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 2015  ottobre 03 Sabato calendario

APPUNTI SU PEEPLE PER IL FOGLIO ROSA


DAVIDE CASATI, CORRIERE DELLA SERA 3/10 –
L’inferno dei viventi, se ce n’è uno, è forse quello in cui chiunque possa giudicare il prossimo, non solo nell’universo finito della sua scatola cranica, ma in quello sterminato di Internet. Ad avvicinarci a questo inferno potrebbe essere un’app, Peeple, che permetterà di fare quel che pensavamo di non poterci più permettere una volta passata l’adolescenza: dare voti (da una a 5 stelle) ad altri esseri umani. Non è ancora disponibile (lo sarà, forse, entro due mesi), ma è già stata valutata (7,6 milioni di dollari) e – scrive la Bbc – «ha già scatenato un putiferio»: molti l’hanno definita «terrificante».
Come funzionerà? Semplice: se si conosce il numero di telefono di una persona, si potrà inserire il suo nome nell’app; e altri – se iscritti a Facebook, e maggiorenni – potranno darle valutazioni e scrivere giudizi: professionali, personali, affettivi, estetici. Qualunque giudizio. Come a una camera d’albergo, a un ristorante, a un libro.
Certo, le ideatrici dell’app (Julia Cordray e Nicole McCullough) hanno pensato a dei «freni»: i commenti positivi saranno subito visibili, quelli negativi rimarranno fermi 48 ore, lasciando all’autore la possibilità di ripensarci. Poco conta, e per capirlo basta ascoltare quanto ha detto Cordray: «Ogni volta che compriamo una macchina o prendiamo simili decisioni, facciamo un sacco di ricerche. Perché non farlo per altri aspetti della vita?».
Immaginate tutto questo: fatelo, per un secondo. Lo sentite, quel brivido lungo la schiena? Cordray – che sul suo profilo Linkedin sostiene di essere eccezionalmente brava nel campo delle risorse umane, e non trova parole migliori per farlo che queste: “So vendere le persone” – l’ha provato nei giorni scorsi: presa di mira da attacchi (alcuni violenti) in Rete, è arrivata a chiedere in un post come impedire alle persone di lasciarle commenti così negativi. Ma, imperterrita, ha assicurato che l’app vedrà la luce. Nonostante i problemi di privacy, in grado di dare lavoro a schiere di avvocati; la mercificazione implicata dalla parificazione tra una persona e un piatto di tagliolini; la vertiginosa presunzione nascosta nell’idea di poter giudicare chiunque, e poter diffondere quel giudizio. Nonostante l’inferno, reale, che in migliaia associano alla parola bullismo.

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FABIO CHIUSI, LA REPUBBLICA 3/10 –
E se il prossimo Facebook fosse un’applicazione per valutare gli esseri umani? Sì, proprio come si fa per i ristoranti con TripAdvisor.
In rete sono molti a porsi la domanda da quando si vocifera il lancio, a fine novembre, Peeple, una app per smartphone che consente a chiunque di giudicare il prossimo, in una scala da zero a cinque stelle, dal punto di vista personale, professionale e sentimentale. Con buona pace della privacy.
L’idea, per la verità, non è particolarmente nuova: già nel 2011 un sito come ExRated.co invitava gli utenti ad assegnare un valore alle proprie vecchie fiamme. Ancora prima, FaceTheJury. com dava l’opportunità a chiunque di esporsi al giudizio della rete.
Quanto allo slogan di Julia Cordray, una delle due co-creatrici, che definisce Peeple «uno Yelp per le persone» – Yelp è un’altra app che come TripAdvisor raccoglie giudizi sui locali pubblici – in fondo è lo stesso adottato dai reporter che, cinque anni fa, davano notizia della startup Varnished: «Uno strumento online per costruire, gestire e cercare reputazione professionale».
Eppure nessuno dei precedenti ha scatenato il coro di critiche e preoccupazioni levatosi in queste ore dai social media. Prima di tutto, perché nessuno ne serba memoria. E poi perché i problemi che si possono ragionevolmente dedurre da un’idea simile – trasformare la propria reputazione, e potenzialmente la propria autostima, in una somma di giudizi della folla online – restano ancora oggi senza risposta. Specie quando l’ambizione è elevata al punto da evocare l’obiettivo di «circondarsi unicamente dei migliori dei migliori», di essere «meno soli» e diffondere magicamente «positività» a ogni commento.
