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 2015  ottobre 02 Venerdì calendario

RACCONTARE IL SESSO? È LA PEGGIORE DELLE ROGNE


[Javier Marías]

MADRID. Il regista Eduardo Muriel, tra i protagonisti del nuovo romanzo di Javier Marías, è un uomo sagace e probo, però venato da qualche stravaganza e con un innocente vizietto: adora sdraiarsi sul pavimento del suo studio per riflettere, conversare, fumare in santa pace sputando nuvole al soffitto. Ho letto che anche Marías ha lo stesso debole. Ma, essendo persona molto a modo, si allunga a terra solo in presenza dei più stretti conoscenti. Non oso quindi proporgli di rispondere alle mie domande in simile postura.
Discutiamo nel suo appartamento-biblioteca. In giro, numerosi soldatini di piombo e qualcuna delle armi che ogni Natale gli vengono scherzosamente regalate dall’amico Arturo Pérez-Reverte: «Queste sono copie» dice Marías mostrandomi un paio di pistole, «ma questo no. Questo può ammazzare» precisa sollevando un pugnale da assaltatore. Ci spostiamo in salotto. Javier Marías fuma parecchio e ogni due/tre sigarette si alza per aprire le finestre che affacciano sull’antica Madrid. Quella in cui è ambientato Così ha inizio il male (Einaudi) non è altrettanto vecchia, ma sembra lo stesso lontanissima. Siamo nel 1980, Francisco Franco è morto da appena cinque anni e – per quanto formalmente democratica – la Spagna è un Paese anfibio, impasto di modernizzazione e cascami ancien régime. I costumi sessuali si fanno più disinvolti, ma divorziare ancora non si può. Ergo: quando i rapporti coniugali non funzionano, tocca tenere botta. Da separati in casa. Ne sanno qualcosa il cineasta Eduardo Muriel e sua moglie Beatriz. Lei è ancora piacente assai e lo desidera, ma da tempo lui non vuole saperne: la respinge, la disprezza. Non le perdona uno sgarro rimasto insepolto nel passato. Quale? E dove va la signora al pomeriggio, quando sgattaiola furtiva in case private, studi prefessionali, addirittura una misteriosa chiesa tedesca, rientrando da quegli appuntamenti con l’abito elegante un po’ sgualcito? È quanto si chiede Juan, il narratore-voyeur e giovane assistente del regista che intanto gli ha assegnato una singolare missione extralavorativa: lo ha incaricato di verificare certe dicerie secondo cui un caro amico di famiglia, reputato pediatra, si sarebbe macchiato, in epoca franchista, di comportamenti abietti con una serie di donne. Sarà vero? Come sempre nei libri di Marías, la verità non è che non esista, ma arrivandoci in forma di racconto o sentito dire, resta infida. Vuoi dannosa. Per questo c’è chi, forse saggiamente, rinuncia a volerla conoscere. A vederci chiaro. Non per niente, il regista Muriel porta una benda sull’occhio: «È un richiamo ai grandi guerci del cinema: John Ford, Fritz Lang, Raoul Walsh...» spiega Marías. «Ma il dettaglio ha anche una funzione simbolica. Da un lato vorrebbe ricordare che delle cose non possiamo mai avere una visione completa. Dall’altro rispecchia quanto la società spagnola fece in un certo momento della sua storia. Quando cioè decise di chiudere un occhio sul passato franchista».
Il cosiddetto Patto dell’oblio con cui destra e sinistra avviarono la transizione democratica.
«A volte devi rinunciare alle rese dei conti e in qualche misura anche alla giustizia. Solo una dittatura può processare mezzo Paese».
Oggi quel compromesso è sempre più contestato.
«Ha prodotto un sistema imperfetto, ma normale. Le nuove generazioni tendono a dimenticare che nei primi anni della Transizione l’esercito era ancora franchista. Che fino a poco tempo prima esisteva la censura, che non avevamo partiti politici né elezioni o una vera separazione tra Stato e Chiesa».
Nel privato i colpi di spugna possono essere salutari, ma quando c’è in ballo la memoria collettiva?
