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 2015  ottobre 07 Mercoledì calendario

I BIG DATA VALGONO L’8% DEL PIL EUROPEO

Chi pubblica una foto su Facebook, scrive su un blog, ascolta una canzone in streaming o anche solo inserisce parole su un motore di ricerca non può sapere con precisone dove queste informazioni saranno custodite.
Sono le regole, non scritte, del cloud computing: la tecnologia che muove i dati di chi usa servizi su internet. È bene ricordarlo sempre perché dentro le “nuvole” informatiche ci può essere di tutto: buste paga, mail, dati finanziari, foto del figlio insomma informazioni più o meno sensibili. Dentro i server di Facebook, Google, Apple, Microsoft circolano a velocità altissima sotto forma di bit dati che valgono una montagna di soldi. Con un bel po’ di ottimismo Boston Consulting Group aveva provato a misurare il valore delle nostre vite digitali. Solo in Europa si parla di 1 trilione di euro entro il 2020, circa l’8% del prodotto interno lordo della Ue a 27 Paesi menbri. Stime più conservative sostengono che l’analisi dei megadati potrebbe incrementare la crescita economica dell’Ue di un ulteriore 1,9%, pari a un aumento del Pil di 206 miliardi di euro.
Gli analisti si erano spinti anche a misurare i benefici dell’uso dei dati personali. Per le imprese e i governi il teosoretto ammonterebbe tra cinque anni a 330 miliardi. Per i singoli individui, il rapporto indica un valore addirittura doppio legato ai servizi che i big della rete offrono gratuitamente in cambio dello “sfruttamento” del nostro comportamento digitale. La parola è un po’ forte ma rende l’idea. Quando navighiamo o utilizziamo i servizi dei social network accediamo a servizi gratuiti. In cambio accattiamo di essere “osservati”. Lo uso di questi profili è una parte del business di alcuni giganti di internet come Facebook e Google. Va però detto che quando è consapevole e trasparente lo scambio può essere equo . Negli Usa la privacy è considerato un servizio negoziabile. In Europa per tradizione e cultura lo è meno. E questo è un pezzo del confronto che volo solo apparentemente fronteggiarsi Usa e Ue.
Lo aveva capito benissimo nel 2010 Mark Zuckerberg, il boss di Facebook, quando per mettere le mani avanti aveva dichiarato finita l’era della privacy. Ci ha aiutato a scorprirlo più recentemente Edward Snowden quando ha dimostrato che ai dati non erano interessate solo le aziende ma anche i governi e l’intelligence. La denuncia del cittadino austriaco Maximilian Schrems nasce proprio sulla scia delle cartedi Snowden. Ma, se la pronuncia della Corte Ue è nata dalle paure di Schrems, quella che si sta giocando in Europa è una partita un po’ più grande. E interessa direttamente tutte le aziende globali che sono chiamate a trattare informazioni sensibili.
Qualche numero: nel 2016, l’anno prossimo, il 36% di tutti i dati saranno archiviati sulle nuvole informatiche Gli osservatori di cose tecnologiche stimano che 340 milioni di persone avranno spostato i propri dati sul cloud. Come scrisse con fortunata lungimiranza Nicholas Carr nel libro “The Big Switch”: «Se la dinamo elettrica fu la macchina che diede forma alla società del XX secolo, la dinamo informatica è la macchina che darà la forma alla nuova società del XXI secolo». Quello che viene trasportato via internet non sono solo dati ma servizi. Perché cloud computing significa esattamente questo: distribuire attraverso risorse informatiche, ovvero applicazioni software, storage, potenza di calcolo come se fossero energia elettrica. In altre parole, vuol dire trasformare l’informatica in un servizio di pubblica utilità accessibile (a pagamento) come la rete telefonica. Le ricadute sul business sono globali. Attualmente i campioni del cloud computing sono prevalentemente soggetti extra-ue. Anzi, come ha calcolato l’Ue il 54% dei servizi online proviene dagli Stati Uniti. Il 4% dall’Ue e il resto dai singoli stati nazionali. In pratica metà del dati e del business di chi usa servizi via internet va a finire negli Stati Uniti. La decisione della corte Ue rischia di far saltare tutto. Da qui il nervosismo dei giganti della rete californiani che proprio sull’uso dei dati hanno costruito il loro impero. Le nostre identità digitali già oggi girano su server lontani da noi, fuori dal nostro hard disk, dal nostro pc. Snowden ha dimostrato che a trarne profitto non erano solo i soliti noti del Web.