano i russi di dirigere i loro bombardamenti soprattutto sui ribelli impegnati contro il regime di Assad e aiutati da Ankara. In particolare le comunità turcomanne. Uno dei piloti del Sukhoi Su-24 abbattuto sarebbe riuscito a catapultarsi fuori e col paracadute sarebbe finito in una delle zone che aveva appena bombardato. Sarebbe cosi caduto nelle mani dei ribelli proturchi. È quel che ha affermato Ahmed Berri, uno dei capi dell’Esercito libero siriano. Ma sulla sorte dei piloti del Sukhoi si hanno finora notizie divergenti. Non si conosce con esattezza la loro sorte. Turchi e russi, destinati a partecipare alla stessa alleanza, hanno in realtà molti motivi per affrontarsi. I primi appartengono all’area sunnita, mentre i secondi, i russi, si sono scoperti amici dell’Iran sciita, che ha come alleati Bashar Al Assad e gli Hezbollah libanesi. Il Sukhoi Su-24 abbattuto al di qua o al di là del confine tra Siria e Turchia è servito a frenare un’alleanza che infastidiva Ankara. Ma se questo era il movente le conseguenze vanno al di là del conflitto mediorientale. In questi giorni in Crimea, in seguito a un probabile sabotaggio, è venuta a mancare l’energia. Per Vladimir Putin, che ha annesso la provincia con la forza, è stato un insulto. Che ha peggiorato i rapporti con gli occidentali anche su quel fronte. Il quale stava stabilizzandosi. Ed è naturale che i sospetti ricadano sugli ucraini, i quali come i turchi non vogliono che Vladimir Putin raggiunga un’intesa con Barack Obama, il loro protettore. La tragedia mediorientale non trattiene i suoi veleni. Atteso oggi a Mosca per consolidare l’alleanza tra l’Occidente e la Russia, François Hollande dovrà faticare per tentare di ricurcirla.