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 2015  novembre 26 Giovedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - LA DIPLOMAZIA AL LAVORO


REPUBBLICA.IT
PARIGI - Pronti a cooperare con la Francia, uniti dalla lotta al terrore. Hollande, in tre giorni, ha incontrato i leader internazionali. Obama alla Casa Bianca, Putin al Cremlino, Renzi e Merkel all’Eliseo. Lo ha fatto prima della cerimonia che si terrà domani a Parigi in onore delle vittime degli attentati del 13 novembre. Tutti hanno accettato il suo appello a collaborare contro l’Is. "Ora è il momento di assumersi la responsabilità per quanto sta accadendo" ha detto Hollande a Putin all’inizio del loro incontro al Cremlino.
"Gli attacchi terroristici ci impongono di unirci nella lotta" ha detto Vladimir Putin ricordando le vittime delle stragi di Parigi e dell’aereo russo abbattuto sul Sinai. "Soffriamo con voi per le perdite che ha subito la Francia" ha detto. "Come sa anche la Russia ha subito gravi perdite a causa di atroci attentati contro aerei civili. E tutto questo ci porta a unirci nella lotta contro un male comune", ha detto Putin.
"Il nostro nemico è Daesh, lo Stato islamico, che ha un territorio, un esercito e risorse. Per questo le potenze mondiali devono creare una grande coalizione per colpire questi terroristi" in Siria e in Iraq, ha aggiunto Hollande, "sono a Mosca con voi per vedere come possiamo agire insieme e coordinarci in modo da poter colpire questo gruppo terroristico, ma anche per raggiungere una soluzione politica per la pace".
"Possiamo costruire una vasta coalizione contro il terrorismo. Conosce la nostra posizione, siamo pronti a questo lavoro congiunto. Inoltre, crediamo che sia assolutamente necessario, e in questo senso, le nostre posizioni coincidono con lei" ha replicato Putin.
Hollande è atterrato a Mosca questo pomeriggio, dopo l’incontro col premier italiano Matteo Renzi. Quella russa è la tappa chiave, ostacolata al momento da una situazione di stallo tra Russia e Turchia, per l’abbattimento di un aereo militare russo.
"Senza un confronto militare con l’Is non usciremo dalla situazione in Siria", ha detto il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier a Berlino annunciando in uno statement con la ministra della Difesa Ursula von der Leyen la decisione di dare sostegno alla Francia. "Non abbiamo solo un sentimento di compartecipazione, siamo solidali". La Germania invierà i tornado, ha deciso Angela Merkel insieme ai ministri competenti nel corso di un incontro a Berlino. Obama, dal fronte Usa, ha concordato con Hollande sull’opportunità di non inviare militari in Siria, ma di intensificare i bombardamenti
Per Matteo Renzi è necessaria una "strategia globale, che sia non solo militare ma anche diplomatica, culturale e civile". La risposta al terrorismo "deve essere comune, la sicurezza deve essere rafforzata. Il nostro obiettivo è la distruzione di Daesh. Italia e Francia sono unite contro il terrore", ha ribadito il presidente francese questa mattina.
Renzi a Parigi: "Contro il terrore serve anche risposta culturale"
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Per il premier la coalizione anti-Is deve allargarsi: "C’è la necessità di una coalizione sempre più ampia che porti alla distruzione dello Stato islamico e del disegno atroce che esso rappresenta". Il premier appoggia anche la proposta francese di un accordo con la Turchia: "Abbiamo la necessità di avere un accordo globale, non dimenticando cosa accade in Giordania, in Libano, cosa soffre la Grecia, ma un accordo globale con la Turchia può essere decisivo per un modello diverso di accoglienza dei rifugiati. Ma per fermare l’esodo dei richiedenti asilo serve fermare le guerre civili".
Is, Putin a Hollande: "Pronti a cooperare con Parigi". Merkel, Germania invia Tornado
Il premier italiano Matteo Renzi e il presidente francese François Hollande
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Renzi ha tenuto un intervento alla Sorbona, l’università presso la quale era ricercatrice Valeria Solesin, l’italiana rimasta uccisa nell’attacco al Bataclan. "Valeria - ha detto il premier durante il suo discorso in omaggio alle vittime del 13 novembre - incarnava lo spirito della generazione Erasmus: nata in Italia, cresciuta in Europa. È stata uccisa con decine di compagni di strada - ha continuato Renzi - da assassini che non potevano accettare i suoi progetti, i suoi percorsi di vita". Un concetto, quest’ultimo, su cui il premier ha insistito: "Dopo il 13 novembre un’arte di vivere è stata aggredita. Quest’arte l’abbiamo costruita insieme. Ai potenziali terroristi bisogna dare ciò che loro hanno negato alle loro vittime, e cioè un futuro in cui vivere insieme".
La cerimonia francese in memoria delle vittime si terrà domattina alle 10,30. Il Fronte nazionale, che non aveva partecipato alla marcia dello scorso gennaio dopo gli attentati che colpirono il settimanale Charlie Hebdo, stavolta ci sarà. I rappresentanti delle istituzioni e la sindaca della città, Anne Hidalgo, saluteranno le bare portate sulle spalle delle guardie repubblicane. E’ previsto un discorso del presidente François Hollande. Saranno presenti il premier Manuel Valls e i leader dei principali partiti tra cui Nicolas Sarkozy, presidente dei Repubblicani e predecessore dello stesso Hollande. Ma sono almeno due le famiglie che boicotteranno la cerimonia voluta per domani dal presidente Francois Hollande all’Hotel des Invalides. Si tratta dei parenti di Xavier Prevost, scomparso a 29 anni, e di Jean-Marie de Peretti. Lo rende noto il quotidiano LeParisien. La sorella di Prevost, in particolare, ha lanciato su Facebook un invito a non partecipare alla cerimonia, elencando le mancanze dello Stato nel prevenire gli attentati.

