Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  ottobre 04 Domenica calendario

C’ERA UNA VOLTA L’ARCHITETTURA RADICALE DEL SUPERSTUDIO

Qual è il confine che divide arte e architettura? E quando questi due linguaggi sono entrati in rotta di collisione allo scopo di elaborare oggetti e progetti ibridi, privi di un’identità precisa? Le risposte a queste domande non possono che rintracciarsi sul finire degli anni ’60, in un’epoca storica dominata dai forti cambiamenti e dalla spinta verso l’utopia. Forse perché oggi viviamo tempi molti diversi, oppure perché attraverso il web possiamo ipotizzare altri mondi rispetto al presente, arte e architettura di quasi mezzo secolo fa sono tornate di gran moda.
Eccoci dunque ad assistere alla celebrazione museale, contraddittoria rispetto alle origini, di Superstudio, il primo gruppo di architettura radicale sorto a Firenze nel 1966 e attivo fino al 1978. La mostra Super Superstudio, che apre al Pac di Milano il 10 ottobre per chiudere il 6 gennaio, ripresenta dunque l’attività di tali antesignani che gli esperti dicono aver influenzato l’estetica di mostri sacri come Zaha Hadid, Rem Koohlas e Bernard Tschumi, convinti anche loro che il progetto teorico sia molto più importante della costruzione finita. Ciò che divide oggetti di design, installazioni, progetti e materiali vari dall’opera d’arte vera e propria è davvero labile, e infatti i curatori Andreas Angelidakis, Vittorio Pizzigoni e Valter Scelsi, hanno deciso di ambientare l’attività di Superstudio, a cominciare dal lavoro più famoso, Movimento continuo, in dialogo con 19 artisti contemporanei, e tra questi Paola Pivi, Patrick Tuttofuoco, Pae White e Pablo Bronstein.
Nel 1966, poco prima della nascita dell’Arte Povera, si definisce il concetto di architettura radicale, fatta non tanto di proposte quanto di premonizioni, domande e oggetti, celebrata con la mostra Italy. The New Domestic Landscape al Moma di New York nel 1972. Fondato a Firenze da un gruppo di giovani architetti – Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo di Francia, Gian Piero Frassinelli, Alessandro Magris e Alessandro Poli - Superstudio partecipa alla Biennale d’arte del ’78, proprio a sottolineare la voluta confusione tra i due linguaggi. Disegno unico, Dodici città ideali, la serie di film Atti fondamentali sono alcuni dei progetti esposti, in cui si nota l’uso di materiali tipici dell’arte concettuale, la fotografia, il collage, la scritta didascalica. Un’idea di architettura liquida, al passo coi tempi ma oggi certamente residuale, nonostante l’indubbio sapore vintage. Quella di Superstudio era una strategia che mirava a dare all’utopia un valore concreto; la sua visione di città, ad esempio, è poco tranquillizzante e serviva a descrivere società diverse rispetto a quelle in cui si viveva allora. L’idea forte era abitarle in maniera collettiva, giusto per coltivare lo spirito freak dei ’60, e il monumento non era che un elemento simbolico spesso accostato a scenari bucolici.
Si diceva dunque di certo revival del radicalismo, forse una necessità visto che molte urgenze sono sparite dal radar della cultura presente. Oggi l’architettura non parla di utopia, non svolge un ruolo rabdomantico, almeno in Occidente, nei confronti della società. C’è chi vede in gruppi come Superstudio – ma anche Ufo di Lapo Binazzi o Archizoom - l’ultima scintilla di un pensiero italiano portatore di una visione di profonda rottura antiaccademica e aformale, nell’attuale davvero impraticabile. Tale concetto viene spiegato esaurientemente nel recente saggio di Andrea Branzi, Una generazione esagerata (Baldini & Castoldi). «L’Italia - dice Branzi - è l’unico Paese europeo che non ha mai fatto una rivoluzione: per questo motivo ha maturato una grande abilità nell’arte di gestire le proprie contraddizioni, senza risolverle mai completamente. Così la categoria dell’esagerazione è diventata una strategia utile a dilatare, senza arrivare mai al punto di rottura, la convivenza conflittuale tra le parti sociali, tra la propria storia e il proprio presente».
Affascinata da questa avventura, una piccola minoranza di architetti prese il nome di radical, iniziando a usare il conflitto non in chiave ideologica ma come tema figurativo, descrivendone gli effetti sulla cultura del progetto. Elementi che hanno nutrito arte e architettura in eguale modo. Per questo vedere la mostra di Superstudio è come fare un tuffo in un’epoca lontana di visionari, sognatori, ribelli velleitari.