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 2015  ottobre 03 Sabato calendario

CHE BUSINESS LASSÙ


C’erano una volta lo Sputnik e la guerra fredda. Ora ci sono il barbuto magnate della Virgin Richard Branson e il bizzarro imprenditore Elon Musk che vuole costruire una colonia su Marte. Negli ultimi 60 anni il mondo dei satelliti si è completamente rivoluzionato. E se gli oggetti orbitanti all’inizio erano soprattutto uno strumento della battaglia tra Unione Sovietica e Stati Uniti, oggi che sopra le nostre teste ne girano circa 1.200 – numero destinato secondo gli esperti a raddoppiare nel prossimo decennio – sono alla base della nostra vita quotidiana. Che fine faremmo, si è chiesta la Bbc, se queste misteriose tecnologie che girano intorno alla Terra smettessero improvvisamente di funzionare, magari per una tempesta solare o un cyber attacco? Si spegnerebbero le nostre tv, non solo quelle satellitari, e le basi militari perderebbero il contatto con i droni e con i propri eserciti. Internet funzionerebbe, ma senza telefoni satellitari le navi container dell’Artico, i pescatori del mare cinese e gli operatori umanitari del Sahara si troverebbero isolati dal resto del mondo. Senza satelliti verrebbe meno il modo principale in cui oggi prevediamo le condizioni meteo, fondamentale per mandare avanti l’agricoltura e l’industria del cibo, per non parlare dell’aviazione. Senza Gps, verrebbero messe in crisi le consegne e i servizi di emergenza. Comunicazioni, trasporti, pianificazione: praticamente sono il motore della nostra economia.
Tutto cominciò nel 1957, quando i sovietici lanciarono in orbita appunto lo Sputnik, il primo. Gli americani risposero nel 1963 con il Syncom II, il primo satellite geostazionario, così detto perché, andando alla stessa velocità e nello stesso verso della Terra, appare in posizione fissa sulla volta celeste. Da allora sono stati lanciati 6.600 oggetti di questo tipo, che stando “fissi” non costringono le antenne a rintracciarli, rendendo le comunicazioni di dati molto più facili.
I tre principali operatori satellitari oggi sono l’europea Ses, l’americana Intelsat e la francese Eutelsat. Secondo la recente classifica di Space News, a seguirli sono la canadese Telesat, la giapponese Jsat e poi due arabi, Arabsat eYahsat. Ses ha sede in Lussemburgo e ha puntato molto sullo sviluppo della tecnologia televisiva, dall’HD all’interattività fino, ora, all’Ultra HD. Raggiunge 312 milioni di case, e grazie ad Astra porta per esempio nei nostri salotti Bbc, Cnn, Al Jazeera e i canali Rai in HD.
Il direttore generale di Ses Astra Italia, Pietro Guerrieri, ci descrive un ambiente in perenne evoluzione e altamente competitivo, in cui «le persone si aspettano un continuo miglioramento della qualità di diffusione dei contenuti tv, e richiedono di poter aver accesso a Internet dovunque e su qualsiasi dispositivo». Quanto agli operatori, «quelli regionali del Medio Oriente e dell’Asia hanno rapidamente esteso la copertura geografica dei loro servizi, e noi esploriamo le opportunità di partnership, come quella con MonacoSat/TurkmenSpace».
Ses conta una flotta di oltre 50 satelliti geostazionari. Ma come fanno a mandarli in orbita? Qui si entra nel mondo dei razzi, dominato da tre operatori. Uno è Arianespace, l’artistocrazia del razzo. Fondata nel 1980, ha sede a Évry, in Francia, e tra gli azionisti ha società di 10 Paesi europei, l’italiana Avio inclusa. È responsabile ogni anno di oltre la metà dei lanci di satelliti commerciali. Poi c’è il russo Proton, il cui primo lancio risale al lontano 1965. Il terzo, l’ultimo arrivato, nato nel 2002, si chiama SpaceX, ed è la società del miliardario Elon Musk, il fondatore della Tesla Motors e del sistema di pagamento PayPal che è noto anche per l’ambizione di aprire una colonia su Marte.
La SpaceX ha preso in affitto nella base di Cape Canaveral una piattaforma in disuso della Nasa, mentre la sua sede è una fabbrica vicino l’aeroporto di Los Angeles. È però un’azienda molto discussa. La sua mission è di farsi largo nel mercato riducendo drasticamente i prezzi, per esempio riutilizzando per più viaggi il razzo Falcon 9. Sembrava anche esserci riuscita, tant’è che, per fare concorrenza ai suoi vettori leggeri e low cost, l’Agenzia spaziale europea ha investito 4 miliardi di euro per produrre l’Ariane 6, più compatto e efficiente del modello precedente. Ma la sfida di Musk e della sua originale SpaceX ha di recente dovuto incassare un duro colpo. A fine giugno, infatti, un Falcon 9 è esploso in volo, due minuti dopo il lancio da Cape Canaveral, mentre trasportava una capsula carica di rifornimenti e strumenti scientifici diretti verso la Stazione Spaziale Internazionale.
«L’arrivo di SpaceX ha rivoluzionato il settore spaziale tanto che altri vettori stanno reinventando la loro offerta per restare competitivi. L’incidente è stato un evento sfortunato, che ha sospeso tutti i lanci di SpaceX», dice Guerrieri. «La piena trasparenza che la squadra di Musk ha dimostrato conferma però la nostra grande fiducia e il forte convincimento che tornerà più forte di prima». Intanto, visti i recenti fallimenti di Proton e SpaceX, si sta facendo avanti anche un operatore giapponese, la Mitsubishi, che nel 2016 porterà in orbita per la prima volta un satellite, della canadese Telesat.
Il mondo dei satelliti si prepara comunque all’ennesima rivoluzione. Si sta facendo avanti un altro immaginifico e bizzarro imprenditore, il britannico Richard Branson, fondatore del Virgin Group. OneWeb, che lui finanzia insieme a CocaCola e Airbus, ha raccolto 500 milioni di dollari per il progetto con cui vuole portare Internet a banda larga nel Terzo Mondo, attraverso una costellazione di microsatelliti geostazionari di nuova generazione.
Alla stessa idea sta lavorando Elon Musk, di nuovo lui, con il sostegno di Google. Nati nell’epoca del bianco e nero, frutto della competizione tra grandi potenze, ora i satelliti sono diventati giocattoli per miliardari globali. A caccia di fama e di sogni spaziali.