Parole che potranno suonare familiari agli ottimisti della Silicon Valley, ma che in qualunque altro luogo del mondo suscitano ancora dubbi, quando non direttamente i brividi. Perché anche chi non è iscritto a Peeple potrà esserlo da chiunque lo vorrà giudicare; per farlo, per giunta, l’improvvisato giudice dovrà fornire alla app il vostro numero di cellulare - altro colpo alla privacy.
Certo, Cordray e la sua socia Nicole McCullough precisano che sarà possibile discutere con chi ci ha dato un giudizio uguale o inferiore a due stelle – ossia negativo – entro 48 ore: così da convincerlo che si stia sbagliando prima che il verdetto venga pubblicato online. Ma non c’è possibilità di sottrarsi al gioco: la app è un “dono” che vi verrà dato lo stesso, che lo vogliate o no. In molti, poi, si chiedono poi cosa impedirebbe a Peeple di diventare il luogo ideale per le vendette degli ex, dei nemici che ci siamo fatti sul lavoro o a scuola, e dunque di molestie e forme di bullismo.
Perfino i passanti interpellati nella serie di video promozionali diffusi da Cordray e McCullough su YouTube non sembrano convinti dell’idea ingenua per cui gli utenti non farebbero altro che cercare di trovare il meglio in ogni persona giudicata per esempio perché una coppia con un figlio vuole assicurarsi che il maestro, la babysitter o il padre del migliore amico siano davvero le brave persone che sembrano.
Ma intanto la valutazione della app è già schizzata a 7,6 milioni di dollari, dopo una raccolta iniziale di 250mila. La strada verso l’obiettivo dichiarato – quota un miliardo – è ancora lontana: e non è detto l’app sia in grado di sopravvivere alla serie di cause legali all’orizzonte, oltre che all’odio del pubblico. Ma su una cosa già si potrebbe riflettere: come mai una società che giudica già ogni cosa sul web, e che ha già ridotto a metrica, a “gioco”, ogni tipo di interazione umana, dovrebbe scandalizzarsi per quello che non è altro che il figlio illegittimo di un ménage à trois tra Facebook, Linkedin e Tinder? Forse la risposta sta nel fatto che siamo talmente assuefatti ai social da pensare che una app simile, oggi, potrebbe davvero avere successo. In una «cultura ossessionata dal feedback degli utenti», scrive Rhihannon Lucy Cosslet sul Guardian, è solo questione di tempo. E del resto, Peeple sembra il perfetto complemento all’era della “sharing economy”: se ai punteggi degli autisti di Uber e delle case di Airbnb si aggiungesse quello personale su chi le auto le guida e gli appartamenti li affitta, quanti avrebbero di che obiettare?

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CAITLIN DEWEY, WHASINGTON POST 1/10 –
Possiamo già valutare online ristoranti, alberghi, cinema, corsi universitari, politici, agenzie governative e movimenti intestinali: quindi la cosa più sorprendente di Peeple, un nuovo servizio che potremmo descrivere come uno Yelp o Tripadvisor per le persone, è che nessuno finora avesse avuto il coraggio di lanciare un prodotto del genere.
Quando l’app di Peeple sarà disponibile, probabilmente verso la fine di novembre, si potranno dare recensioni da una a cinque stelle di chiunque si conosca: i propri ex partner, i colleghi, il signore anziano che vive nella casa accanto. Non ci si può escludere: una volta che qualcuno mette il tuo nome su Peeple, resta lì a meno che non ci siano violazioni delle condizioni del servizio, e d’altra parte già oggi nessuno può impedire a nessuno di scrivere online un’opinione sul proprio vicino di casa, a patto di rispettare le leggi su diffamazione, ingiurie, eccetera. E non si possono cancellare recensioni negative o parziali: farebbe venire meno il principio stesso dell’app.
Immaginate che ogni interazione sociale che avete mai avuto sia improvvisamente aperta allo scrutinio della rete. Come spiega Julia Cordray, una delle fondatrici di Peeple, «le persone fanno tantissime ricerche quando devono comprare un’auto o in generale prendere una decisione. Perché non fare lo stesso tipo di ricerca anche per altri aspetti della vita?». Questa, in poche parole, è la presentazione che Cordray fa della sua app, quella che ha fatto per gli investitori privati e i venture capitalist della Silicon Valley. La società ha raccolto fin qui investimenti per 7,6 milioni di dollari.