REPUBBLICA.IT
Tensione sempre alta tra Mosca e Ankara dopo l’abbattimento di un caccia russo da parte degli F-16 turchi. Vladimir Putin ha rimarcato come dalle autorità turche non siano arrivate ancora scuse, né offerte di indennizzo. Il capo del Cremlino ha detto di avere l’impressione che il governo turco voglia intenzionalmente portare le relazioni con Mosca "a un punto morto" e ha ripetuto di considerare assolutamente inspiegabile la "pugnalata alle spalle" da un Paese che Mosca considera alleato nella lotta al terrorismo.
Ankara: niente scuse. A Putin ha replicato il presidente turco Recep Tayyp Erdogan che ha ripetuto che l’abbattimento del Sukhoi è stata "una reazione automatica" alla violazione dello spazio aereo turco, in linea con le istruzioni che erano state date alle forze armate di Ankara. Erdogan si è anche detto "rattristato" di vedere reazioni dalla Russia che non sono direttamente collegate all’episodio e ha anche sottolineato che l’impegno turco nella lotta all’Is è "incontrovertibile". Poi l’affondo: "La Russia non sta combattendo davvero l’Is in Siria, sta uccidendo turcomanni e siriani a Latakia". Lo stesso presidente turco ha assicurato che Ankara compra gas e petrolio solo da fonti conosciute e pertanto chi la accusa di finanziare in questo modo gruppi jihadisti ne deve "fornire le prove".
Erdogan ha poi inaspito i toni in un colloquio con la Cnn: "Penso che se c’è una parte che deve scusarsi, non siamo noi. Deve scusarsi chi ha violato il nostro spazio aereo. I nostri piloti e le forze armate hanno semplicemente fatto il loro dovere". E in una successiva intervista a France 24, ha affermato che "la Turchia avrebbe reagito diversamente se avesse saputo che l’aereo era russo", mettendo in evidenza il fatto che Putin non gli ha risposto al telefono dopo l’abbattimento del jet.
Altrettanto esplicita la reazione del ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu: "Non abbiamo bisogno di scusarci dal momento che siamo nel giusto. Ma abbiamo detto nella telefonata di ieri che siamo spiaciuti".
Rapporti bilaterali a rischio. Resta dunque teso il clima tra Russia e Turchia dopo l’abbattimento del caccia Su-24 di Mosca da parte di Ankara. Il ministero della Difesa russo ha annunciato la sospensione di ogni forma di cooperazione militare con la Turchia. Secondo l’agenzia Tass, è stata annunciata anche la sospensione dello scambio di informazioni per evitare incidenti aerei in Siria.
E’ ancora in forse il vertice di cooperazione economica ed energetica russo-turco, previsto per metà dicembre a San Pietroburgo: secondo il giornale Kommersant, che cita una fonte vicina al Cremlino, la Russia avrebbe deciso di annullarlo. Ma il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, ha invece affermato che l’incontro non è stato ufficialmente cancellato "ma certamente un sacco di domande sull’organizzazione di questo evento sono nell’aria" e "la situazione non è stata ancora chiarita". Subito dopo l’incidente avvenuto martedì, il ministro degli Esteri Serghei Lavrov aveva annullato la sua visita a Istanbul che avrebbe dovuto preparare il terreno al vertice dove era atteso lo stesso Erdogan.
Le autorità di Ankara hanno convocato l’ambasciatore russo per denunciare le violenze, con lanci di pietre e uova, che hanno avuto come obiettivo l’ambasciata turca a mosca e il consolato a San Pietroburgo.
Misure economiche e stop ai voli. Oltre che sul fronte diplomatico, la tensione tra i due Paesi sta portando conseguenze anche sul piano economico. Il primo ministro russo Dmitry Medvedev ha infatti anticipato il possibile congelamento o taglio di alcuni progetti di investimento con Ankara così come l’introduzione di un pacchetto di misure economiche che potrebbero includere limiti all’impiego di turchi in Russia.
A rendere più pensante il clima arriva anche la notizia che la Russia è pronta a sospendere i voli da e per la Turchia nell’ambito delle misure restrittive contro Ankara che Mosca sta preparando dopo l’abbattimento del jet militare russo. L’annuncio è arrivato dal ministro dello Sviluppo economico russo, Alexiei Uliukaiev, che ha precisato che un eventuale ’stop’ interesserebbe sia i voli di linea che quelli charter e che "il ministero dei Trasporti preparerà le relative proposte". Secondo Mosca, la Turchia perderà circa dieci miliardi
di dollari con la cessazione degli scambi turistici con la Russia.
50 turchi fermati. A testimonianza delle tensione tra i due Paesi, un gruppo di circa 50 imprenditori turchi è stato fermato dalle autorità russe a Krasnodar, nella Russia meridionale, con l’accusa di aver mentito sul motivo del loro ingresso nel Paese. La comitiva sarebbe stata fermata ieri per poi comparire stamani davanti a un giudice, che li avrebbe condannati a dieci giorni di detenzione (ma dovrebbero in realtà essere espulsi) e una multa di 4 mila rubli (poco meno di 60 euro). In base alle accuse i cittadini turchi hanno dichiarato di essere in Russia per turismo e non per partecipare a una fiera agricola, come avrebbero invece fatto.
"Russi, lasciate la Turchia". Il ministero degli Esteri russo ha inoltre raccomandato ai propri connazionali di non visitare la Turchia e a quelli che si trovano attualmente in quel Paese di rimpatriare a causa della minaccia terroristica.
Nonostante la difficoltà di dialogo tra i due Paesi, il ministro per gli Affari Europei di Ankara, Volkan Bozkir, ha però ribadito oggi che la Turchia e la Russia "non possono permettersi il lusso di relazioni ostili".
Giornalisti arrestati. La procura di Istanbul ha richiesto oggi l’arresto per Can Dundar, direttore del quotidiano di opposizione laica Cumhuriyet, e Erdem Gul, a capo della redazione di Ankara, per un’inchiesta in cui il giornale rivelò un presunto passaggio di camion carichi di armi dalla Turchia alla Siria. "Siamo stati accusati di ’spionaggio’. Il presidente ha detto che (la nostra azione è, ndr) ’tradimento’. Noi non siamo traditori, spie o eroi. Siamo giornalisti. Quello che abbiamo fatto è stata un’attività giornalistica", ha dichiarato Dundar.
Usa criticano Mosca. Critiche a Mosca arrivano invece dagli Stati Uniti. Secondo l’ambasciata Usa in Russia, lo schieramento dei sistemi di difesa anti missilistica
S-400 alla base militare russa a Latakia, già operativo, non fa che complicare la situazione e non favorisce la lotta All’Is. La stessa ambasciata, secondo quanto riferisce Interfax, si augura che gli S-400 non siano rivolti contro gli aerei della coalizione a guida Usa.

