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 2015  ottobre 04 Domenica calendario

PASSA L’ARTICOLO 2 DELLA RIFORMA DEL SENATO. IN ARRIVO UN MUCCHIO DI VOTI SEGRETI E ALTRI 300 MILA EMENDAMENTI DI CALDEROLI

ROMA Al «giro di boa» della riforma costituzionale – il cui articolo 2 disegna il Senato dei 100, eletti a partire dal 2018 «quasi direttamente» dai cittadini ma prima di quella data designati dai consigli regionali – la maggioranza arriva con 160 voti. Uno in meno dell’autosufficienza, fissata a quota 161.
E così dalle votazioni sull’articolo 2, appena approvato, emergono dati non trascurabili. Il Pd registra 4 assenti giustificati e tre dissidenti dichiarati (Casson, Mineo, Tocci), il Nuovo centrodestra di Alfano ha smarrito per strada 7 senatori (Azzollini, Colucci, Compagna, Di Giacomo, Esposito,Giovanardi, Mancuso) che il capogruppo Schifani ritiene «assenti giustificati e annunciati». I verdiniani dell’Ala hanno detto sì in 10 su 12 (Barani e Amoruso assenti) e lo stesso Denis Verdini non ha partecipato allo scrutinio sul V comma dell’articolo 2. Dunque, i 177 voti toccati appena due giorni fa dalla maggioranza al Senato si sono ridotti a 16o.
Un numero, 160, che piace al capogruppo di Forza Italia, Paolo Romani, perché gli permette di dire che «senza il contributo determinate dei 10 verdiniani (suoi ex compagni di partito, ndr ) il governo non ha la maggioranza». E quota 160 consente a Miguel Gotor di rivendicare la lealtà della minoranza dem, per il momento in regime di tregua con Renzi, che ha votato compatta con tutto il gruppo: «Pensare di sostituire noi con Verdini e gli amici di Cosentino è velleitario», insiste Gotor. Perfida Loredana De Petris (Sel) che non perdona alla minoranza dem di aver ceduto: «È vero, il gruppo del Pd si è ricompattato e, nel solco della migliore tradizione stalinista, ha fatto parlare per le dichiarazioni di voto gli stessi colleghi che inviavano sms a tutti noi per organizzare le strategie in commissione». Aggiunge Cinzia Bonfrisco (Conservatori e riformisti): «Con l’articolo 2 si è chiuso il congresso del Pd». Quello dell’articolo 2 – 100 senatori che saranno così assortiti: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci, 5 a vita nominati dal capo dello Stato – è ormai un capitolo chiuso. Ma tra lunedì e il 13 ottobre (giorno in cui è prevista la votazione sull’intero testo) se ne apriranno altri.
Il primo scoglio è l’articolo 6 (regolamenti delle Camere) sul quale le opposizioni chiederanno altri voti segreti; poi arriva l’articolo 10 (procedimento legislativo) sul quale insistono i 370 mila emendamenti di Roberto Calderoli (Lega). Si passerà oltre all’articolo 21 (quorum per l’elezione del presidente della Repubblica) e al 36 (elezione dei giudici costituzionali).
Infine c’è il macigno della norma transitoria (articolo 39). Che fa la differenza dopo l’introduzione dell’elezione «quasi diretta» dei senatori cristallizzata nel lodo Finocchiaro. Nel testo, al VI comma dell’articolo 39 c’è scritto che la legge applicativa capace di far funzionare l’elezione quasi diretta dei senatori «è approvata entro sei mesi dalla data di svolgimento delle elezioni della Camera dei deputati». Cioè, a scadenza, a novembre del 2018.
E questo vuol dire (comma 1 dell’articolo 39) che in «sede di prima applicazione» saranno i consigli regionali in carica (a maggioranza di centrosinistra tranne in Liguria, Lombardia e Veneto) ad eleggere al loro interno i nuovi senatori. Così, almeno fino a all’autunno 2018, con la riforma Renzi-Boschi non ci sarà l’elezione dei senatori fatta «in conformità alle scelte espresse dagli elettori».
Sull’articolo 39, allora, si potrebbe ricostituire un fronte comune tra le opposizioni e la minoranza Pd: per far scrivere nella riforma che la legge attuativa per eleggere il nuovo Senato venga approvata ben prima del 2018. Magari «entro sei mesi» dall’approvazione dell stessa riforma costituzionale. Anche perché a ottobre del 2017 scade l’assemblea siciliana, a febbraio del 2018 quelle del Lazio, della Lombardia e del Molise. E sempre nel 2018, ad aprile va a casa il consiglio in Friuli Venezia Giulia, a maggio in Val d’Aosta, a ottobre in Trentino Alto Adige, a novembre in Basilicata. E se la leggina non è pronta addio alle «scelte espresse dagli elettori».