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 2015  ottobre 04 Domenica calendario

SENZA LEGGE REZZA LA LEGGE NON SI LEGGE

Intelligenza, intelletto: la nostra comprensione delle cose rimanda a un atto di lettura. Intelligere significa «leggere dentro» ( intus legere ); e l’intelletto si nutre per l’appunto di ciò che abbiamo letto. Ma il leggere evoca poi la leggerezza, e non si tratta soltanto d’un gioco di parole. C’è forse qualcosa che sia più leggero d’uno sguardo? Quando l’occhio s’invola sopra le righe incolonnate della pagina, quando saltella fra i capoversi e le maiuscole, è come se osservasse il mondo dall’alto di un’astronave. Il nostro sguardo non può toccare la materia, può solo sfiorarla, perlustrarla dal di fuori. E a loro volta le parole non sono che suoni, sono entità incorporee, inconsistenti. Dunque la lettura consiste nell’incontro fra due esperienze immateriali — le parole e gli sguardi — con cui si manifesta tuttavia la materialità dell’esistenza.

Nessuno meglio di Italo Calvino ha saputo indagare la categoria della leggerezza. Nella prima delle sue Lezioni americane evoca il mito di Perseo: «Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio». Anche la parola, né più né meno dell’immagine, è uno specchio del mondo, una superficie riflettente. Ma questa superficie può apparire levigata come certi cristalli o all’opposto scabra e irregolare. Dipende da chi legge, dipende soprattutto da chi scrive. Quando la scrittura s’incurva sotto il peso della realtà che vuol raffigurare, ogni giro di frase diventa una fatica per chi deve assorbirne il senso attraverso la lettura, diventa uno sforzo, un peso. La leggerezza del leggere si converte nella pesantezza del comprendere.
Ancora Calvino: esistono due vie, due vocazioni opposte, con cui la letteratura si rapporta con il mondo; e queste vie furono aperte, rispettivamente, da Cavalcanti e Dante. «L’una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d’impulsi magnetici; l’altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni». Questa differenza attiene tuttavia al registro linguistico di cui si serve lo scrittore, non alla qualità della scrittura. Perché scrivere è un parto, e si partorisce sempre con dolore. Ma chi sa scrivere risparmia ai suoi lettori le pene che ha dovuto attraversare prima d’indovinare il timbro giusto, l’immagine felice, la parola più azzeccata. Chi invece non sa farlo scarica le proprie doglie su chi legge, sicché la pagina finisce per unire il lettore e lo scrittore in una comune sofferenza.
In questo senso la buona scrittura, dalla quale scaturisce poi una buona lettura, è sempre leggera, aerea. Scrivere è sottrazione di peso, e infatti uno scrittore si distingue dal suo cestino dei rifiuti. Scrivendo, espelli verso il fuori il vortice d’idee che ti frulla nel di dentro, ma quando l’hai fissato sulla carta devi poi limare, cancellare, devi impugnare un paio di forbici da pota. Perché il primo aggettivo che stai adoperando è quasi sempre pure il più banale, è una parola resa logora dall’uso. E perché in genere gli aggettivi sono troppi, oppure si ripetono rendendo inelegante il tuo fraseggio. Ma la prima bonifica devi farla su te stesso, e devi farla prima ancora di cominciare a scrivere. Devi liberarti dall’erudizione che appesantisce il pensiero, che zavorra la fantasia. Devi conoscere ciò di cui stai parlando, ma al contempo devi essere capace di dimenticarlo, d’ignorare quanto già conosci. Altrimenti sarai un megafono di cose risapute, e il megafono è una fonte di rumore, è peso sonoro che sovrasta gli altri suoni. Per attingere alla levità bisogna tornare un po’ bambini.
Insomma, anche la leggerezza ha le sue leggi. Toh, la legge. Con questa parola sbuca fuori l’ennesima assonanza, ancora un frutto verbale che sgorga dalla medesima radice semantica. Dunque intelligenza, intelletto. E poi leggere, leggerezza, legge. Ma si può mai leggere una legge leggera? Nella percezione comune la risposta è negativa. Ogni legge ha un che di greve, che a sua volta grava sulle nostre vite. Senza, saremmo liberi come pesci, come uccelli, anche se in balia dei predatori. Giacché il diritto è l’armatura che protegge i deboli, ma quell’armatura ha lo stesso peso dei metalli. Dura lex sed lex , dicevano i Romani. C’è infatti rigidità in qualsiasi regola giuridica, c’è una scorza dura e spessa che racchiude dentro di sé le norme, e ne impone l’osservanza. Giudici e prefetti, poliziotti e secondini: ecco la corazza del diritto. Perciò quest’ultimo è un corpo solido, possente. Perseo abita altrove, nella mitologia giuridica c’è posto soltanto per la Medusa.
Eppure anche le leggi sono fatte di parole; anch’esse vengono scritte per essere poi lette. Non a caso l’interpretazione letterale costituisce il primo canone ermeneutico, nonché l’unico da cui non si può mai prescindere. E allora per quale ragione la leggerezza dello scrivere e del leggere non si comunica alla lingua del legislatore? Diciamo innanzitutto che esistono eccezioni. Fu tale, per esempio, il code Napoléon del 1804, tanto che Stendhal ne rileggeva gli articoli per trarne ritmo ed eleganza narrativa. È tale la Costituzione italiana del 1947, o quantomeno la sua versione originaria, prima che una pioggia acida di revisioni ne deturpasse l’aspetto. D’altronde quel testo venne sottoposto — alla vigilia del voto finale — alle cure di tre letterati: Concetto Marchesi, Pietro Pancrazi e Antonio Baldini.

Ma queste due sono eccezioni, non la regola. È regola viceversa lo stile ampolloso e burocratico col quale il nostro legislatore ci somministra i suoi precetti. È regola il labirinto di rinvii, di citazioni, di riferimenti ad altre leggi che copre la superficie d’ogni legge. Nel grafico qui sopra ve n’è un esempio, accompagnato dalla traduzione delle parole del diritto in parole comprensibili ai comuni mortali. Diceva Calvino: «La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso». Aveva ragione, ma rispetto alle leggi aveva torto. Perché è il caso della vita che illumina di significati l’astratta previsione della legge. E perché la mania dell’esattezza falsa la lingua legislativa, genera equivoci, confonde i cittadini. In letteratura la leggerezza è precisione; nel diritto sta nell’allusione.