DAGOSPIA
2.OBAMA, NESSUNA MINACCIA SPECIFICA CONTRO USA

(ANSA) - Al momento, le informazioni raccolte "non danno indicazioni di una minaccia specifica e credibile contro gli Stati Uniti". Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti Barack Obama parlando alla Nazione dalla Casa Bianca alla vigilia di Thanksgiving, la festa del ringraziamento.





barack obama con sasha e malia
barack obama con sasha e malia

3.ALLERTA DELL’FBI PER GLI STATI UNITI OBAMA: “PROTEGGEREMO IL PAESE”

Alberto Flores D’arcais per “la Repubblica”



Poliziotti con mitra nelle hall degli aeroporti, agenti armati in tutti i posti considerati “obiettivi sensibili” come i monumenti di Washington, Times Square a Manhattan, ponti e tunnel delle principali metropoli. Oggi l’America si ferma per Thanksgiving e per il lungo ponte del Ringraziamento - è l’unica festività che unisce tutti, donne e uomini di ogni religione e cultura - sono scattate misure di sicurezza eccezionali.



Dopo le stragi di Parigi, gli allarmi in Europa e le operazioni militari in Siria, dopo la nuova crisi con il Cremlino aperta dall’abbattimento del caccia russo da parte dei turchi, sale il grado di allerta del Fbi per il lungo periodo di festività che da oggi andrà avanti fino a Natale e Capodanno.

barack obama con sasha e malia
barack obama con sasha e malia



Mentre il Dipartimento di Stato invita (con un “travel alert” valido fino al prossimo 24 febbraio) ad evitare viaggi nei luoghi più a rischio - «lo Stato Islamico, al Qaeda e Boko Haram continuano a pianifica- re attacchi terroristici in diverse regioni del mondo. Sono inoltre possibile attacchi da parte di singoli individui che decidano di compiere autonomamente azioni terroristiche» - anche da New York, considerata la città più a rischio per quelli che l’intelligence Usa definisce soft attack, arrivano inviti a non abbassare la guardia.



«La polizia sta prendendo la situazione molto sul serio e, come al solito, è altamente preparata » dice il sindaco Bill de Blasio alla vigilia della grande parata dove saranno presenti decine di migliaia di persone. «Vogliamo dire ai cittadini di non avere paura, ma solo di stare attenti. Tutto ciò fa parte del nuovo mondo in cui viviamo adesso», aggiunge il capo del Nypd Bill Bratton.



barack e sasha obama
barack e sasha obama

«Non ci sono minacce credibili nei confronti degli Stati Uniti», fa sapere la Casa Bianca dopo la riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza Nazionale convocata da Barack Obama. In un breve discorso, cinque minuti e mezzo, è lo stesso presidente a rassicurare i cittadini, «voglio che gli americani sappiano che abbiamo preso tutte le misure possibili per proteggere il nostro paese», a ripetere che non ci sono rischi immediati «lo confermano le ultimissime informazioni che ho appena ricevuto», a rilanciare il più famoso slogan che dall’11 settembre 2001 campeggia in ogni metropolitana d’America: «se vedete qualcosa di sospetto ditelo».



barack obama con sasha e malia
barack obama con sasha e malia

Per poi concludere: «Andate a trascorrere il Thanksgiving con i vostri cari, state tranquilli perché c’è chi lavora costantemente. Con i loro sforzi hanno salvato molte vite, sono impegnati ogni ora di ogni giorno per la nostra sicurezza. Lo facevano prima di Parigi, lo fanno ora. Per loro non ci sono vacanze».



