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 2015  ottobre 06 Martedì calendario

PERCHE’ L’UNIONE EUROPEA NON PUO’ FARE A MENO DI ANKARA

Pur di frenare l’ondata migratoria, affrontare la minaccia del Califfato e le conseguenze dell’intervento della Russia in Siria, l’Europa è disposta a corteggiare e riempire di soldi per tenersi due milioni di profughi anche Erdogan, trattato in questi anni come un pariah da Bruxelles per le sue tendenze sempre più autoritarie, un islamismo regressivo e la forte resistenza ad adeguarsi alle direttive di Washington e della Nato di cui Ankara fa parte da oltre 60 anni. Ma la Turchia è così strategica che Europa e Stati Uniti non possono farne a meno e gli effetti di questo coinvolgimento di Ankara nelle emergenze europee si faranno presto sentire.
Il presidente Tayyp Erdogan con il partito Akp è in campagna elettorale (si vota anticipatamente il primo novembre) e punta a riconquistare la maggioranza assoluta per coltivare i suoi sogni presidenziali, cacciare dal Parlamento i curdi e bombardarli - non solo il Pkk ma anche quelli siriani del Pyd come ha chiarito ieri in conferenza stampa - eliminando lungo i suoi 900 chilometri di confine la possibilità che possa costituirsi l’embrione di uno stato o di una pericolosa autonomia curda. In sintesi senza la Turchia _ ma anche l’Iran e gli altri attori regionali_ non si decidono i nuovo confini del Medio Oriente e il destino di interi popoli e nazioni.
Questo è venuto a dire Erdogan a Bruxelles, sollevando, insieme alla questione dei visti per i cittadini turchi, la creazione dentro la Siria delle “zone di sicurezza” per collocare alcune centinaia di migliaia di rifugiati siriani. La fascia di sicurezza - per cui l’Unione ha risposto che dovrebbe decidere l’Onu - è fondamentale per Ankara. La Turchia è disposta a prendersi i rifugiati ma intende anche alleggerirsi della loro presenza per insediare con i campi profughi in Siria una sorta di “cordone umanitario” destinato a interrompere la continuità territoriale di eventuali conquiste dei curdi ed estendere la sua influenza sulla provincia di Aleppo, quella con i maggiori rapporti politici, militari ed economici con la Turchia.
«Voi europei pagate e noi turchi costruiamo i campi», questa è la formula di Ankara ma non è così neutra come può sembrare. Ecco perché negoziare con la Turchia di Erdogan, in crisi politica interna e che sta regolando i conti con la minoranza curda, significa cominciare a decidere la sorte della Siria. Per raggiungere i suoi obiettivi Erdogan ha riacceso il fronte militare coi curdi del Pkk e ora nell’Anatolia del Sud Est - denominazione ufficiale del Kurdistan turco - è ripreso un conflitto che dura da oltre trent’anni: in quelle zone, con lo stato d’emergenza, i coprifuoco intermittenti, gli attentati della guerriglia del Pkk e le ritorsioni delle forze di sicurezza, è a rischio il regolare svolgimento delle elezioni di novembre.
Va dato atto alla Turchia di avere affrontato da sola per quattro anni l’emergenza profughi ma anche di avere tentato in ogni modo, lasciando libero passaggio ai jihadisti, di sbalzare dal potere Bashar Assad. Un calcolo sbagliato ma condiviso con gli alleati arabi e gli stessi occidentali che hanno avallato la presenza di un’opposizione armata moderata solo marginale e rimasta sulla carta.
Ma nei rapporti con la Turchia c’è anche dell’altro. In ballo ci sono affari miliardari e strategici. La tensione tra Mosca e Ankara per la violazione dello spazio aereo può diventare un altro tassello che forse potrebbe far saltare la pipeline del Turkish Stream per trasportare il gas russo in Turchia e quindi accelerare progetti alternativi destinati ai mercati europei. L’Italia, insieme all’Europa, è particolarmente interessata a tutti i piani turchi, da quelli energetici alle commesse militari, perché Ankara dopo l’accordo sul nucleare con l’Iran è intenzionata a rafforzare il suo apparato bellico: da una parte conduce una guerra contro i curdi, dall’altra deve bilanciare l’influenza di Teheran, rafforzato dall’asse con Mosca, Baghdad, Damasco e gli Hezbollah libanesi. Paradossalmente la guerra ha riavvicinato la Turchia all’Europa senza che Erdogan e Bruxelles facessero nulla per andare in questa direzione.