Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 28 Sabato calendario

Caro direttore, non sono le periferie delle città italiane il solo posto dove guardare quando si riflette sui luoghi germinali del terrorismo nostrano

Caro direttore, non sono le periferie delle città italiane il solo posto dove guardare quando si riflette sui luoghi germinali del terrorismo nostrano. Non solo perché i nostri Corviale, le nostre Vele, i nostri Zen o Gratosoglio — nati come roccaforti isolate nel pulviscolo delle villette suburbane — non hanno nulla a che vedere con il gigantismo e la compattezza geografica delle banlieue di Parigi o di Marsiglia, così estese da occupare l’intera cintura esterna della metropoli. E neppure perché le nostre aree di degrado e periferia sociale, diversamente da Parigi, da Londra e da Bruxelles, sono un arcipelago e non una “ciambella”: da noi arrivano ad annidarsi perfino nel cuore antico di città come Genova, Napoli, Milano. La verità è che degrado degli spazi, povertà, marginalità sociale, non sono il denominatore comune delle folli traiettorie dei giovani terroristi europei. Che vengono anche da quartieri piccolo borghesi, dove si alternano i condomini e le case unifamiliari; da famiglie lontane dalla povertà assoluta, da genitori attivi e scuole efficienti. Se dobbiamo trovare un gradiente spaziale del terrorismo, questo non sta nelle periferie, ma nelle zone dove si concentrano popolazioni con una cultura, una religione, un’origine geografica omogenea. Dove si addensano famiglie con la stessa origine geografica; le stesse tradizioni, aspettative e frustrazioni. La virata nel terrorismo non è la reazione folle ad una sofferta marginalità sociale, ma al contrario il rifugio entro una identità fortissima e semplificata, da parte di giovani — a volte anche benestanti — orfani di un’identità chiara. Giovani di seconda o terza generazione che da un lato non si sentono più di incarnare le tradizioni familiari e dall’altro non si sentono rappresentati dal cliché culturale del luogo che li ospita. Il Califfato — surrogato di appartenenza insieme mediatico e reale, transnazionale e geolocalizzato — è spesso la deriva di chi ha perso la sfida di un’identità più ricca perché nata dal confronto e dal conflitto, in uno spazio fisico condiviso, tra culture, tradizioni, appartenenze diverse. Nelle aree urbane dove manca il confronto con l’altro, dove si abita solo tra simili, si rompe l’equilibrio tra il capitale sociale “di legame” (che aiuta a costruire un’identità di gruppo) e il capitale sociale “ponte” (che aiuta a scambiare con altri gruppi risorse culturali) di cui ci parla Robert Putnam. È qui, nei quartieri dell’Anticittà, che si concentrano tutte le caratteristiche anticomunitarie e antiurbane: l’assenza di varietà sociale, la diluzione dell’intensità delle relazioni e anche dei conflitti con altre identità, la povertà di scambi tra culture. Qui vincono i vincoli di gruppo, di clan; le reti del sangue e della lingua. Qui nascono le gang di quartiere o — come reazione — la fuga solitaria nella dimensione disperata del terrorismo: antagonista, ma (ci piaccia o no) capace di offrire un’uscita ad altissimo tasso di innovazione alla prigione delle tradizioni familiari e di gruppo. Ma queste zone, oggi, nel caleidoscopio della città contemporanea, stanno dappertutto. Non cerchiamole solo in “periferia”, nei casermoni di edilizia popolare, ma anche nei condomini dei quartieri piccolo/borghesi, nelle zone di villette, nelle palazzine di provincia. E soprattutto cerchiamo soluzioni efficaci per tutti i territori dove c’è omologazione e concentrazione di abitanti simili. Bene che sicurezza e cultura avanzino in parallelo; meglio se si intrecciano in un’unica politica urbana di aumento della biodiversità culturale nelle nostre città. Come? La risposta, ancora una volta sta nella scuola, la più grande e diffusa delle infrastrutture sociali. Bisogna favorire la potenza inclusiva delle nostre scuole, presenti ovunque nel territorio. Innanzitutto stabilendo standard minimi di varietà socio-culturale per i bambini e i ragazzi delle nostre scuole, che implichino, se è il caso, anche incentivi alla mobilità intra-urbana degli studenti — e che evitino sempre la costituzione di classi e scuole-ghetto. In secondo luogo, favorendo l’apertura delle scuole nei pomeriggi e nelle giornate di festa alle energie culturali del quartiere e della città: alle start up, ai corsi di cultura italiana, all’arte e alla musica dal vivo e autoprodotta, a forme di lavoro. E, ancora, reinventando il modello di “sicurezza partecipata” dei Neighbourhood policing team londinesi o quello di “deradicalizzazione” dei quartieri di Copenhagen. Incontri settimanali, nelle scuole del quartiere, tra le forze dell’ordine, i presidi, i responsabili dei genitori, dei docenti degli studenti, ma anche delle associazioni di quartiere e delle diverse comunità di fede. Occasioni in cui favorire il confronto e mettere in atto una vera e propria “prevenzione” democratica che segnala, oltre ai casi di microcriminalità, l’emergere di percorsi (di andata o ritorno) dall’eversione.