Obama prova dunque a rassicurare un’opinione pubblica sempre più scettica su risultati (e tattica) della guerra allo Stato Islamico. Ma con circa 47 milioni di persone in movimento - la grande maggioranza in fila da ieri in 500 aeroporti degli States, diversi milioni su auto, treni e bus - Thanksgiving rappresenterebbe la migliore occasione per le cellule del terrore che intendono colpire il “cuore dell’Impero”.

barack obama con sasha e malia
barack obama con sasha e malia



L’Fbi ritiene però che non ci siano particolari e credibili minacce e del resto dall’11 settembre ad ora l’Intelligence Usa ha ottenuto notevoli successi sul fronte ‘terrorismo interno’. Per il direttore del Bureau James Comey non si deve dare troppo credito neanche ai video di propaganda dello Stato Islamico che minacciano di colpire al cuore gli Stati Uniti. Ma il 70% degli americani restano convinti che gli islamici riusciranno a colpire.

DA CINQUANTAMILA
Al momento sul cielo della Siria volano i jet di dodici Paesi
la Repubblica, giovedì 26 novembre 2015
«Sembra Tel Aviv all’ora di punta», commenta a caldo uno dei molti osservatori militari israeliani che seguono con estrema attenzione i movimenti negli affollati cieli siriani. Non ha torto, perché quello della Siria è in questo momento lo spazio aereo più congestionato del mondo. Attualmente 12 diverse Forze Aeree operano con i loro jet nei cieli siriani. Ci sono caccia e bombardieri siriani, russi, turchi, americani, giordani, australiani, francesi, inglesi, sauditi e qatarini, e canadesi. Poi ci sono anche i caccia israeliani, che solo lunedì hanno bombardato postazioni Hezbollah in Siria per 4 volte a Qalamun. È difficile anche capire chi sta bombardando che cosa e con quale scopo. I turchi bombardano i curdi (aiutati sul terreno dall’Occidente) che si battono contro l’Is, russi e siriani bombardano i “ribelli” senza tante distinzioni, gli Usa bombardano solo le postazioni del Califfato come i giordani e gli arabi, per non urtare Arabia saudita e Qatar che armano Jabhat al Nusra, il competitor interno dell’Is.
Israele, dall’inizio della guerra in Siria, ha compiuto decine di raid per bloccare passaggi d’armi sofisticate a Hezbollah, e i suoi caccia sono tornati indenni alle loro basi nel deserto del Negev. Ma quella facilità di penetrare come burro lo spazio aereo siriano, adesso non appare più così semplice, specie dopo l’annuncio che in Siria verranno schierate le sofisticate batterie russe anti- aeree S-400 di ultima generazione. La necessità strategica di mantenere una certa flessibilità operativa sui cieli della Siria ha portato i generali russi e quelli dell’Israel Air Force a istituire tavoli di coordinamento per evitare battaglie aeree fra due Paesi “non nemici”. Coordinamento che al momento manca tra le forze della Coalizione e le forze aeree russe e siriane.
Gli Stati Uniti sono il Paese con il maggior numero di missioni nei cieli siriani. I raid mirati partono dalla portaerei “Carl Vinson”, dalla base di Al Udeid in Qatar e più recentemente anche dalla Turchia dalla base di Incirlik. La Francia ha schierato nel Mediterraneo orientale la “Charles De Gaulle”, da dove decollano i Rafale e SuperEtendard. Ma posizione del gruppo navale francese comporta che i caccia e i bombardieri francesi devono sorvolare Israele e la Giordania, oppure la Turchia nella loro rotta verso la Siria e l’Iraq. Cieli già normalmente al limite della congestione.
Diversi altri Paesi della Coalizione partecipano all’Operazione Ineherent Resolve contro il Califfato, spesso con ancor meno coerenza. Gli Alleati, che comprendono anche gli Stati Arabi del Golfo, nelle loro missioni d’attacco coinvolgono numerosi aerei per le lunghe distanze da percorrere prima di entrare nei cieli siriani. I loro F-16 penetrano lo spazio siriano da una varietà di rotte diverse per sorvolare la Giordania o l’Iraq aumentando potenzialmente la possibilità di un incidente con altri caccia in volo. I velivoli coinvolti in queste missioni sono di diverso genere, caccia, droni con missili, droni con Elint (Informazioni elettroniche) ma soprattutto gli aerei cisterna KC-10 per i rifornimenti volo.
Il potenziale di scontri diretti fra caccia esiste come dimostrato dall’abbattimento del bombardiere russo lunedì scorso e può portare a decisioni affrettate. La Turchia ha sperimentato la pericolosa realtà dei cieli siriani già nel giugno del 2012, quando un suo F-4 da ricognizione venne abbattuto da un batteria missilistica siriana. “Incidente” che però ha stimolato una dura risposta della Turchia che in seguito ha abbattuto un Mig siriano e un elicottero nel marzo del 2014, dopo che – secondo la versione di Ankara – avevano violato lo spazio aereo turco. A settembre dell’anno scorso è stato Israele a premere il tasto rosso del “Fire” quando un suo Patriot ha centrato un velivolo siriano che aveva violato il suo spazio aereo, confinante con quello israeliano, “soltanto” di 800 metri.
Fabio Scuto

