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 2015  ottobre 03 Sabato calendario

PURTROPPO QUESTA VOLTA È DAVVERO FINITA


Chi ha detto «Se non sai dove stai andando, potresti finire da qualche altra parte»? O «In teoria non c’è differenza fra la teoria e la pratica. In pratica, sì»? O, parlando di un ristorante, «Non ci va più nessuno. È troppo affollato»? O «Tagliami la pizza in quattro tranci. Non penso di poterne mangiare otto»? E forse è stato Mark Twain a capire che «Il futuro non è più quello di una volta»; Groucho Marx a intimare «Quando arrivi a un bivio, prendilo»; Woody Allen a raccomandare «Bisogna sempre andare al funerale degli altri. Altrimenti non verranno al tuo».
Invece no. Questo piccolo florilegio di aforismi fra il surreale e l’abissalmente profondo, il mistico e il nonsense, si deve a uno che è stato tre volte Mvp dell’American League, 18 volte all’All Star-Game in 19 anni, e 10 volte campione del mondo con i New York Yankees. Che è considerato fra i tre migliori catcher della storia del baseball. Che smesso di giocare, dopo aver collezionato i 358 fuoricampo e aver portato a casa i 1.430 run grazie ai quali lo hanno eletto alla Hall of Fame, ha allenato ed è stato manager della sua vecchia squadra e dei New York Mets (vincendo altre tre World Series). Che è, insieme, un’icona e una grande storia americana – nella stessa categoria dei Babe Ruth e dei Joe DiMaggio.
Quando Yogi Berra è morto, la settimana scorsa, a 90 anni, tutti gli articoli che gli sono stati dedicati sono andati ben oltre la sua biografia sportiva. C’è molto di più dei record e delle statistiche nella vita di uno che ha dato il nome all’Orso Yoghi (Yogi Bear, un’ovvia assonanza). Molto di più degli aneddoti di una carriera lunga 43 anni. Molto più delle foto storiche.
Figlio di due emigrati che venivano da Malvaglio, Milano, e si erano stabiliti nella Little Italy di St. Louis, Missouri, Berra è nato Lorenzo Pietro (come diceva il passaporto, e soltanto quello). È stato chiamato Lawrence, o Larry, fino a quando ha cominciato a giocare a baseball con l’American Legion, in una squadra di adolescenti. Il suo amico Jack Maguire, cresciuto con lui e poi anch’egli giocatore professionista, gli diede il nome Yogi dopo aver visto un cortometraggio sull’India al cinema: in attesa di andare in battuta, Berra si sedeva con le gambe incrociate nella posizione del loto. Naturalmente, Yogi non sapeva nulla di yoga. Alle medie era scappato da scuola: voleva solo giocare a baseball. «Se non ce l’avessi fatta nel baseball», avrebbe detto quando era ormai diventato uno dei più riconoscibili nomi d’America, «non so cosa avrei fatto: non mi è mai piaciuto lavorare». Si sarebbe guadagnato da vivere scrivendo battute. Anche se molte attribuzioni sono incerte: come lui stesso ha ambiguamente ammesso in una delle sue biografie, «Per la verità, non ho mai detto tutto quello che ho detto». E una delle più famose («Non è mai finita fino a che è finita») si è affinata nel tempo: in origine era «Non sei mai eliminato fino che sei eliminato», di lì a poco si è trasformata in «La partita non è mai finita fino a che è finita», per poi prendere la sua forma definitiva.
Per definirle è stata coniata una nuova parola, Yogi-ismo. A volte la gente gli chiedeva di inventarne una lì, su due piedi: «Non so farle a comando», rispose. «Non me ne rendo conto nemmeno quando le faccio. Ma sono la verità. È davvero così. Non so».