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 2015  ottobre 05 Lunedì calendario

LE SETTE VITE DI MAS IL CATALANO L’INDIPENDENZA NASCONDE LA CRISI

Barcellona
C’è qualcosa che non quadra sino in fondo nella lettura che Artur Mas, il leader del partito autonomista nonché governatore catalano che ha vinto le elezioni del 27 settembre (pur senza raggiungere la maggioranza), fa della sua po-litica economica e delle misure di austerità applicate senza risparmio nei suoi cinque anni di presidenza. «I tagli non ci entusiasmano. Abbiamo realizzato solo quelli che ci sono stati imposti da Madrid», ha ripetuto ancora in questi giorni, nella prima intervista post-elettorale concessa all’emittente pubblica Catalunya Radio. «Abbiamo amministrato la situazione nella maniera più degna e con la maggiore sensibilità possibile dal punto di vista sociale». Sarà, però quando Mariano Rajoy ha preso le redini della Moncloa, facendo subito capire che non c’era alternativa alle ricette lacrime e sangue di Angela Merkel e della troika, Artur Mas era alla guida della Generalitat già da un anno. E non si può dire che avesse perso tempo. L’ex delfino del Molt Honorable Jordi Pujol (al vecchio presidente ora hanno tolto anche questo titolo, dopo che si è scoperto che per anni aveva occultato l’eredità paterna in conti esteri, ad Andorra) aveva conquistato nel 2010 il governo al terzo tentativo, presentandosi subito come “business friendly”. Ma il mondo degli affari, dal quale peraltro proviene – famiglia con interessi nell’industria tessile e metallurgica, il padre proprietario di una fabbrica di ascensori – ha sempre avuto ragione di dubitare della “amicizia” di questo politico nato come tecnocrate e diventato all’improvviso trascinatore di masse in doppiopetto. Mas dalle sette vite, si è detto. E in futuro scopriremo se non saranno otto, nove, o anche più. La prima, quella degli esordi alla gestione regionale dagli uffici dell’antico Palau de la Generalitat, la ricordano tutti come la tappa dei sacrifici, tanto che Mas è conosciuto come il vero inventore dell’austerità in Spagna. Una scure a tutto campo, dalla sanità agli stipendi dei funzionari, dalle sovvenzioni alle prestazioni sociali. Cominciò con la soppressione dell’universalità degli aiuti familiari per i figli minori di tre anni: ridotti solo ai casi di maggiore povertà. Per problemi di tesoreria, sospese per 15 mesi, fino al novembre scorso, le “prestazioni economiche vincolate al servizio”, sussidi previsti dalla legge sull’invalidità per pagare l’accesso a residenza private a quegli invalidi che non ottenevano un posto nelle strutture pubbliche. I funzionari dell’amministrazione chiedono ancora oggi la restituzione della “paga extra” natalizia soppressa nel 2012, che rappresentava il 7 per cento del salario annuale. I farmacisti vivono da quattro anni in una situazione di costante incertezza: non sanno mai se il Servicio Catalán de Salud pagherà a fine mese la fattura dovuta. Il problema si è ripetuto anche in quest’ultimo mese di settembre: la Generalitat accumula un debito di 236 milioni. Ancora nel campo sanitario, l’esecutivo varò a giugno del 2012 la tassa di un euro per ogni ricetta medica. Un anno fa il Tribunale Costituzionale la dichiarò illegittima e 300mila persone ne chiedono ancora la restituzione. Nei tempi più duri della crisi, si decise anche il blocco del turn over per i dipendenti pubblici, e un aumento delle tasse universitarie che in cinque anni ha sfiorato il 50 per cento. Non stupirà perciò che, nel giorno in cui il Parlament si apprestava ad approvare il bilancio del 2012 – erano i tempi in cui i nazionalisti di Mas flirtavano ancora con i socialisti e il Pp – un gruppetto di scalmanati della sinistra radicale tentò di dare l’assalto alla sede della sovranità popolare, con l’inconsueta scena di deputati costretti a raggiungere