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 2015  novembre 23 Lunedì calendario

È CACCIA AL GAS IN ADRIATICO CAOS SULLE NUOVE CONCESSIONI

I sostenitori delle trivelle sostengono che bucare il fondo del mare in cerca di idrocarburi, così come sulla terraferma, non ha mai fatto del male a nessuno. Non all’ambiente, visto che dagli anni ’50, quando iniziò la ricerca di gas nel Lodigiano al centro della Pianura Padana, non si è mai verificato un incidente. Un’attività industriale, per quanto invasiva, che non danneggerebbe nemmeno l’economia. Anzi: secondo uno studio di Assomineraria, l’associazione che raggruppa le principali società del settore estrattivo dove Eni ed Edison sono le più attive, la ricerca di metano e petrolio addirittura aiuta. Per esempio, la pesca: secondo il centro di ricerche Rie di Bologna, attorno alle piattaforme off shore si crea un ecosistema favorevole all’ambiente marino: l’area si ripopola di pesci che attirano altre specie, come i predatori perché sanno di trovare cibo. Per non dire che sui piloni crescono colonie di mitili, cozze in particolare. Ma le piattaforme – ben 117 attualmente in attività nei mari italiani – non sarebbero d’ostacolo nemmeno al turismo, visto che per la stragrande maggioranza sono situate lungo le coste dell’Adriatico, tra la Romagna e l’Abruzzo, le coste più frequentate durante l’estate e non ha impedito di ottenere più di una “bandiera blu” per le spiagge più pulite. Tutto ciò fa parte del dossier con cui la “lobby delle trivelle” ha chiesto – e ottenuto – dal governo un provvedimento per il rilancio la produzione di idrocarburi in Italia, dopo uno stop durato almeno 4-5 anni. Una richiesta che si è concretizzata in una serie di articoli contenuti nel decreto Sblocca Italia e nel decreto Sviluppo, grazie ai quali vengono semplificate le regole per la concessione delle nuove licenze e l’apertura dei pozzi. Provvedimenti che non hanno mancato di sollevare polemiche a cominciare dal più contestato, che di fatto toglie alle Regioni la potestà di istruire l’iter autorizzativo, riassegnandolo ai ministeri competenti e quindi al governo. Nel suo tentativo di intercettare la ripresa – e creare nuova occupazione – l’esecutivo guidato da Matteo Renzi ritiene di aver individuato nel settore dell’estrazione di idrocarburi una occasione da non sprecare. Oltre a dare un contributo positivo alla bilancia dei pagamenti. Perché l’Italia, dopo la Gran Bretagna e la Norvegia, possiede nel suo sottosuolo le maggiori riserve di petrolio d’Europa, nonché i più grandi giacimenti sulla terraferma, nella Val d’Agri della Basilicata. E si piazza anche tra il quarto e il sesto posto per il gas, a seconda se si considera la quantità estratta o quella delle riserve accertate. Secondo i dati del 2014, in Italia si sono estratti 115mila barili di petrolio al giorno, pari al 10,3 per cento del fabbisogno nazionale; mentre si è reso disponibile gas metano per 7,3 miliardi di metri cubi, quantità che corrisponde circa al 12 per cento dei consumi complessivi nazionali. Il tutto grazie a 886 pozzi attualmente in attività. Una produzione autarchica che contribuisce per 4,5 miliardi alla riduzione per la bolletta energetica nazionale. «Ma, secondo le riserve già accertate e che quindi siamo sicuri che ci sono e che sono solo da andare a prendere – spiega Pietro Cavanna, vicepresidente di Assomineraria – potremmo raddoppiare la produzione e raggiungere il 20 per cento complessivo del nostro fabbisogno. Perché non sfruttare l’occasione di essere meno dipendenti dalle importazioni, creare occupazione visto che potremmo dare lavoro almeno a 65mila persone e contribuire alle casse pubbliche grazie al ricavato delle royalties e delle tasse pagate dalle imprese per i loro guadagni?». Grazie allo Sblocca Italia, sono state accelerate le autorizzazioni per le prime due concessioni. La prima in Abruzzo, al largo delle coste di Ortona, si tratta dell’ormai celebre progetto Ombrina, contro il quale due mesi fa sono scesi in piazza a Lanciano oltre 60mila persone, con una manifestazione che da queste parti non si era mai vista e che ha visto in prima fila oltre a normali