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 2015  ottobre 04 Domenica calendario

LA FOTO DEL PADRE CHARAMSA, IN CLERGYMAN E COL SUO UOMO CHE GLI METTE UNA MANO SULLA SPALLA, FA IL GIRO DEL MONDO. IL PADRE, A ROMA, PARLA ANCORA CON I GIORNALISTI E DEFINISCE QUELLA DELLA CHIESA UNA «PARANOIA OMOFOBICA»

ROMA Monsignor Krzysztof Charamsa è in piedi di fronte a un gruppetto di fotografi e giornalisti in un ristorante romano a due passi da Piazza del Popolo. Parla insistendo sulle parole e muovendo le braccia come chi è abituato a predicare da un pulpito.
Dice parole inimmaginabili nella vicinanza di qualsiasi pulpito. «Io devo chiedere perdono ai fratelli e sorelle omosessuali, lesbiche, bisessuali, transessuali e intersessuali – afferma —: lo faccio per quanto posso come povero membro della Chiesa cattolica a nome di questa comunità di fede. Vi chiedo perdono per i ritardi epocali, per le vostre sofferenze, per la vostra esclusione. Vi chiedo perdono che vi abbiamo reso lebbrosi del nostro tempo, che chiedono misericordia per essere toccati da Gesù, da Dio. Chiedo perdono anche a nome mio, per ogni momento del mio sofferto silenzio tra le mura della congregazione per la Dottrina della fede, quando ero testimone di una esasperata paranoica omofobia», dichiara nel silenzio interrotto solo dai clic ripetuti delle macchine fotografiche.
Insiste sulla «esasperazione» che lo ha convinto «a parlare di ciò che ho vissuto tra le mura del Santo Uffizio, cuore di omofobia irrazionale», e a «uscire dall’armadio», come ripete più volte in una letterale e buffa traduzione dell’espressione inglese «coming out of the closet», «dichiararsi gay». Infine il suo coming out lo dedica «alla persona che amo, al mio Eduard». Lo chiama («vieni qui») e aggiunge: «Senza di lui non avrei saputo come trasformare la mia paura nella forza dell’amore. E lo dico come sacerdote cattolico innamorato di un uomo».
Eduard Planas, un bell’uomo di 44 anni, catalano, atterrato a Roma soltanto il giorno prima da Barcellona, fa un passo avanti e gli posa una mano sulla spalla.
Per altri dieci minuti il Monsignore ufficiale della Congregazione della Dottrina della Fede, segretario ufficiale della Commissione teologica internazionale vaticana continua a scandire il suo «manifesto di liberazione» per i gay cattolici con un altro uomo stretto al suo fianco. Non c’è più spazio per le argomentazioni lucide e razionali con cui il giorno prima ha spiegato al Corriere le ragioni del suo coming out, il tono si scalda sempre più, le risate nervose si alternano agli slanci, la fronte gli si imperla: sembra che faccia fatica a trattenere qualcosa di troppo grande e doloroso per poter essere sostenuto a lungo.
L’immagine sconcertante del sacerdote in clergyman accanto a un altro uomo fa subito il giro del mondo, ma per lui quel gesto è soltanto la conseguenza logica e necessaria di un «cammino spirituale e personale» iniziato anni prima, quando ancora seguiva e argomentava nei suoi numerosi articoli teologici la dottrina della Chiesa che condanna l’omosessualità come un «disordine intrinseco», cercando di «convincermi della sua validità». Charamsa è arrivato a piedi accompagnato da Eduard dal bed and breakfast in un quartiere di immigrati in cui avevano cercato una sistemazione (lui normalmente vive in un convento), dopo una mattinata iniziata «con il segno della croce». Non ha letto i giornali, solo qualche titolo sul telefonino, né ha guardato la televisione («non ce l’ho»). Non ha ricevuto telefonate ufficiali dalle istituzioni vaticane. Così scopre dai cronisti che il Vaticano ha annunciato la sua rimozione da tutti gli incarichi ufficiali. Non sa ancora che Ryszard Kasyna, vescovo di Pelplin (Polonia), colui che dovrà materialmente sospenderlo dal ministero sacerdotale, gli ha chiesto di «tornare sulla via del sacerdozio di Cristo» e di rinunciare alle sue affermazioni «contrastanti con le Sacre Scritture e il magistero della Chiesa cattolica».
Solo quando l’assalto delle domande si fa insopportabile e sale sulla macchina che lo porta via, cede alle lacrime: «Sono una persona anch’io», mormora mentre Eduard lo stringe. Eppure sembra che si sia finalmente liberato da un peso. «Era tanto che volevo farlo, ma non mi decidevo mai a scrivere la prima mail, perché sapevo che da quel momento sarei stato fuori dalla Chiesa. Molti mi hanno chiesto del celibato, perché non ho lasciato prima visto che ho un compagno – aggiunge —. Ma come avrei potuto affrontare tutto questo da solo?». Eduard lo guarda e aggiunge: «Quando l’ho conosciuto era morto di paura».
Il pomeriggio Charamsa avrebbe voluto visitare il convegno organizzato dalla rete degli omosessuali cattolici, il Global Network of Rainbow Catholics, ma quando la macchina si avvicina all’edificio che lo ospita, la ressa di giornalisti e fotografi lo convince a proseguire oltre: «Non voglio suscitare altro clamore – spiega —. Spero soltanto che il Sinodo si confronti sulla questione dei credenti gay e delle loro famiglie. Se ho deciso di parlare adesso è perché temevo che non sarebbe accaduto: la questione era sparita da qualsiasi dichiarazione ufficiale. Invece è fondamentale che la Chiesa quando parla di famiglia prenda in considerazione tutte le famiglie che esistono nella nostra realtà».
Siamo alla fine. «Adesso voglio solo stare un po’ tranquillo». Dice che la sua più grande preoccupazione, ora, è riuscire a far stare le sue cose in due valige prima di lasciare le stanze nel convento romano dove vive: «Prenderò quello che riesco, il resto lo lascerò alle suore: ho già il biglietto per Barcellona. Poi lì mi cercherò un lavoro».