«No, un conto è non portare il passato in tribunale e un altro è farne un tabù, rimuoverlo, rinunciare a raccontarlo. Ma è proprio quel che accadde nella Spagna del dopo dittatura. E molti ex franchisti approfittarono dell’equivoco per inventarsi false biografie da democratici».
Nel 1999, in un intervento su El País che ha fatto epoca, lei rimestava nei trascorsi di blasonati intellettuali che si erano riciclati. Scatenò il putiferio.
«Capisco che sotto una dittatura si debba pur vivere. Ma mi pareva inaccettabile e offensivo che, ammettendo di aver collaborato con il regime, certi si autoassolvessero dicendo: Non c’era altra scelta. O Lo facevano tutti. No, alcuni non lo fecero. Ed ebbero vite complicate. O distrutte. Mio padre, per esempio, non lo fece».
Juliàn Marías, filosofo, allievo prediletto di José Ortega y Gasset.
«All’inizio del franchismo fu epurato, gli venne proibito l’insegnamento. Poi negli anni 60 si aprì una piccola possibilità di reintegro, ma non se ne fece nulla: lui continuò a rifiutarsi di giurare fedeltà al Movimiento Nacional».
Quell’articolo non le attirò attacchi solo da destra.
«No, perché alcune delle persone con cui me la prendevo erano diventate di sinistra».
Beh, cambiare idea si può.
«Alcuni cambiano davvero. Altri non tanto. Mio padre diceva: Io credo nell’evoluzione di una persona se è un percorso. Non credo ai salti di chi oggi è una cosa e domani un’altra. Sono abbastanza d’accordo».
Torniamo al libro, ma restando in famiglia. Nel personaggio del regista c’è qualcosa di suo zio materno Jesús Franco, detto Jess. Diresse oltre 160 film, dall’horror al porno. È scomparso due anni fa, ma tra i patiti di b-movies resta un guru.
«Sì, l’Ed Wood spagnolo. Era un tipo simpatico. Ma la maggior parte dei suoi film continuano a sembrarmi spaventosi».
Ad alcuni lei ha partecipato.
«Ho tradotto qualche sceneggiatura e ho fatto la comparsa in uno dei Fu Manchu. Recitavo la parte di un sicario cinese, però non mi si riconosce perché porto un cappuccio».
In qualche modo suo zio la aiutò anche col primo romanzo...
«Nell’estate del ‘69 scappai di casa. Andai a Parigi per scrivere. Zio Jesus mi lasciò il suo appartamento. Avevo un po’ di soldi da parte e arrotondavo girando per caffè con la chitarra: Quelque chose pour un etudiant, s’il vous plait... Ma quasi tutto il tempo lo passavo al cinema».
Nel romanzo c’è un bel po’ di cinema. Tra i comprimari della storia vediamo Jack Palance o Herbert Lom che quasi tutti ricordano solo nella parte del pazzo capo poliziotto dell’ispettore Clouseau. Invece era un interprete raffinato. E anche un intellettuale.
«Aveva scritto un romanzo sul drammaturgo Marlowe. Mentre Palance aveva studiato a Stanford. Dipingeva e componeva poesie».
Da ragazzo lei li ha conosciuti?
«No, li ho visti sui set di mio zio. Ma come con Christopher Lee o George Sanders – che ammiro moltissimo – non ho mai avuto il coraggio di rivolgere loro la parola».
Questo è il suo libro con dentro più sesso. Ma come al solito la materia è trattata senza eccedere nel dire.
«Le scene sessuali sono sempre una faccenda molto complicata. Non so se mi vengono bene. Bisogna evitare il kitsch pseudopoetico o le descrizioni asettiche, ginecologiche. Io cerco di farlo con una scrittura obliqua, allusiva. Ma ogni volta è un problema, una sfida. È un terreno sul quale sono caduti perfino i più glandi».
A chi pensa?
«Ogni anno in America danno un premio alla peggiore scena erotica di un romanzo. Se l’è aggiudicato gente come Norman Mailer o Philip Roth. Con il sesso, il vero rischio è di annoiare. Al cinema è lo stesso. E mi pare che molti registi se ne siano resi conto».
