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 2015  novembre 02 Lunedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI DEL 2 NOVEMBRE 2015

Quattro banche italiane – Banca Marche, Banca Popolare dell’Etruria, Cassa di risparmio di Chieti e Cassa di risparmio di Ferrara – sono in dissesto e nel giro di pochi giorni va chiusa una complessa manovra volta a evitare che portino i libri in tribunale. Il piano di sostegno da due miliardi messo in piedi dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) deve ottenere il via libera dalla Commissione Ue, che dal 2013 ficca il naso in qualsiasi operazione di salvataggio bancario e che pare avere qualche dubbio sulla sua natura privatistica. In caso di flop, il governo si potrebbe trovare a gestire una grana da 12,5 miliardi di euro (a tanto ammontano i depositi garantiti, quelli fino a 100mila euro, dei quattro istituti) [1].

A spingere per l’operazione del Fitd (le ultime notizie parlano di un fondo delle prime sette banche italiane per sottoscrivere aumenti di capitale) ci sono tutti gli istituti di credito, coinvolti o meno, che vogliono assolutamente evitare una crisi del sistema. De Dominicis: «Di “code agli sportelli” e “fuga dai depositi” ha parlato il presidente del Fitd, Salvatore Maccarone. Che in questo momento si trova a gestire una delle fasi più delicate della vita dell’industria finanziaria italiana. Il suo grido di dolore, martedì scorso in Parlamento, trae fondamento proprio dai rischi di contagio e dai pericoli per la fiducia dei clienti. Maccarone ha detto che le banche non riuscirebbero in nessun caso a trovare 12,5 miliardi. Ragion per cui, le perdite dei correntisti – con tutto quello che ne consegue in termini di debiti delle famiglie non rimborsati, di mancati consumi e di effetti sul gettito fiscale – verrebbero in qualche modo scaricate sulle finanze pubbliche» [1].

Negli ultimi mesi, chi legge le pagine economiche dei giornali avrà visto affiorare di tanto in tanto storie di malmessi istituti di provincia (quindici sono quelli commissariati) e di tre eroiche istituzioni (Fitd, Ministero dell’Economia e Banca d’Italia) votate al loro salvataggio. Cherubini: «La storia è inquietante per il modo distaccato e asettico con cui viene descritta la tragedia umana del tentativo di aiutare le banche prima che entri in vigore la nuova regolamentazione del salvataggio, denominata “bail-in”. È per questa inquietudine che quando la mattina ti fai la barba, e i sogni non si sono ancora completamente separati dalla realtà, sgrani gli occhi di fronte allo specchio e ti chiedi: “Minchia, ma questa legge sul bail-in non l’avrò mica firmata io?”» [2].

Il bail-in è difficile da spiegare soprattutto a chi conosce la finanza. Infatti il principio è che in caso di crisi di una banca prima pagano gli azionisti, poi i titolari di credito subordinato, poi i creditori, e così via. E uno si chiede: dov’è la novità? Non è sempre stato così? La novità sta in un dettaglio: questo ordine di priorità, naturale in caso di liquidazione, dal 1° gennaio si applicherà per legge anche nel caso di «risoluzione» di una banca. Ovvero in caso di salvataggio [2].

Fino a oggi, in Europa, la ristrutturazione di una banca in crisi veniva affidata alla generosità dello Stato. Ed effettivamente ha pagato sempre lui: 250 miliardi quello tedesco, 60 lo spagnolo, 50 l’irlandese e l’olandese, 40 il greco, 19 a testa il belga e l’austriaco, 18 il portoghese. Il bail-in ha il fine di impedire a questa controfigura di accollarsi ancora il rischio dei banchieri [3].

Lo stato italiano ha contribuito direttamente alla ristrutturazione delle banche per 4 miliardi, una cifra irrisoria rispetto a quelle appena citate, e già tutta restituita con lauti interessi, ma resta evidente che nel Paese persista una questione bancaria. La crisi iniziata nel 2007 ha messo a nudo un sistema troppo frammentato, con una rete di distribuzione bulimica, resa obsoleta da internet, indebolito dalla bassa qualità del credito, frutto di gestioni inefficienti, a volte sconfinanti nell’illecito, e da una struttura dei costi eccessiva. Penati: «Il tanto vantato “radicamento territoriale” è stato il velo sotto il quale interessi locali, pubblici e privati, hanno potuto gestire il credito in modo clientelare, il pretesto per mantenere istituti bancari sottodimensionati, con una redditività insufficiente, e lo strumento per costruire imperi senza sottostare alla disciplina del mercato» [4].

Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Popolare di Spoleto, Cassa Ferrara, Carige, Cassa risparmio di Teramo, Banca Marche, tutte sull’orlo del collasso e tutte hanno inchieste giudiziarie in corso. Iezzi: «Sotto la comoda coperta delle relazioni di provincia e la retorica dell’economia del territorio da sostenere ad ogni costo, si ripeteva uno schema simile: un gruppo di manager interni, più una serie d’imprenditori e faccendieri esterni “prendevano possesso” delle chiavi della cassa della banca. Prestiti facili a chi era nella cerchia giusta che raramente si preoccupava di restituirli. In contropartita gli imprenditori amici acquistavano, con una parte dei soldi prestati, azioni delle stesse banche che così risultavano più capitalizzate della realtà. I manager interni ci guadagnavano in potere e spesso anche direttamente nel portafoglio. Non solo lo schema “prestiti facili a imprenditori azionisti” si ripete, ma la ragnatela unisce le banche riproponendo gli stessi nomi» [5].

Ancora Penati: «È illusorio pensare che le molte crisi bancarie di questi anni possano trovare una soluzione in aggregazioni nel mercato dei capitali, e che si recuperi la redditività con tagli di costi e chiusure di sportelli. Prima è necessario che le attività delle banche siano ricondotte al loro realistico valore di mercato». Ed è forse lecito dubitare che lo siano, nonostante accantonamenti e stress test. Basta guardare ai prezzi di borsa: il fatto che, con la sola eccezione di Intesa, tutti gli istituti italiani quotati valgono meno del patrimonio tangibile, con uno sconto di circa il 20% rispetto alla media delle banche europee, significa che il mercato ha qualche dubbio sul realismo dei valori contabili. Dubbio rafforzato dai tanti tentativi di perseguire soluzioni di sistema (avversate dall’Europa), come la bad bank con qualche forma di garanzia statale, il trattamento favorevole dei «deferred tax assets», o l’utilizzo del Fondo tutela dei depositi per il salvataggio di banche commissariate [4].

Che dunque in Italia la corsa a prevenire il bail-in sia interesse di banchieri fragili è persino troppo evidente: subiranno un pesante aumento dei costi di raccolta e una polarizzazione che favorirà le poche banche forti e redditizie, a scapito delle più, traballanti e sofferenti. Ma perché ne devono aver paura proprio le istituzioni che questa legge tutela dalle banche stesse? E perché queste istituzioni brigano affinché un gruppo di istituti ne salvi altri prima che arrivino le nuove regole? [6].

La logica suggerisce due soluzioni. La prima è che sia una fantasia da romanzo di appendice inventata dai giornalisti per rendere più appassionante la storia. Se invece la corsa a eludere la nuova legge fosse vera, vorrebbe dire che il bail-in non si addice al sistema italiano. La seconda risposta sarebbe quindi che il sistema italiano preferisce il bail-out, cioè l’intervento di istituzioni esterne. Ma la stranezza è che questa volta non si tratta del bail-out del contribuente, cioè di un salvataggio da parte dello Stato. Si tratta piuttosto della difesa di banche da parte di altre banche. Una sorta di bail-out corporativo [2].

In conclusione, se le nostre istituzioni stanno facendo le corse per evitare una legge europea, che anche loro hanno sottoscritto, il corollario naturale è che anche nel campo bancario in Europa non contiamo nulla. Cherubini: «Resta una domanda finale. La soluzione che le istituzioni vorrebbero imporre prima dell’avvento della regola del bail-in avrebbe potuto essere una soluzione migliore, se suggerita come regolamentazione europea? Se fosse così sarebbe il caso che le nostre istituzioni parlassero (e che i giornalisti chiedessero) delle motivazioni del salvataggio che si sta attuando in Italia». Nel silenzio invece regna il sospetto che si tratti dei soliti favori al «salotto buono», e che i nostri banchieri siano ancora una consorteria e una casta che si presta mutuo soccorso a scapito di tutti gli altri [2].

Note: [1] Francesco De Dominicis, Libero 30/10; [2] Umberto Cherubini, glistatigenerali.com 24/10; [3] CorrierEconomia 28/9; [4] Alessandro Penati, la Repubblica 23/10; [5] Luca Iezzi, la Repubblica 21/10; [6] Andrea Greco, Affari&Finanza 5/10.