in elicottero l’edificio del Parc de la Ciutadella. Fu a quel punto probabilmente che il governatore capì che era arrivato il momento di cambiare completamente registro. C’era la scusa di una sentenza del Tribunale costituzionale che aveva bocciato in parte il nuovo testo dello Statuto regionale già sottoposto a referendum, cosa che aveva cominciato a scaldare gli animi del movimento indipendentista fino ad allora minoritario. Mas fece un ultimo tentativo, con incontri prima segreti e poi uno pubblico con Rajoy alla Moncloa: chiedeva per la Catalogna un pacto fiscal, in sostanza la possibilità di riscuotere direttamente le imposte dei cittadini. A fronte del prevedibile “no” del premier, partì la sfida che ci ha portato fino alle tensioni e all’incertezza odierna. Una svolta che contraddice le riflessioni che faceva nel saggio “Qué piensa Artur Mas?”, pubblicato nel 2002, poco prima che Pasqual Maragall lo sconfiggesse nel suo primo tentativo di dare l’assalto alla Generalitat: “L’indipendenza è un concetto antiquato e ossidato”, diceva allora. “Scommetto su una Spagna plurinazionale”. E ancora nel 2009 insisteva: “Non voglio un referendum: evidenzierebbe che la Catalogna vuol essere spagnola”. E invece, da un giorno all’altro, si trasforma nel più indipendentista tra gli indipendentisti. E a quel punto la svolta politica - in un crescendo che va dal “dret a decidir”, il riconoscimento del diritto di autodeterminazione, al tentativo di organizzare un referendum fino all’attuale promessa di costruire entro 18 mesi le strutture di un nuovo Stato indipendente porta con sè anche una giravolta sul piano economico. Perché già dalle elezioni anticipate del 2012, quando ha bisogno dell’alleato di sinistra Esquerra Republicana per formare il governo - Mas si scopre sensibile ai temi sociali. Il politico laureato in scienze economiche, che agli esordi faceva parte di quelli che venivano definiti come Jasp (jóvenes aunque sobradamente preparados, giovani ma molto preparati) e che nella sua prima legislatura di governo sfoderò una delle sue tradizionali metafore nautiche – “il mare è incerto, ma dobbiamo tenere ben saldo il timone” – per spiegare la sua politica di austerità, mesi fa ci ha spiegato l’ultimo rimpasto dell’esecutivo con l’intenzione di “situare la giustizia sociale nel frontespizio della politica”. Intento in apparenza lodevole, che viene raccolto ampiamente anche dal programma elettorale della coalizione Junts pel Sí, il listone pro-indipendenza che ha vinto le elezioni del 27 settembre scorso. Aumentare la spesa sociale dal 23 al 30 per cento del Pil, semplificare la struttura impositiva, ridurre l’Irpef (attualmente la Catalogna è la regione che ha le aliquote più alte), abbassare l’Iva su una serie di prodotti di largo consumo e incrementarla su alcuni beni di lusso. Garantire la copertura di prestazioni pubbliche universali e gli aiuti per le mense nelle scuole dell’obbligo agli alunni in situazione di difficoltà. E ancora portare gli investimenti nel settore dell’educazione al 6 per cento del Pil, un punto in più rispetto alla spesa attuale. O addirittura approvare un reddito di cittadinanza, nella linea di quanto proposto dalla formazione anti-casta di Podemos. Una batteria di misure che potranno essere portate a compimento solo a una condizione: che la Catalogna possa dotarsi di una “struttura di Stato”, in altre parole che riesca a proclamarsi indipendente. Il problema è che, se lo farà in modo unilaterale, scegliendo la via dello scontro, avrà ben altri grattacapi da affrontare: dalla restituzione del debito al pagamento delle pensioni alla capacità di finanziarsi sui mercati. Il mondo dell’imprenditoria, per ora, non sembra crederci molto: dall’inizio dell’anno gli investimenti esteri in Catalogna sono aumentati del 290 per cento.
Alessandro Oppes, Affari&Finanza 5/10/2015