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 2015  ottobre 02 Venerdì calendario

JANE LA FOLLE, CHE INCANTÒ TOULOUSE-LAUTREC


Era diversa dalle altre ballerine di can-can, assai più che un turbinio di gambe e un fru-fru di sottogonne. Era una combinazione irripetibile di sensualità e movenze eteree, esotismo e ricercatezza. E gli uomini impazzivano per lei. Anche Henri de Toulouse-Lautrec, che continuò a ritrarla ripetutamente tra il 1892 e il 1899, come se non riuscisse a staccare gli occhi da quella ragazza unica, fragile e altezzosa, bizzarra e seducente. Un amico dell’artista, lo scrittore Paul Leclercq, descrisse così una delle sue esibizioni al Moulin Rouge: «Jane Avril ballava roteando con grazia e un pizzico di follia. Pallida, sottile, di classe, piroettava senza peso, come nutrita di fiori. Mentre Lautrec gridava la sua ammirazione». Lei non a caso era soprannominata Melinite, come il potente esplosivo, e non Cavalletta o Macarona o Nini gamba in aria, come le altre stelline insolenti e banali.
L’abbiamo vista tutti mille volte, Jane Avril, svettare in dipinti di Toulouse-Lautrec, senza sapere bene chi fosse quella donna pallida con i capelli rossi, diventata l’icona del mondo della notte nella Parigi della Belle Époque. Perché solo ora, per la prima volta, esce in Italia la sua autobiografia: La ragazza del Moulin Rouge. Le mie memorie. Ricordi apparsi a puntate nel 1933, sul giornale Paris-Midi. Flash di prima mano sulla bohème di fine Ottocento lungo la Senna. Perché il démi-monde dei cabaret e dei café-concert frequentato dalla vedette di Montmartre attrae artisti come Renoir e il giovane Picasso (che ritrae Jane più volte); musicisti come Debussy, scrittori come Huysmans, giornalisti e umoristi come Alphonse Allais (che la chiede in sposa, ma è respinto). E poi finanzieri come i Rothschild, blasonati come il principe di Galles (futuro Edoardo VII) o Josef Stanislao Poniatowski (mancato monarca di Polonia)... Jane Avril è a suo agio in questo scenario intellettual-chic: «Mi credevano in possesso di una vasta cultura, benché non avessi nemmeno la quinta elementare! Avevo frequentato i migliori autori e la mia eccellente memoria aveva registrato tutto ciò che poteva trattenere».
In realtà Jane Avril è un nome d’arte – scelto perché suona così inglese, ultimo grido in fatto di ricercatezza – ma all’anagrafe lei è Jeanne Beaudon. Nata nel 1868 dalla fugace passione tra una cortigiana e uno nobile italiano. Con un’infanzia mélo: iniziata in un convento di suore e continuata, dai 9 anni in poi, a casa della madre, che riversa su di lei tutta l’infelicità di un fascino sfiorito, spasimanti scomparsi, risparmi svaniti. E giù botte, ingiurie, abusi: a 10 anni Jeanne canta in strada per tirar su qualche spicciolo. Finché la malattia nervosa non esplode: Ballo di San Vito si chiamava allora, movimenti a scatti, scoordinati, degli arti e del viso. A 14 anni Jeanne è ricoverata nell’ospedale psichiatrico della Salpêtrière, tra le primedonne dell’isteria, sotto le cure del professor Charcot. Il fondatore della neurologia si pavoneggia in un anfiteatro gremito di luminari e curiosi; chiude un occhio sulle tresche tra medici e pazienti; organizza un «Ballo dei folli» tra pubblico e indemoniate... Ed è qui che Jeanne scopre la danza: solo ballando i suoi sintomi scompaiono.
Così dopo due anni viene dimessa, per ricadere vittima della madre, che cerca di convincerla: «I signori di una certa età ricoprono d’oro le giovani fanciulle, a patto che si lascino baciare». Jeanne fugge da casa. Ma a darle riparo sono proprio le cocotte di una casa chiusa, con cui inizia una nuova vita, tra serate danzanti, caffè alla moda, struscio al Jardin du Luxembourg. Ma Jeanne – ormai Jane Avril – non è una qualsiasi etera: cerca tenerezza, si affeziona, sceglie con cura i suoi corteggiatori. «La danza», scrive, «era la mia sola passione, il mio tesoro e il mio rifugio. Con cui esprimevo sogni, dispiaceri, speranze, gioie». E, ingaggiata dal Moulin Rouge, fa subito scalpore. Balla come fosse in trance, un’«orchidea impazzita». È inquietante, misteriosa, in bilico tra provocazione e pudore. Non un oggetto facile del desiderio: è troppo strana con quell’aria ferita, quell’espressione insondabile.
Che attragga il fragile, malato Toulouse-Lautrec non sorprende: entrambi hanno subito un danno, al corpo e all’anima. Lui non è mai cresciuto oltre il metro e cinquanta, lei è «Jane la folle», sopravvissuta ai gironi infernali del manicomio. I due outsider diventano amici (non amanti). E l’artista inizia a ritrarla. Sia sotto le luci della ribalta, catturando la sua energia e la sua eleganza. Sia dignitosamente sola per le strade di Parigi: una donna indipendente e orgogliosa.
A 42 anni, lei sposa Maurice Biais, artista e grafico di scarsa fama. Perché proprio lui non si sa. Forse si rende conto di non poter ballare per sempre. Forse vuol dare un padre al figlio avuto da chissà chi... I pettegolezzi dicono che Biais avesse una doppia vita da travestito. Ma adotta il bambino di Jane, le dà una casa. Muore nel 1926, di un male ai polmoni. Jane 17 anni dopo, nella più totale povertà. Con «l’orgoglio di essere stata stimata e amata da esseri raffinati, sensibili, delicati, intelligenti e arguti» (parole sue). Di aver conosciuto il mondo. E di essere riuscita a volare danzando qualche spanna più su.