Cordray è una donna spumeggiante e tosta, con una laurea in marketing e due società che si occupano di assunzioni e selezione del personale: secondo lei non ci sono buone ragioni per non voler mostrare online il proprio carattere. La co-fondatrice di Peeple, Nicole McCullough, pensa all’app anche con una prospettiva diversa: come madre di due bambini che vive in una zona dove non sempre si conoscono i vicini, voleva uno strumento che la aiutasse a decidere di chi fidarsi.
Vista l’importanza di questo tipo di decisioni, Peeple ha regole piuttosto rigorose, come Cordary ricorda in modo veemente se qualcuno le dice che l’app può essere usata per bullizzare o umiliare qualcuno. Per scrivere una recensione di qualcuno bisogna avere 21 anni, un account Facebook e usare il proprio vero nome. Inoltre bisogna confermare di conoscere la persona che si vuole recensire in una di queste tre categorie: professionale, romantica, personale. Per aggiungere al database qualcuno che non è mai stato recensito, bisogna avere il numero di cellulare di quella persona.
Le recensioni positive vengono postate immediatamente; quelle negative invece vengono tenute da parte per 48 ore in caso ci siano dispute a riguardo. I profili delle persone che non sono registrate al servizio, e quindi non possono contestare eventuali recensioni negative, mostrano solo le recensioni positive. Inoltre Peeple ha vietato una serie di cattivi comportamenti, inclusi volgarità, sessismo e le discussioni che riguardano malattie e in generale condizioni di salute.
«Siamo due imprenditrici empatiche che lavorano nel mondo della tecnologia: vogliamo diffondere amore e positività e operare con tatto», spiega Cordray. Sfortunatamente per le milioni di persone che potrebbero presto trovarsi come soggetti (o forse oggetti) non consenzienti dell’app, non sembra che Cordray abbia considerato alcuni problemi piuttosto importanti, come il consenso, l’accuratezza, la parzialità e il problema fondamentale di voler assegnare voti alle persone.
Per citare il filosofo ed esperto di tecnologia Jaron Lanier, Peeple è indicativo di un tipo di tecnologia che dà valore «al contenuto di informazioni della rete, piuttosto che alle persone» e che è così ossessionato dalla percepita grandiosità dei cosiddetti crowd sourced data – grandi masse di dati raccolti da grandi masse di utenti – da non vedere i danni che può fare alle singole persone normali.
Da dove iniziamo, parlando di questi danni? Non c’è modo in cui i voti di Peeple possano mai riflettere accuratamente i tratti di una persona. Anche togliendo di mezzo gli aspetti soggettivi e di personalità, tutte le app di rating da Yelp a Rate My Professor – che permette agli studenti di dare voti sugli insegnanti – hanno mostrato problemi simili: la gran parte di quelli che fanno recensioni sono quelli che amano o odiano l’oggetto della recensione. Come hanno mostrato alcuni studi su Rate My Professor, le recensioni riflettono più i pregiudizi del recensore che le oggettive abilità del recensito: su RMP i professori che gli studenti considerano attraenti ottengono in media voti più alti e, in generale, uomini e donne vengono valutati con criteri totalmente diversi. «I voti degli studenti non riflettono direttamente e chiaramente il lavoro fatto, ma sono un misto di sentimenti di affetto e di apprendimento», ha scritto l’accademico Edward Nuhfer nel 2010.
Ma almeno i voti degli studenti hanno un fondamento logico ed economico: hai pagato tanti soldi per seguire certi corsi e quindi sei giustificato e qualificato per valutare quella transazione. Peeple suggerisce invece un modello in cui chiunque è giustificato nel valutare qualsiasi persona incontrata, qualsiasi sia o sia stata la loro relazione.
Il servizio è intrinsecamente invadente anche quando offre recensioni positive, ed è oggettificante e riduttivo nel modo in cui lo sono tutte le recensioni online. Non bisogna sforzarsi troppo per immaginare lo stress e l’ansia che un sistema del genere potrebbe causare su una persona un po’ insicura. Non è solo l’ansia di essere molestato o calunniato, ma anche la sensazione di essere guardato e giudicato in ogni momento: un’oggettificazione a cui non hai dato il tuo consenso. Dove prima avresti potuto vedere un appuntamento romantico o l’incontro con un docente come faccende private, Peeple le trasforma in eventi pubblici: tutto quello che fai può essere giudicato, pubblicizzato e registrato.
