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 2015  ottobre 04 Domenica calendario

«FARE LO CHEF È UNA COSA SERIA IN TELEVISIONE NON CUCINEREI MAI»

[Massimiliano Alajmo] –
«L’elemento fondamentale è l’acqua. Ma non pensi soltanto a quella della bottiglia o di rubinetto. Provi a pensare all’acqua contenuta in una pesca o in un pomodoro. Pensi all’acqua che c’è dentro a ogni ingrediente. Immagini una sorta di meccanismo nascosto capace di diluire o di potenziare la materia: una crema, una salsa, una fetta di pane».
Lo chef padovano Massimiliano Alajmo, 41 anni nel 2002 il cuoco più giovane della storia a ottenere la terza stella Michelin è uno dei premiati della 34 esima edizione del Premio Masi, assegnato dalla famiglia Boscaini che presiede l’azienda della Valpolicella (nel Veronese) famosa nel mondo per il vino Amarone a personalità che si sono distinte per particolari meriti nei propri ambiti.
Chef Alajmo, la prima cosa che le viene in mente se le dico «Amarone»?
«Facile: un gusto molto amaro. Anzi, un sapore molto amaro».
Da abbinare a cosa?
«Alla selvaggina. A una lepre».
E se le chiedessi di inventarsi su due piedi un abbinamento inedito?
«Assocerei l’Amarone a una barbabietola affumicata con una crema acida e delle erbe aromatiche».
Un piatto che non si prepara proprio tutti i giorni...
«Ma guardi che non l’ho mai fatto nemmeno io. L’idea mi è venuta al momento. Bisogna lasciar correre la fantasia».
È questo l’elemento chiave della sua cucina?
«Anche, ma non solo. Mi baso sul concetto di fluidità, che racchiude la leggerezza, la profondità e la liquidità. Mi faccia specificare una cosa però...».
Prego.
«La leggerezza,permeeper il mio staff naturalmente, non è una semplice caratteristica esterna. È più una via per raggiungere il famoso sesto senso. Leggerezza significa poter assimilare un cibo che non appesantisca e che allo stesso tempo apra la mente, che stimoli l’immaginazione».
Ma a casa, quando ha fame, uno chef stellato se lo fa il classico panino con la sottiletta?
«Io no, mai. È come se le chiedessi di scegliere tra una rivistina frivola e un romanzo d’autore. Poi, per carità, se sto morendo di fame ed è l’unica cosa che ho nel frigorifero...».
A proposito, nel suo cosa non deve mai mancare?
«La corrente».
Ok, ma dopo che ha attaccato la spina?
«L’acqua, o la frutta. Anche se del frigorifero farei volentieri a meno».
Lei ha tre figlie. Al papà chef chiedono la classica pasta al ragù oppure sono esigenti?
«Se non gli preparo almeno una volta al mese il risotto allo zafferano e liquirizia sono dolori. Pensi che una volta, dato che in casa non c’era più liquirizia, l’ho dovuto cucinare con la polvere di
carbone».
Che di solito si dà ai bambini cattivi...
«Infatti facevano a gara a chi lo era stata di più: il risultato era stato soddisfacente».
C’è un piatto che ancora fatica a cucinare?
«L’impegno e la concentrazione devono sempre essere altissimi. Non ce n’è uno in particolare, perché a tutti dedico la stessa cura. Serve umiltà».
Cambiamo argomento. In tivù non la si vede quasi mai, eppure di richieste gliene saranno arrivate parecchie.
«Bisogna distinguere lo show dalla professione. Il nostro non è un mestiere che si fa in televisione. Non ho il tempo di guardare certi programmi. Creano false aspettative, soprattutto nei giovani. Il fatto che ci siano sempre meno ragazzi che si dedicano alle scienze mediche e sempre di più che tentano la strada della gastronomia deve far riflettere».
Quindi per lei queste trasmissioni sono negative?
«Non dico questo. E voglio precisare che in alcune ci sono dei bravissimi colleghi. Però la stragrande maggioranza di quei ragazzi che vogliono fare gli chef perché ammaliati dalla televisione, alla prima difficoltà, e ce ne sono ogni giorno in questo mestiere, lasciano».
Lei viene da una famiglia di ristoratori. Da Sarmeola di Rubano, dove ha sede «Le Calandre», cuore pulsante della sua attività, è arrivato ad aprire locali a Venezia e a Parigi. Qual è l’obiettivo dei prossimi dieci anni?
«Conoscere il cibo sempre meglio. Sprofondare in una ricerca approfondita. Continuare a estrarre dalla materia senza aggiungere. Cercare di restituire il più possibile alla terra e agli ingredienti il rispetto che meritano».