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 2015  ottobre 02 Venerdì calendario

MALIKA AYANE E QUELL’ATTITUDINE ALLA FELICIT


L’equinozio d’autunno è arrivato, ma Senza fare sul serio di Malika Ayane – indubitabile hit dell’estate 2015 – se ne frega e continua a martellare via radio ogni bar e ascensore d’Italia. «Lento può passare il tempo ma se perdi tempo poi ti scappa il tempo». Malika Ayane sorride bevendo un centrifugato allo zenzero e lime, dietro un paio di occhialoni da sole da diva anni Sessanta, il bar è affollato, si alza la voce. Il 12 ottobre da Milano partirà il nuovo tour che in due mesi la porterà in altre venti città italiane (esclusa Lugano, naturalmente). È contenta, il 2015 è stato un buon anno. Una bella canzone a Sanremo (Nostalgico presente), un album, Naif, strano e diseguale, con canzoni notevoli ma diverse, tenute insieme dall’unico collante della sua voce. Ma mentre Malika Ayane racconta, la sua voce incomincia anche a cantare dalla radio mischiandosi al rumore del bar– «lento può passare il tempo» – come se l’estate non fosse passata. Le canzoni dell’estate fanno più fatica a essere dimenticate. Le chiedo quale sia la sua.
«La prima che mi viene in mente è Missing degli Everything but the Girl. Avevo una decina d’anni, tipo, ed eravamo in un campeggio in Versilia, non mi ricordo dove di preciso, ma erano vacanze importanti, perché erano le prime che facevamo in Italia dopo un decennio di Marocco. La sola idea di uscire da sola, per di più in un campeggio in Versilia, era esaltante. Andavo con i pattini a rotelle, quelli con le quattro ruote perché i rollerblade non c’erano ancora, ascoltando Missing. Mi sentivo in Flashdance».
Fino ad allora andavate in Marocco?
«Sì, ogni estate c’era questa migrazione al contrario verso i parenti di mio papà. Si faceva base a Meknes dalla famiglia, ma poi si andava sulle spiagge dell’Atlantico che sono meravigliose. Erano viaggi interminabili, Milano-Meknes, tremila chilometri in macchina attraverso Costa Azzurra, Spagna, Andalusia, stretto di Gibilterra e poi Africa. Nel registratore dell’autoradio si alternavano cassette C90 con musica marocchina, grandi del rock di mio papà, Baglioni, Venditti di mia mamma, che in quel periodo era maniaca anche di Fabio Concato. E quando toglievamo la C90, incominciava la radio con la musica spagnola».
L’unica canzone dell’estate in lingua spagnola famosa in Italia la scrissero due di Torino, i Fratelli Righeira.
«Vamos a la Playa suonava anche nelle radio spagnole! Sempre. Anche all’inizio degli anni Novanta. Era già vecchissima. Ma immortale. Quando sono tornata in Spagna, una stagione alla fine delle superiori per lavorare, c’erano ancora le stesse canzoni di quando ero bambina, compresa Vamos a la Playa. Secondo me, in Spagna, le radio la mettono ancora».
È perché le canzoni dell’estate durano di più.
«È perché le canzoni sono il suono di periodi precisi. Entrano a fare parte della colonna sonora della nostra vita per esempio, c’era un’estate che Scar Tissue dei Red Hot Chilli Peppers la sentivi anche se andavi su Marte. Mi piace molto che canzoni che non scegliamo si impongano nostro malgrado, fino a contenere la sensazione di determinati momenti. Quando ero ragazzina facevo le cassette, ma siccome duravano di più degli lp, le riempivo di canzoni che non c’entravano niente, ascoltate su MTV. Per me, per esempio, i Doors sono associati a You Get What You Give dei New Radicals soltanto perché nella mia C90 arrivava subito dopo The End».
Musica italiana niente.
«È arrivata più tardi, durante l’adolescenza, nonostante la passione di mia madre per Concato. Se sento Pezzi di vetro di De Gregori mi viene ancora il magone perché ripenso a me adolescente innamorata persa come può accadere solo a 17 anni».
Anche Naif è pieno di canzoni diversissime.
«Io sono nata a metà degli anni Ottanta, c’era tutto e non c’era niente, era un momento interessante culturalmente. Magari non sono usciti i dischi migliori della storia – c’erano strumenti bizzarri dai timbri indecenti – però si era creato un enorme incrocio di situazioni che non si sapeva dove avrebbe portato. Credo che sia per questo che non sono ossessionata dai generi. Soffro di una totale mancanza di pregiudizio. O meglio, sono piena di pregiudizi, ma sapere identificare le cose in base alla loro diversità ti fa capire che non c’è nulla di male a volerle mettere insieme».
A proposito di mettere insieme, com’è stato essere una bambina di origini marocchine a Milano negli anni Ottanta?
«A scuola mi chiamavano “Mollika” e se avessi avuto gli occhiali mi avrebbero detto “Quattr’occhi”. I bambini sono bastardi abbastanza da cercare di renderti la vita impossibile in qualsiasi caso. Ma non ho mai avuto problemi sulle mie origini. Il mio quartiere, via Padova, è stato un esempio nel mettere insieme le persone con naturalezza. Un bellissimo incastro. Certo, non riesco a spiegarmi come faccia uno che è stato chiamato terrone fino a ieri, a classificare come inferiore chi viene da un altro Paese. Ma ho un’attitudine alla Frank Capra. Ogni cosa per me è meravigliosa, ogni magagna è formativa, un’esperienza del viaggiatore».
Parla l’arabo?
«Lo parlavo molto bene, poi l’ho perso. Ma al terzo giorno in Marocco riesco di nuovo a capire mia nonna, che si esprime solo nel dialetto di Meknes. In casa da bambina era come stare dentro un romanzo di Pennac. Mio padre è un musulmano relativo, mia madre è una cattolica relativa, invece mio nonno è proprio ebreo, il cliché dell’ebreo, e mi fa molto ridere. Nessuna religione dice: “Odia il tuo vicino”. Il messaggio è sempre comportarci nel miglior modo possibile con chi si ha intorno. È tutto così relativo. Sono le persone che sono bizzarre, non è mai la loro origine».