In che senso?
«Ci faccia caso: nei film vediamo sempre più spesso amplessi sbrigativi, un po’ violenti. Più che sul letto, si fa l’amore in piedi o su un tavolo. Tutto è pervaso da una certa urgenza. Secondo me è per paura di annoiare. Ma neanche così sei al riparo dal ridicolo».
Anche qui: a chi pensa?
«Prenda quel film di Cronenberg, che peraltro mi è piaciuto: A History of Violence. A un certo punto lui prende lei sulle scale dell’appartamento. Proprio sui gradini. Dev’essere doloroso per chi sta sotto. E perché non arrivare fino al pianerottolo? In fondo è lì, a pochi scalini di distanza. Farlo su una superficie piana non credo che nuocerebbe al desiderio...».
L’impressione è che lei veda più nuovi film di quanto non legga nuovi romanzi. È così?
«In effetti non leggo molto i contemporanei».
L’ultimo al quale si è dedicato?
«Karl Ove Knausgård. Lo presentano come il Proust norvegese. Ma non sono riuscito ad andare oltre le 150 pagine. Magari sono troppo poche per giudicare, visto che ne ha scritte più di tremila. Però dentro non ci ho trovato niente. Oggi si fa prestissimo a utilizzare la parola genio. Perciò mi dico: se a elogiare certi miei libri è un’epoca tanto mediocre e confusa, c’è da preoccuparsi. Forse anch’io scrivo volgarità».
Ripete spesso che si pubblicano troppi romanzi.
«Ci vendono come novità cose stravecchie. Il problema è che i lettori sono sempre più ignoranti di quanto si è scritto nel passato. Per quelli della mia generazione leggere tutto o il più possibile era necessario per non ripetere quanto era stato fatto in precedenza. Oggi quella preoccupazione sembra non esserci più. Spesso mi sorprendo a scoprire che certe cose tentate nei 70 già ritornano, e come novità. Quando mi dissero che l’ultima moda erano le saghe sui vampiri non ci credevo. Ancora?».
Quanto ci ha messo a finire questo libro?
«Circa tre anni, come sempre. Ma se le fa piacere posso essere più preciso. (Si alza e torna con una scheda manoscritta). Ho cominciato a lavorarci il 10 ottobre del 2011, però in quel mese ho potuto mettermi alla macchina da scrivere solo tre giorni. A novembre, un giorno. In dicembre, gennaio, febbraio, marzo, zero giorni... In tutto le giornate di scrittura sono state 360. Ma da quando ho iniziato a quando ho finito ne sono passate 880».
Tiene sempre questo tipo di contabilità?
«Mi dà sicurezza».
Perché continua a scrivere a macchina?
«Mi permette di controllare meglio la durata di una scena, di un dialogo. E mi piace correggere a penna. Dicono che perdo un sacco di tempo a rifare le pagine, ma così mi abituo a quello che ho scritto, posso approvarlo o bocciarlo con più lucidità».
In barba a qualsiasi correttezza salutista, continua non solo a fumare, ma a farsi fotografare con la sigaretta in mano.
«(Scrollata di spalle, come a dire Me ne frego)».
Quante ne fuma al giorno?
«Boh. Non tengo il conto».
Perché le tiene in un astuccio?
«Perché sui pacchetti ci sono ormai quelle foto orribili sui danni del fumo».
Come se la cava negli alberghi? Le stanze fumatori sono sempre più rare. O già occupate.
«Se ne trovano quasi solo negli hotel molto costosi o in quelli terribili. Le ultime volte che sono stato a Londra a spese della casa editrice, sono stato costretto ad andare al Ritz e al Savoy. Ovviamente ho messo io la differenza. Nessuno è obbligato a pagare i miei vizi».
Ora è in pausa o sta preparando un nuovo libro?
«Lavoro a una cosa, ma ancora non so se andrà avanti o abortirà».
Le capita spesso di abortire?
«No, ma finché non raggiungo il centinaio di pagine penso sempre che potrebbe succedere. Non mi considero uno scrittore professionista. Finito un libro, non sono mai sicuro che ne scriverò un altro».
Marco Cicala