«È un feedback! Puoi usarlo a tuo vantaggio», dice Cordray entusiasta. Questo tipo di giustificazione, tuttavia, non ha funzionato così bene per le app simili che ho provato finora. Nel 2013 un’app chiamata Lulu prometteva di dare potere alle donne facendole recensire i loro appuntamenti con gli uomini – e fare lo stesso con gli uomini, lasciando che potessero vedere i loro punteggi. Dopo tantissime critiche – “inquietante”, “velenoso”, eccetera – il servizio aggiunse un’opzione per potersi cancellare e un anno dopo diventò ancora più rigido, permettendo di recensire solo le persone che avevano deciso di iscriversi all’app. Al momento quella che era la più controversa startup tecnologica del 2013 è poco più di una piccola app per appuntamenti.
È possibile che anche Peeple si trovi davanti un percorso così difficile: in linea con la filosofia radicale del suo servizio, però, Cordray ha promesso di accettare tutte le critiche e i feedback. Se i primi tester della versione beta chiederanno un’opzione per abbandonare del tutto l’app, per esempio, dice che ritarderà il lancio ufficiale e la aggiungerà. Se gli utenti non si sentiranno a loro agio a dare voti a parenti e amici, forse Peeple proverà a diventare un’app professionale: una specie di via di mezzo tra Yelp e LinkedIn.
«Non è importante se c’è più gente a cui piacciamo o a cui non piacciamo: quello che conta è quello che le persone dicono su di noi», dice Cordray a un avventore di un bar nel decimo episodio dei suoi video che presentano l’app. È una cosa stranamente distopica da dire a uno sconosciuto in un bar: nel futuro di Peeple, sta dicendo in pratica Cordray, il modo in cui ci descriverà una folla amorfa online stabilirà chi siamo.
©2015 Caitlin Dewey, Washington Post 1/10/2015

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SIMONE COSIMI, WIRED.IT 2/10 –
E così arriverà anche una specie di TripAdvisor per gli esseri umani. «Mi sono trovato bene, proprio supersimpa»: 5 stelline. «Veramente odioso, un babbeo»: una stellina. E così via. Dopo gli alberghi, gli autisti, i ristoranti, le attrazioni turistiche, le compagnie aeree e quasi ogni altro genere di realtà con cui abbiamo a che fare quotidianamente, era d’altronde questione di tempo prima che qualcuno proponesse un’app per votarsi fra conoscenti. E non solo (questo è il problema). Anche se a dire il vero il meccanismo ricorda vagamente quella febbre esplosa sul web qualche anno fa con la mania dei siti “RateMy”. Da completare a piacere.
Stavolta però sembra profondamente diverso. Peeple, così si chiamerà l’applicazione ancora in fase d’incubazione, sarà disponibile da fine novembre: è già valutata 8 milioni di dollari e l’hanno lanciata due amiche del cuore, Nicole McCullough e Julia Cordray. Oltre a poter assegnare il classico rating a stellette sarà possibile, proprio come con le trattorie e i musei, lasciare un commento per chiunque tu conosca. Il dramma è che basta che qualcuno t’inserisca nel sistema – così, pare, funzionerà questa sorta di raggelante casellario sociale – e sarà complicato tirarsene fuori. Al momento, infatti, non pare sia prevista un’opzione di opt-out
Ci sono invece diversi meccanismi che finiranno per rivelare puntualmente tutta la loro inutilità. Come la rivelano ogni giorno sulle piattaforme più popolari. Per esempio, per lasciare una recensione – di questo si tratta, stiamo iniziando a giudicarci come fossimo fritture di calamari o lenzuola di un albergo – bisognerà avere almeno 21 anni. Oppure, disporre di un account su Facebook (curioso che in molti lo trovino uno strumento di garanzia, mai sentito di account fake?) e dichiarare di conoscere davvero una persona in ambito personale, professionale o affettivo. Difficile, fra l’altro, cogliere la differenza fra primo e terzo. Bando a bullismo, sessismo e informazioni di salute, dicono le due ideatrici, due autentiche fondamentaliste del pubblico ludibrio. Come, difficile saperlo. Infine, per catapultare un contatto in questa specie di manicomio amicale occorre il suo numero di cellulare.