Russia-Turchia, una guerra economica da 44 miliardi
Il Sole 24 Ore, giovedì 26 novembre 2015
La Russia non si metterà in guerra contro la Turchia, come ha detto ieri il ministro degli Esteri Serghej Lavrov. E probabilmente, sul fronte economico, non utilizzerà neppure l’arma più potente che Vladimir Putin ha in mano, il rubinetto del gas. Il giorno dopo l’abbattimento del caccia russo in Siria, sia Mosca che Ankara calibrano le proprie reazioni, accettando l’invito a evitare un’escalation. Ma i russi non lasceranno correre: «Riconsidereremo seriamente le relazioni», dice Lavrov. Proprio sul fronte dei legami commerciali, nelle dogane e nelle agenzie viaggi, la ritorsione russa ha già preso forma.
E l’impatto si farà sentire. «Un colpo da 44 miliardi di dollari», titolava ieri il portale russo di informazione economica Rbk: udar, il «colpo», è la pugnalata turca alla schiena citata martedì da Putin mentre, furibondo, commentava l’abbattimento del jet. Quei 44 miliardi sono un modo per quantificare la posta in gioco nel confronto tra russi e turchi: la Russia è il secondo partner commerciale di Ankara, un interscambio pari a 31 miliardi di dollari nel 2014, e a 18,1 miliardi per i primi nove mesi del 2015. Considerando anche il settore dei servizi, la cifra sale appunto a 44 miliardi.
Due mesi fa, le ambizioni correvano alte: in visita a Mosca il 23 settembre – pochi giorni prima dell’avvio della campagna militare russa in Siria – il presidente turco Recep Tayyep Erdogan disse a Putin che entro il 2023 il commercio bilaterale avrebbe dovuto raggiungere i 100 miliardi. Approfittando anche del fatto che le sanzioni americane ed europee contro la Russia, a cui la Turchia non ha aderito, le lasciavano spazi in cui inserirsi.
Ambizioni oggi vittime della guerra in Siria. Attribuendo alla Turchia «un atto criminale», il primo ministro Dmitrij Medvedev ha avvertito ieri che «le dirette conseguenze potrebbero implicare da parte nostra il rifiuto a partecipare a tutta una serie di progetti congiunti, mentre le imprese turche perderanno posizioni sul mercato russo».
La ritorsione è già scattata. Ubbidendo alla raccomandazione dell’Ente federale per il turismo, tutti i più importanti tour operator russi hanno bloccato ieri le vendite di pacchetti vacanze in Turchia, tra le mete favorite dei russi: più di 4 milioni l’avevano scelta nel 2014. E intanto, l’Associazione russa dei produttori tessili ha indirizzato una lettera al governo chiedendo il boicottaggio degli acquisti di abiti e beni di consumo dalla Turchia. L’import dalla Turchia in questi settori, scrive l’Associazione, è pari a sette miliardi di dollari.
La ritorsione ha un effetto valanga. Al porto di Novorossiisk, sul mar Nero, le dogane russe ora bloccano i carichi in arrivo dalla Turchia, senza dare spiegazioni. Mentre l’immancabile Rosselkhoznadzor, l’ente che sorveglia quanto viene importato in Russia dal punto di vista sanitario, d’improvviso ieri ha rinvenuto la presenza di pericolosi batteri nel pollame di un’impresa turca, che si è vista bloccare le vendite. Da parte sua, la Turchia è un grande mercato per il grano russo.
Il grande rischio, ha avvertito ieri Putin, è che l’”incidente” dell’aereo si ripeta. Ma per ora sembra difficile che il gelo piombato tra Mosca e Ankara possa sconvolgere il fronte dell’energia, in cui gli interessi reciproci sono strettamente intrecciati. Mosca è il principale fornitore di gas della Turchia, che importa dai russi il 60% del fabbisogno annuo. E la Turchia, dopo la Germania, è il secondo cliente di Mosca. Su 50 miliardi di metri cubi (e una spesa annua di 50 miliardi di dollari per l’import turco di energia) da Gazprom ne arrivano 30. Senza contare il passaggio al nucleare, che Ankara ha affidato in buona parte ai russi: nel 2013 la Turchia ha commissionato alla russa Rosatom la sua prima centrale, quattro reattori e un progetto da 20 miliardi, il più grande progetto comune. «Perdere la Turchia – disse Erdogan lo scorso ottobre – sarebbe una seria perdita per la Russia». E viceversa.
Anche prima dell’abbattimento del jet, tuttavia, i problemi e le tensioni bilaterali non mancavano certo: come le eterne trattative sul prezzo del gas, o sul progetto che avrebbe dovuto prendere il posto di South Stream, un gasdotto che voleva trasformare la Turchia in un hub per l’Europa. Sul destino di Turkish Stream già gravavano dubbi di carattere economico e finanziario. Dubbi che ora sembrano diventati certezze.
Antonella Scott

