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 2015  ottobre 07 Mercoledì calendario

VI RACCONTO L’AMORE CHE MI HA CAMBIATO


[Gabriele Muccino]

Ci accoglie sorridente ed energico, nella hall di un hotel del centro. Parla velocemente, non balbetta quasi più, indossa occhiali dalla montatura moderna, un braccialetto portafortuna, ed è più magro rispetto all’ultima volta che è venuto in Italia. Gabriele Muccino è sbarcato con il suo quatto film americano, Padri e figlie, che vede nel cast tre premi Oscar (Russell Crowe, Jane Fonda e Octavia Spencer). «È la storia di uno scrittore che, rimasto vedovo, cresce da solo la sua bambina di 5 anni dovendo lottare con un serio disturbo psichico che lo allontanerà dolorosamente da lei. Divenuta adulta, la ragazza faticherà ad abbandonarsi ai sentimenti a causa della ricerca di un padre che non potrà ritrovare e della paura di perdere ancora la persona amata».
È una storia toccante, piena di colpi di scena emotivi: lei è un estremista dei sentimenti?
«Sono un estremista della vita e i film esprimono il mio modo di essere. Ho fatto cinema perché volevo comunicare chi fossi. Da adolescente balbettavo e non ho scoperto il potere della macchina da presa. In questo film parlo di quello che un genitore trasferisce a un figlio, di quel bagaglio che formerà il suo inconscio e lo accompagnerà per tutta la sua esistenza».
Che cosa c’è di lei in questo film?
«Tutta la mia sensibilità e la messa in scena delle emozioni. Credo sia il mio film più compiuto».
Il fatto di avere una figlia piccola, Penelope, l’ha spinta a scegliere questa trama?
«Mi ha portato a riscrivere alcune scene o a scriverle da capo, perché una figlia femmina è un’esperienza importante e singolare rispetto a un maschio (Muccino ha altri due figli avuti da precedenti relazioni, ndr). Il maschio è un compagno di giochi, la femmina cerca un’altra forma di relazione che è la protezione. Con lei devi avere la capacità di essere protettivo e rassicurante. Con un figlio puoi mettere a nudo le fragilità; se lo fai con una figlia lei diventa la tua infermiera e non va bene» (ride).
Nei suoi film ci sono sempre intrecci sentimentali complessi, è il successo come regista che ha complicato la sua vita o ha avuto successo nel cinema raccontando la sua vita complicata?
«Per creare ho bisogno di agitazione, di movimento. La mia vita è stata caotica e questo caos l’ho generato inconsapevolmente, ma è ciò che mi ha fatto diventare un regista, un autore, uno scrittore, un osservatore della realtà».
In Italia definiscono il suo cinema più commerciale che d’autore.
«Il cinema può essere d’autore, ma è comunque un’arte costosa: l’autore che non recupera i soldi del film ha fallito. Mozart non voleva essere di nicchia, Bach non voleva essere di nicchia, Baudelaire non voleva essere di nicchia, il vero artista vuole essere popolare».
È sempre stato considerato un alieno rispetto al cinema italiano.
«Credo di essere cresciuto in anni in cui il cinema che avevo amato non esisteva più. Non mi piacevano i miei coetanei, i miei punti di riferimento erano lontani da quello che avevo intorno e i miei film erano considerati estranei al nostro cinema. Non ho mai cercato di colmare quella diversità, non ho mai provato a somigliare a quelli che non mi piacevano: sono rimasto io con il mio linguaggio e ho sempre fatto a modo mio, anche a Hollywood».
Come fa a rapportarsi con i grandi, a “dare del tu” a Will Smith e Russell Crowe?
«Per fortuna in inglese esiste solo il “tu” e questo mi ha aiutato (ride, ndr) e poi quello che conta sul set è la leadership e io sono un leader, so dove condurre il mio esercito anche con una troupe di 200 persone e un cast importantissimo. Davanti agli attori sono sicuro: ho un punto di vista e quello è l’unico referente che ho».
Paolo Sorrentino ha vinto un Oscar con un film su Roma, lei ha fatto quattro film a Hollywood, chi ha faticato di più?
«Non voglio giudicare perché il suo è un film in italiano. Dovremmo giudicare i suoi due lavori americani, ma sono film indipendenti con soldi europei, girati in piena libertà. Quando vai a Hollywood, al vertice della piramide c’è il produttore e poi viene il regista, nulla può essere paragonato a quell’esperienza. Mi devi paragonare a chi ha fatto film in quel sistema, e non c’è un italiano che abbia fatto quattro film lì. Gli unici che hanno avuto rapporti con gli Studios sono Sergio Leone e Franco Zeffirelli».
Con chi fa la sua gara?
«Con me stesso e consiste nel mantenere la mia integrità e la mia felicità che vengono dal sentirmi in movimento, un essere umano che compie un viaggio verso la completezza e la maturità».
Nei suoi film è importante la famiglia: come va la sua?
«Viaggio e vivo con mia moglie Angelica e mia figlia Penelope, con gli altri miei figli che vengono a trovarmi quando possono. Di fatto la mia famiglia è una situazione complessa come molte famiglie che hanno più passati. Ho trovato una donna che mi ama moltissimo, ho una figlia che mi dà amore illimitato, amo i miei figli tutti allo stesso modo, cerco di fare il massimo e come uomo racconto la fallibilità perché sono fallibile. Siamo tutti figli di qualcuno e siamo imperfetti».
È ancora tormentato?
«Quello è congenito all’artista, ma non mi taglierò un orecchio come Van Gogh, state tranquilli» (ride).