Il funzionamento sarà piuttosto arzigogolato. I commenti positivi andranno subito online nella tua scheda. Quelli negativi verranno parcheggiati in una casella postale privata per 48 ore, il tempo a disposizione per contestarli e tentare di disinnescarli – ma se non se ne esce, andranno comunque online (=ansia). Se invece non ti sarai volontariamente registrato ma altri ti avranno aggiunto a tua insaputa, dunque non potrai discutere i giudizi negativi, verranno mostrati solo quelli positivi.
I punti centrali sono due. Il primo è che la strana coppia McCullough-Cordray sembra non sentire le critiche arrivate in questi giorni. Entrambe le fondatrici sostengono che terranno in totale considerazione i feedback dei beta tester, per esempio inserendo se necessario la possibilità di cancellare la propria scheda o virando verso la professionalizzazione del servizio (ma LinkedIn già fa qualcosa di simile, il territorio è occupato ragazze). Ciononostante, e siamo al secondo punto, al Washington Post non hanno perso occasione per veicolare nel lettore quell’inquietante sensazione dell’”arrenditi prima che sia troppo tardi”. Della serie, insomma, tanto siamo tutti online meglio sfruttare a dovere questa nuova possibilità. Sembrano, insomma, quel genere di persone che parla per slogan.
“Le persone fanno così tante ricerche per comprare una macchina o prendere decisioni del genere – dice Cordray – perché non farne di simili per altri aspetti della tua vita?”. E ancora: “Sono feedback per te, puoi usarli a tuo vantaggio”.
Non voglio usarli, Julia. E soprattutto non voglio che accada una cosa molto precisa, in grado di aggiungere stress e inutili preoccupazioni a un’esistenza già complessa di suo. Che sia cioè una startupper di Long Beach che abita a Calgary a decidere di trasformare la mia vita in un palcoscenico dove non si chiude mai il sipario. Una performance continua nella quale non avrò mai la certezza che una chiacchierata, dal vicino di casa all’amico incontrato per un caffè, non rischi di diventare un implacabile quanto parziale giudizio sulla mia persona. I giudizi, per chi crede, appartengono ad alt(r)e sfere. Per chi non crede, forse neanche a se stessi.

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ANTONIO CAFFO, PANORAMA.IT 2/10/2015 –
Alzi la mano chi non ha mai espresso un giudizio su un’altra persona. Positivo o negativo che sia, le lingue biforcute sono sempre esistite e pronte anche nel 2015 ad emettere sentenze. È nell’indole umana e ci sono studi e psicologi convinti che dovremmo smetterla di bisbigliare agli altri quando sia deplorevole il comportamento di amici e colleghi, o peggio, quello dei parenti in occasione di ritrovi e feste natalizie.
Se siete tra quelli convinti che il giudicare sia un’arte da lasciarsi alle spalle allora meglio non scaricare Peeple, una controversa applicazione per smartphone che arriverà a novembre, per ora solo su iPhone e iPad. La teoria è semplice e prende in prestito un fattore di successo del panorama mobile, il cosiddetto “rating”.

Un mondo di recensioni
Prima di prenotare un nuovo ristorante leggiamo le recensioni su TripAdvisor, quelle su Trivago per sapere se vale la pena spendere una certa cifra per un hotel o di Amazon per chiedere ad altri utenti il parere su un paio di pattini, una fotocamera o un oggetto qualunque. Si tratta solo di esempi visto che in rete di servizi del genere ve ne sono a decine e per tutti i gusti (provate Yelp, Skytrax per i voli, Triptease per i viaggi di lusso e Gogobot per destinazioni fuori dal comune).

Le regole
Mettete assieme la funzionalità del voler classificare ogni cosa che ci circonda e la possibilità di sparlare degli altri e otterrete Peeple. Per iscriversi bisogna avere almeno 21 anni ed essere già un utente di Facebook. Le recensioni devono essere fatte da una persona reale che deve indicare il grado di conoscenza dell’altro: personale, professionale o romantico. Chiunque voglia aprire una nuova recensione deve inserire il numero di cellulare del citato, che riceverà un sms con cui viene informato della creazione di un profilo che lo riguarda, con il nome di chi lo ha fatto. “Tutti cercano pareri online quando devono comprare una nuova auto o cose del genere. Perché non dovrebbero farlo su altri aspetti della loro vita?" - ha detto la fondatrice. Ecco i perché.