cittadini, comitati ambientalisti, Wwf, Legambiente ma anche i vescovi abruzzesi. La concessione per Ombrina, che ad agosto ha avuto la compatibilità ambientale dal ministero dei Beni e delle attività culturali e del Turismo e dal ministero dell’Ambiente, è stata richiesta dal gruppo di diritto inglese Rockhopper, ma è contestata perché si trova a meno di 12 chilometri dalla spiaggia, a ridosso di un’area marina protetta in via di costituzione. Il secondo progetto si trova al largo della Sicilia, davanti alla costa di Ragusa, dove opera da tempo la piattaforma Vega: la gestisce una joint venture Edison-Eni, che ora ha chiesto il raddoppio della concessione per andare a estrarre gli idrocarburi che negli anni Ottanta, quando venne scoperto il giacimento (anche in questo caso petrolio) aveva costi di estrazione che non avrebbero ripagato l’investimento. Vega 2 è in attesa della Via, che verrà riconosciuta a Roma e non dalla regione Sicilia. Ma contro la realizzazione della seconda piattaforma hanno presentato ricorso al Tar Legambiente, Greenpeace e Touring Club. Ma sulla strada del “rinascimento” delle trivelle non c’è solo l’ostacolo dell’associazionismo. Dieci consigli regionali hanno votato a favore della presentazione di sei quesiti referendari – depositati poche settimane fa alla Corte di Cassazione – che vogliono abolire l’articolo 38 dello Sblocca Italia, oltre all’articolo 35 del decreto Sviluppo: contengono i provvedimenti che dovrebbero sostenere la nuova stagione dell’estrazione di gas e petrolio in Italia. Per paradosso, capofila dell’iniziativa è il consiglio regionale della Basilicata: non vuole chiudere i pozzi petroliferi attivi, ma vuole impedirne l’apertura di nuovi. Le altre nove sono Marche, Puglia, Sardegna, Abruzzo, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise. Un fronte politicamente trasversale con giunte in cui i presidenti sono espressione del Pd e che non hanno timore di scendere in contrasto con il governo Renzi. Tra i più attivi, Michele Emiliano, presidente della Puglia che negli ultimi giorni – ha aperto un altro fronte “energetico”, chiedendo la revisione del progetto Tap, il gasdotto che porterà in Italia il gas dell’Azerbaijan, via Turchia, Grecia, Albania e Mar Adriatico: l’approdo a Nord di Otranto, su una delle spiagge più belle del Salento, è contestato sia per i danni al turismo locale, sia all’agricoltura. Il gasdotto, che verrà realizzato da Snam, deve poi raggiungere la rete nazionale attraversando oltre 50 chilometri di uliveti. Emiliano ha così chiesto di prendere in considerazione il vecchio progetto che prevedeva l’approdo nell’area industriale di Brindisi. I “No Tap”, così come sono stati definiti, hanno parecchi punti in comune con i “No Triv”. Almeno 200 associazioni locali e ambientaliste che appoggiano la richiesta di referendum, i cui quesiti sono stati redatti da un costituzionalista e docente all’università di Teramo, il professor Enzo Di Salvatore, il quale ha lavorato sui punti che consentono allo Stato di concedere le autorizzazioni anche in assenza di un accordo con le Regioni interessate. Ma le associazioni cosa contestano al governo? Temono l’ impatto sull’ambiente, visto che le nuove concessioni potrebbero essere rilasciate anche nella fascia di mare antistante le 12 miglia, ma anche sul turismo, perché le piattaforme potrebbero essere visibili nettamente anche da riva. Contestano anche il modello economico sottostante alla ricerca di idrocarburi; e chiedono che il governo si impegni per l’affermazione definitiva delle energie rinnovabili. Nel caso in cui la Cassazione ammettesse i quesiti, il referendum dovrebbe svolgersi alla fine dell’anno prossimo. «L’iter del referendum farà il suo corso – replica Cavanna – ma non si può non sottolineare il fatto che quello che si andrebbe a impedire non lo è affatto dall’altra parte dell’Adriatico: Croazia, Montenegro, Albania e Grecia hanno ripreso le esplorazioni e corriamo il rischio di importare nei prossimi anni gas e petrolio che viene estratto a pochi chilometri dalle nostre coste, ma di doverlo pagare ad altri».
Luca Pagni, Affari&Finanza – la Repubblica 23/11/2015