Parla il pilota russo sopravvissuto ai missili turchi: «Se i loro F-16 avessero voluto metterci in guardia prima di spararci, avrebbero potuto affiancarsi. E mostrarsi»
Corriere della Sera, giovedì 26 novembre 2015
«Volavamo a seimila metri. Il cielo era limpido. Il missile è arrivato improvvisamente sulla coda dell’aereo. Non l’abbiamo proprio visto. Non c’è stato neanche il tempo di fare una manovra. Pochi secondi dopo, già precipitavamo. E ci siamo buttati fuori…». Gli eroi sono spesso tutti giovani e morti e al capitano navigatore Konstantin Murakhtin non pare vero: è vivo e passeggia per l’ospedale della base aerea di Hmeymim, terra siriana a 30 chilometri dalla Turchia, e Putin l’ha già onorato della medaglia d’Eroe di Russia. Paracadutato sulle montagne dei turcomanni nemici d’Assad. Trovato, non si sa come, dalle forze speciali. Scampato alla stessa, sicura morte del suo compagno di volo: «È escluso che siamo sconfinati in Turchia, nemmeno per un secondo – fanno subito dichiarare all’Eroe, abbattuto mentre bombardava i turcomanni di 24 villaggi siriani sulla frontiera —. Si può verificare perfettamente sulle mappe radar dov’è il confine e dov’eravamo noi». Ma perché non avete risposto all’allerta dei turchi? «Non c’è stato alcun tipo di contatto, non sono arrivati avvertimenti visivi, né via radio. Se i loro F-16 avessero voluto metterci in guardia prima di tirarci addosso, avrebbero potuto affiancarsi. E mostrarsi».
Behind Enemy Lines. Al di là della linea, o forse al di qua vai a sapere, per i piloti è finita come in un vecchio dramma di Gene Hackman: uno ammazzato, l’altro salvato. Murakhtin è «in buona salute», comunica personalmente Putin, dopo che l’ambasciatore a Parigi e il ministro della Difesa hanno già spiegato come il capitano «sia riuscito a scappare» nei boschi e sia stato «recuperato da un’operazione durata 12 ore, un commando congiunto russo e siriano penetrato per 4 chilometri e mezzo nei territori infestati dai terroristi». L’altro, no: l’aviatore Oleg Peshkov è stato impallinato dalle brigate turcomanne mentre planava col paracadute, il cadavere mostrato da un video. Medaglia pure a lui e a un terzo Eroe di Putin: il soldato Aleksander Pozynich, colpito a morte su un elicottero Mi-8 che stava cercando i due commilitoni dispersi.
Fine dei dettagli ufficiali. Ma dietro le fanfare militari, qualcosa stona. Ankara diffonde gli avvertimenti radio che ogni 30 secondi, e per cinque minuti, avrebbe inviato al Su-24 prima d’abbatterlo: «Attenzione, queste sono le forze aeree turche. Vi state avvicinando al nostro spazio aereo. Deviate immediatamente la vostra rotta verso Sud». Oltre a turchi, russi e a siriani, all’ora del missile Aim-9X Sidewinder vegliavano la zona almeno due satelliti e i radar di 11 Paesi – la portaerei americana Vinson, la francese Charles De Gaulle, la base qatarina d’Al Udeid, e poi inglesi, israeliani, giordani, sauditi, emiratini, bahreini, australiani, canadesi – e tutti, più o meno, confermerebbero la versione dei 17 secondi di sconfinamento. È stata probabilmente un’imboscata, concorda col Cremlino un analista militare di Tel Aviv, Alex Fishman: «C’era già stato un precedente, il 3 ottobre. E da allora Putin aveva concordato i sorvoli con israeliani e giordani. Con Erdogan, mai». Un po’ i russi se l’andavano a cercare, un po’ i turchi li aspettavano. E meno i piloti, forse, lo sapevano tutti.
Francesco Battistini