Oggettivo vs soggettivo
Ecco il perché. Prima di tutto Peeple è un’applicazione che tenderà ad oggettivare giudizi personali. Si punterà molto sul raggiungere più recensori possibili e meno su ciò che questi faranno sulla piattaforma. Quello che dicono sarà vero, falso oppure una via di mezzo? Legalmente non ci sarà nemmeno granché da protestare: in assenza di calunnie o prese di posizione su comportamenti individuali (sesso, politica, religione) tutti potranno dire (quasi) tutto di tutti: un contenitore social dei peggiori pettegolezzi del quartiere.

Etichetta perenne
Basterebbe una singola recensione negativa, magari anche dovuta, per mettere in cattiva luce un individuo agli occhi di un possibile datore di lavoro. Prendiamo ad esempio Linkedin: spesso viene utilizzato per analizzare le competenze di un candidato, meno per ciò che colleghi attuali o precedenti hanno scritto nei commenti. Il motivo è che ognuno può recepire segnali e sentimenti diversi, al netto di qualche fesseria professionale fatta. Su Peeple potrebbe non esserci possibilità di redenzione.

Un anti-Facebook
Peeple è ciò che Facebook ha tentato di non essere nel corso degli anni: un recettore di valutazioni sul comportamento degli iscritti. Il che non vuol dire mascherare opinioni negative ma lasciare che se c’è qualcosa che non va con un altro utente, i due risolvano i loro problemi al di fuori dal social network. Facebook è un aggregatore sociale, Peeple invece l’esatto contrario, una sorta di disgregatore 2.0. Il motivo è che alla nuova app farà comodo lo scontro emotivo che porterà a generare profili su profili per dar sfogo ad una battaglia all’ultima stellina, con la consapevolezza di aumentare la base di utilizzatori e quella degli inserzionisti.

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MAURO APRILE ZANETTI, LA STAMPA 28/9/2015 –
Giovanni Buttarelli, il Garante Europeo della Protezione dei Dati, ha appena concluso una missione intensa di appuntamenti in Silicon Valley. Viaggiando in lungo e in largo per una settimana da Menlo Park a Mountain View e Palo Alto, e tra Berkeley e San Francisco, si è confrontato con i responsabili della regolamentazione americana, i centri di eccellenza per la ricerca e l’innovazione come Stanford e UC Berkeley, e gli attori delle start-up che questa innovazione planetaria la stanno guidando, ma anche con giganti della tecnologia come Facebook, Google, Apple, Uber, Airbnb. In esclusiva per La Stampa, l’abbiamo intervistato per provare a capire quale potrebbe essere il futuro della regolamentazione europea e americana in materia di privacy e sicurezza dei dati personali.
Qual è la ragione della sua missione in Silicon Valley, dove è risaputo che i policy makers non sono propriamente ben visti, se non come freni burocratici alla crescita e allo sviluppo dell’innovazione?
«Innanzitutto per informarmi sullo stato dell’arte dell’ultima frontiera tecnologica, e al contempo informare con la giusta moral suasion i big player della legge a difesa della persona e dei suoi dati individuali, che stiamo per disegnare in Europa».
Ci può spiegare meglio lo scenario globale e il suo ruolo come European Data Protection Supervisor?
«Con Big Data e Internet of Things le nostre informazioni personali sono sempre meno nazionali, mentre lo sono le leggi che non riescono più a reggere il passo di un fenomeno inarrestabile, quale lo tsunami dell’innovazione, sprigionato proprio dalla Silicon Valley, volendo al contempo tutelare i diritti fondamentali. Non possiamo permetterci di fallire, bisogna avere il quadro più aggiornato, per non fare una legge obsoleta il giorno che entra in vigore. Quella che ho l’onore di guidare è un’autorità indipendente e giovane, che trova la sua base nel Trattato di Lisbona, e interagisce con le autorità nazionali dei paesi membri per parlare con un’unica voce, come una sorta di Ambasciatore europeo, per la protezione dei dati nel mondo. Spiegarlo meglio ai tycoon della Valle è sempre più fondamentale. È urgente individuare una strategia di sistema tra Ue e Usa per preservare questi valori della persona configurati nel trattato europeo con l’esigenza di non frenare l’innovazione mondiale. In fin dei conti si tratta anche di orientare lo sviluppo delle tecnologie al benessere comune».
Qual è il destino dei Big Data nello scenario del Digital Single Market, e della nuova legge europea in fase di finalizzazione rispetto a quella americana?
«I Big Data si basano su capacità inimmaginabili di sviluppi delle informazioni che porteranno a un cambiamento planetario superiore a quello avuto dall’impatto della rivoluzione industriale dell’Ottocento. Siamo solo nell’infanzia di questa rivoluzione. Se solo 2 dei 20 big player mondiali hanno matrice europea, ci sarà una ragione. E non può certo essere in ragione delle nostre leggi, ma per un ritardo strutturale che con il Digital Single Market si colmerà. Rilanciare il mercato europeo dell’innovazione è di assoluta priorità per favorire le start-up, eliminando le barriere di geo-marketing che ostacolo questo sviluppo, e facilitare la ricerca e l’esportazione dell’innovazione di un mercato che non è ancora unico. Si pensi solo al roaming telefonico, senza contare il digital divide che non rende ancora oggi competitivi paesi come l’Italia. È fondamentale studiare a livello internazionale un’alleanza che permetta di trovare soluzioni condivise su scala mondiale e non solo europea. Il disegno di legge federale per gli States (Consumer Bill of Rights) non si tradurrà in legge prima di 4 anni. Nel frattempo l’Europa è invece all’ultimo miglio di questa legislazione, che porterà anche all’abrogazione del codice italiano, applicandosi a tutti nel mondo. Sarà nella Gazzetta Ufficiale europea già nella primavera 2016, ed entro un biennio si conformerà alle sue prescrizioni».
Come si distingue l’approccio all’innovazione nell’Ue da quello negli Usa in materia di privacy e uso dei dati personali?
«C’è un’enorme dicotomia tra la velocità dell’innovazione della Silicon Valley e l’Unione Europea, che è in ritardo con l’innovazione, ma che attualmente conduce una grande leadership influente nel mondo sul piano delle regole. Regole che, in ragione della dimensione transnazionale dei flussi, si applicheranno dalla Ue anche a chi opera in remoto su dati che riguardano persone in Europa, quindi non necessariamente nostri cittadini. Quindi chi lavorerà on line, profilando le persone attraverso siti e dispositivi mobili, dovrà rispettare le regole europee anche se stabilito negli Usa. Il patrimonio delle regole europee mette al centro la persona, mentre l’innovazione americana che è tutta votata ai ricavi, riducendo la persona a un mero utente e consumatore».
Ma gli Usa ci accusano di protezionismo...
«Pensano - a torto - che noi si voglia strumentalizzare le regole per bilanciare l’handicap di innovazione europea. Anche i centri di ricerca universitari, come Berkeley e Stanford, mostrano straordinaria attenzione per l’Europa. Da una parte c’è preoccupazione per le regole europee, scetticismo, ironia e irritazione per l’imposizione; e dall’altra parte anche ammirazione per il grado di evoluzione. Non ci vuole una prova muscolare, ma lavorare diplomaticamente per convincerli che investire in tecnologia per la sicurezza dei dati della persona è conveniente per il business, e non un freno allo stesso».
Qualche mese fa l’Economist metteva in guardia da questo rapace 1% che ora controlla il mondo. Dunque rispetto all’immagine univoca che spesso si ha della Silicon Valley come di un luogo paradisiaco o della sede tanto decantata del nuovo Rinascimento, cosa pensa di questa nuova società, che Lawrence Ferlinghetti definisce “flat society”, e che si forgia quotidianamente proprio da qui nella Valle del Silicio per replicarsi con un clic per l’intero globo?
«Effettivamente il dubbio in merito a questa valle paradisiaca mi è venuto. Senza regole, il rischio è di non trovarci in un Rinascimento, piuttosto in un Neo-Feudalesimo in cui le informazioni sono nelle mani di monopolisti: dati di persone comuni, e non di criminali o terroristi, che non hanno nemmeno i più efficienti servizi del mondo. Le leggi antitrust si occupano del pluralismo nel mercato; noi invece abbiamo qui un problema molto più serio che riguarda il nostro futuro come individui. Per questo abbiamo anche lanciato un dibattito pubblico sulla dimensione etica delle nuove tecnologie: se il legislatore non deve dettare delle soluzioni, neanche le nuove tecnologie devono dettarle automaticamente. Bisogna vedere anche ciò che è moralmente accettabile. In questo momento siamo in un sistema che consente a un paio di aziende, che lavorano sugli algoritmi, di avere accesso sull’uso dei dati personali, profilandoci, di fatto, in ogni istante della nostra esistenza, e che in caso del diritto di accesso possono persino non dirci quali dati hanno, perché non esistono dati tracciati su di noi; esiste piuttosto un algoritmo che lavora in tempo reale, aggiornando continuamente chi siamo, fino a saperlo molto meglio di noi stessi in termini di desiderio, offrendoci così servizi di ogni sorta. Una mancanza di regole così importanti ci può discriminare, creando profili di maggioranza, in cui siamo svantaggiati nel tenere la nostra identità. La riflessione etica lanciata qui riguarda il futuro della nostra identità come individui».