Le vere armi di Putin sono gas e rublo
La Stampa, giovedì 26 novembre 2015
Dimentichiamo troppo spesso che l’orso russo non è dotato soltanto di artigli militari, ma anche di artigli economici; che dispone di riserve finanziarie di grandi dimensioni che gli permettono di affrontare con relativa tranquillità l’attuale fase di prezzi bassi del petrolio; che Mosca non ha soltanto nemici nel mondo – e in particolare in Asia – come certe analisi sembrano far credere – ma anche amici, sia pur tiepidi.
È precisamente in virtù di questa forza economica, troppo spesso sottovalutata, che nella giornata di ieri Mosca ha chiuso i rubinetti del gas all’Ucraina, mentre nelle stesse ore per il gigante petrolifero russo Rosneft si sono aperti i rubinetti finanziari: oltre quindici miliardi di dollari, secondo quanto afferma il «Financial Times», sono affluiti nelle sue casse, presumibilmente come pagamento anticipato da parte dei cinesi di future forniture petrolifere e sicuramente come segnale cinese di solidarietà a una Russia probabilmente meno in difficoltà di quanto non appaia.
Sarà forse un caso, ma da settembre il cambio del rublo con l’euro mostra un lento rafforzamento: l’Europa non può a cuor leggero rinunciare al mercato russo e certamente questa scelta sarebbe difficile per la Germania e per l’Italia.
Le sanzioni contro la Russia stanno costando a ciascuno di questi due Paesi almeno lo 0,2-0,4 per cento del tasso di crescita del loro prodotto lordo, solo in parte compensate da un buon andamento delle vendite negli Stati Uniti.
L’Ucraina ha risposto al blocco delle forniture del gas russo bloccando il proprio spazio aereo ai velivoli russi di ogni tipo. Se si continuasse su questa strada, la Russia, per ritorsione potrebbe chiudere, o anche solo limitare, l’uso del proprio spazio aereo ai voli civili occidentali con conseguenze economiche potenzialmente disastrose per l’Europa: la Cina, l’India e il Giappone sarebbero improvvisamente più lontani, il grande mercato globale che – sia pure con sussulti e contraddizioni – sta facendo uscire dalla povertà una parte non piccola del mondo potrebbe rapidamente avvizzire.
Per questo si pone l’interrogativo su fino a che punto l’Europa intende sostenere la linea americana di duro sostegno all’Ucraina, alla quale il Fondo Monetario Internazionale ha concesso prestiti estremamente elevati, sostanzialmente senza condizioni, mentre la Grecia ha ottenuto da questo stesso organismo internazionale un trattamento molto meno favorevole.
La risposta russa alla Turchia potrebbe risultare estremamente dura in termini economici, senza necessariamente spostarsi sul terreno militare. Una parte importante del futuro sviluppo economico turco si gioca infatti nell’Asia ex-sovietica, ossia in Paesi in cui l’influenza politico-economica di Mosca continua a essere molto rilevante. L’espansione commerciale di Ankara potrebbe essere abbastanza facilmente bloccata da un’azione congiunta russo-cinese con un prevedibile inasprimento delle tensioni interne del Paese.
Va inoltre considerato che il programma di costruzione di nuovi oleodotti e gasdotti mediante i quali gli idrocarburi provenienti dalla Russia arriveranno nei prossimi decenni sui mercati europei è stato da poco modificato in senso favorevole alla Turchia. Potrà la Turchia davvero sbattere la porta in faccia a questo tipo di futuro, dopo che l’ingresso nell’Unione Europea le è stato di fatto negato?
Nelle ultime settimana in Occidente molti hanno guardato alla Russia soprattutto dal punto di vista militare, ossia come il Paese che ha mandato i propri soldati in Siria, ossia là dove né gli americani né gli europei vogliono «mettere i propri stivali», secondo il termine usato dal presidente Obama in un importante discorso sulla strategia militare degli Stati Uniti. Entrambi si limitano a bombardamenti, a quando sembra fino a non molto tempo fa non molto efficaci e neppure troppo intensi. In realtà l’Occidente, e l’Unione Europea in particolare devono compiere valutazioni congiunte di tipo militare per quanto riguarda l’intervento in Siria e di tipo economico per quanto riguarda gli effetti il sostegno all’Ucraina e le sanzioni alla Russia. I tempi nei quali potevamo disinteressarci di tutti questi «Paesi lontani» sono davvero finiti.
Mario Deaglio