La tecnologia, se esasperata, diventa un’ideologia. Papa Francesco , incontrando Castro ha ammonito che occorre “servire la persona, non un’ideologia”. Cosa significa rispetto e dignità umana nella moderna società delle informazioni?
«Noi in Europa vogliamo che le tecnologie pongano l’individuo al centro e non il contrario. Il Papa, nell’ultima sua enciclica, aveva già inserito un passo riguardo la persona nel modo in cui è trattata, e interagisce rispetto alla raccolta delle nostre informazioni. Non si tratta solo di una questione privata e di tutela della nostra privacy, perché noi vogliamo essere interconnessi e poter scambiare le nostre idee, ma con sicurezza. Diamo le nostre info a tantissime persone, perché fungono da intermediari – questo processo va bene, e non va certo arrestato –, ma uno sviluppo simile a quello che stiamo vedendo, e senza regole è straordinariamente preoccupante».
Francesco Galietti di Policy Sonar parla di “Stato ibrido” quando racconta che il numero uno di Google può decidere di incontrare il dittatore della Corea del Nord, e questo lo riceve come un capo di Stato. Non è forse il potere delle informazioni digitali a determinare una nuova geopolitica fuori dai confini ordinari della geografia del mondo?
«Sì, esatto, anche perché man mano che aumentano le informazioni, cresce l’appetito delle agenzie di intelligence per raccogliere sproporzionatamente informazioni da usare all’occorrenza: non necessariamente riguardanti sospetti terroristi e criminali, ma persone normali nella vita di tutti i giorni. Le persone normali non devono figurare negli archivi di intelligence. Bisogna rovesciare il principio secondo cui dobbiamo dimostrare a qualcun altro il nostro corretto comportamento. Per questo occorre coinvolgere tutti gli attori del gioco per costruire insieme le regole. Non può essere un percorso risolto solo dalle autorità indipendenti per la privacy. Chi gestisce la cosa pubblica, che vuole dare incentivi all’innovazione e all’economia, è bene che rifletta oltre che sul sistema finanziario e sul sostegno all’occupazione, piuttosto sulla società che stiamo creando. Temo che nell’entusiasmo per lo sviluppo tecnologico ci dimentichiamo degli aspetti più importanti come l’individuo e la persona. Ovviamente porterò con me anche il messaggio di preoccupazione da parte degli americani per eliminare burocrazie e dettagli inutili, adottare un approccio tecnologico neutrale, pensare al futuro e non al passato, per scrivere una legge utile al cittadino e non ai legulei, comprensibile nel mondo; che aumenti la tutela dei diritti dei dati personali senza frenare l’innovazione. Parte delle decisioni verrà presa dell’antitrust, parte dal legislatore, e parte dei risultati dall’industria».
Ci sono start-up che si stanno attrezzando in questa direzione, considerando nella fattispecie la produzione elefantiaca di dati attraverso l’internet of things?
«Sì, ho incontrato più di una decina di piccole società da Mozilla, dedicate a tecnologie di privacy by design e privacy by default, destinate a scomparire entro poche settimane, perché acquisite dai pesci più grandi, a dimostrazione che c’è anche un mercato straordinario per chi vuole investire in soluzioni che permettano meglio all’utente di capire cosa fa on line, facilitandogli la vita quotidiana, e di ridurre i rischi per le informazioni e la sicurezza. Vedi l’Internet of Things (IoT) quanti e quali dati produce sempre di più anche a distanza. Le informazioni saranno fornite per pagamenti di servizi della vita di tutti i giorni, pertanto c’è preoccupazione per l’integrità di questi dati personali in termini di sicurezza. È importante che anche i database, sempre più giganteschi e sulle nuvole, rimangano intatti, perché, se presi di mira da hacker, io possa ritrovare informazioni fondamentali sulla mia salute, la mia pensione o altro. Dunque, stiamo parlando di renderci disponibile la nostra informazione (possesso e fruizione), oltre che la riservatezza, attraverso il diritto fondamentale di portabilità dei dati, che la persona imprescindibilmente detiene».