Perché allearsi con Putin può essere utile
il Giornale, giovedì 26 novembre 2015
Se l’intervento di Vladimir Putin in Siria vi fa storcere il naso riflettete su quanto succedeva prima. Da quando – nel 2011 – gli Stati Uniti decidono d’intonare il requiem per Bashar Assad – assieme a Francia, Inghilterra, Arabia Saudita, Qatar e Turchia – la guerra civile cancella 250mila vite, costringe alla fuga all’estero quattro milioni di profughi e crea nove milioni di sfollati interni. Per non parlare della nascita di quel mostro chiamato Stato Islamico e della distruzione dell’ultimo Paese mediorientale dove il fondamentalismo stentava a metter radici e la convivenza tra sunniti, cristiani e alawiti era principio di stato. A fronte di questo caos, Stati Uniti e alleati si dimostrano incapaci di proporre il nome di un leader in grado di sostituire Assad.
Le varie formazioni ribelli su cui scommettono si macchiano, invece, dei peggiori crimini mentre le antiche comunità cristiane si ritrovano minacciate e perseguitate. Fino a quando l’egemonia della rivolta si concentra nelle mani del Califfato a est e dei qaidisti di Al Nusra sul quadrante occidentale. Ma questo è solo l’antefatto. Il peggio arriva dopo l’estate 2014. Mentre in Irak s’assiste all’ecatombe di Mosul e in Siria rotolano le teste degli ostaggi, gli Stati Uniti mettono a segno una serie di raid aerei così inconcludenti da consentire al Califfato di tagliare in due la Siria e minacciare Damasco. E mentre l’esercito siriano, stremato dagli attacchi dell’Isis, è prossimo al collasso i gruppi jihadisti – foraggiati da Turchia, Arabia Saudita e Qatar, ed ideologicamente indistinguibili dal Califfato – rendono ancor più incerta la sopravvivenza della Siria.
In questo contesto da incubo l’intervento di Vladimir Putin non risponde solo alla necessità russa di garantirsi il controllo della base di Tartus, ultima base navale di Mosca nel Mediterraneo o di riconquistare quell’influenza in ambito mediorientale passata in mani americane dopo la caduta dell’Unione Sovietica. L’iniziativa di Putin offre, a ben guardare, almeno tre opportunità che vanno al dì là degli stretti interessi di bottega di Mosca. Sul fronte della sicurezza internazionale la zampata di Putin previene un massiccio intervento iraniano in difesa di un regime che rappresenta il naturale anello di congiunzione tra la Repubblica Islamica e i suoi alleati di Hezbollah in Libano. Un intervento che scatenerebbe la reazione d’Israele e minaccerebbe veramente d’accendere un conflitto di dimensioni mondiali. Dall’altra parte la discesa in campo della Russia apre la strada, come dimostrano i negoziati in corso a Vienna, alla prima trattativa internazionale in grado di garantire una soluzione politica alla tragedia siriana. Senza contare che, al termine di quella trattativa, solo chi ha salvato Bashar Assad dai suoi nemici potrà permettersi il lusso di imporgli quei «compromessi nel nome del suo paese e del suo popolo» menzionati da Putin prima di lanciare i raid in Siria. La terza e più importante ragione, quelle per cui l’Occidente dovrebbe far ponti d’oro al presidente russo, è la dinamica su scala globale dello scontro con il Califfato. Mentre l’America di Obama si dimostra sempre più restia ad impegnarsi in un conflitto di largo respiro il Califfato dipana i propri tentacoli su territori che vanno dall’Iraq alla Siria, dal Sinai alla Libia, dalla Nigeria al Sahel. E sembra pronto ad affacciarsi persino su quello scenario afghano messo in liquidazione da America e Nato. Senza contare i fronti interni europei dove Daesh è in grado – come dimostrano gli attentati di Parigi, la situazione di Bruxelles o quella dei Balcani – d’ infiltrare cellule e lupi solitari.
Su un fronte così ampio solo l’alleanza con Mosca garantisce, da una parte, il consenso politico necessario per ottenere interventi legittimati dal voto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e, dall’altra, la profondità strategica indispensabile per estirpare definitivamente, e su scala mondiale, il contagio dello Stato Islamico.
Gian Micalessin

Angela Merkel manderà 650 soldati tedeschi in Mali per aiutare l’esercito francese
Corriere della Sera, giovedì 26 novembre 2015
A gennaio l’immagine di Angela Merkel che all’Eliseo posa la testa sulla spalla di François Hollande, dopo gli attentati di Charlie Hebdo e del supermercato kosher, aveva riassunto l’emozione e l’amicizia tra i due Paesi.
Ieri la cancelliera è dovuta tornare a Parigi per testimoniare ancora una volta la vicinanza della Germania dopo i massacri dei terroristi, e oltre alla rosa deposta in place de la République in omaggio alle vittime ha portato stavolta l’annuncio dei rinforzi militari: 650 soldati tedeschi si aggiungeranno ai 200 già presenti in Mali, per aiutare l’esercito francese che da oltre due anni è presente nel Paese africano.
Si tratta di un aiuto importante, ma indiretto, allo sforzo bellico francese in Medio Oriente: i 650 soldati tedeschi parteciperanno alla missione Minusma delle Nazioni Unite in Mali, e questo potrebbe permettere alla Francia di liberare energie da impiegare sul fronte decisivo dei bombardamenti aerei contro lo Stato islamico in Siria e Iraq.
Il presidente François Hollande è impegnato da lunedì in un tour de force diplomatico nel tentativo di costituire la grande «coalizione militare unica» che serve per «distruggere lo Stato islamico». Lunedì Hollande ha visto il premier britannico David Cameron, martedì il presidente Usa Barack Obama, ieri Merkel, questa mattina riceve all’Eliseo il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi prima di volare nel pomeriggio a Mosca a incontrare Vladimir Putin. Dopo i 130 morti di Parigi la Francia è determinata, ma non tutti i suoi alleati sembrano pronti a seguirla nella guerra.
«Non potremo sconfiggere l’Isis con le parole, ci vorranno degli strumenti militari», ha ammesso la cancelliera durante la conferenza stampa all’Eliseo. Concretamente però, a parte il Mali, la ministra della Difesa tedesca Ursula Van Der Leyden potrebbe portare da 100 a 150 gli uomini incaricati di formare le truppe peshmerga curde.
Non molto, per un Paese che era anch’esso bersaglio dei kamikaze allo Stade de France durante Francia-Germania, e che stava per subire a sua volta un attentato a Hannover in occasione della partita poi annullata Germania-Olanda (secondo Stern furono i servizi israeliani ad avvertire dell’attacco imminente).
L’opinione pubblica tedesca è contraria a una partecipazione alla guerra, così come lo è il Bundestag, senza il cui via libera Merkel non può inviare aerei in Siria. Al di là delle dichiarazioni solenni, in questo momento le priorità di Francia e Germania sono divergenti: lotta al terrorismo per Parigi, crisi dei rifugiati per Berlino. Nell’intento di avvicinare le posizioni, i ministri dell’Economia Emmanuel Macron e Sigmar Gabriel hanno lanciato un’iniziativa comune proponendo un fondo di 10 miliardi per finanziare più controlli alle frontiere e l’accoglienza ai migranti.
Stefano Montefiori