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 2015  ottobre 02 Venerdì calendario

S’È ROTTA LA YAKUZA


TOKYO. Niente vacanze, niente permessi, niente weekend liberi per i 33mila poliziotti giapponesi: dal «siberiano» Hokkaido all’«hawayano» Kyushu, tengono il fiato sospeso e le pallottole in canna. Un terremoto di poteri ha spaccato la Yakuza e adesso si aspetta l’inevitabile tsunami di sangue. Gli agenti più anziani, alla vigilia della pensione, hanno indelebilmente impresso nella memoria quel che accadde nel 1984, quando una grande scissione avvenne all’interno della Yamaguchi-gumi, l’onnipotente famiglia mafiosa del Paese del sol levante. La ribellione innestò una catena di centinaia di scontri a fuoco con dozzine di mortali vendette e contro vendette, e pallottole vaganti che falciavano innocenti passanti. Questa volta, e siamo proprio nel primo centenario della fondazione dell’organizzazione, creata nel 1915 a Kobe, quarta città del Paese, si teme una reazione ancora più violenta perché la posta in palio è più grande. Si respira un’aria pesante nei quartieri in cui sono concentrati luoghi di divertimento, spesso a luci rosse, come, per nominarne il più noto, il quartiere Kabukicho, nel cuore di Tokyo, dove più intensa e visibile è l’attività criminosa della yakuza. Molti esercenti di ristoranti, locali notturni, case da gioco, sale di massaggi abbassano le saracinesche e appendono il cartello «chiuso per ferie».
È stata la stessa polizia a comunicare in questi giorni a giornali e network nazionali la scisma avvenuto nel cuore della massima organizzazione criminale giapponese: la Yamaguchi-gumi, capeggiata dal 2005 con pugno d’acciaio dal 73nne Shinobu Tsukasa, che spesso ricorre a una seconda identità con il nome Kenichi Shinoda. Secondo il periodico americano Fortune, la Yamaguchi-gumi è la più ricca società mafiosa del mondo. Nel 2014 ha avuto profitti pari a 80 (ottanta) miliardi di dollari e l’anno in corso promette di essere ancora il più florido per i forzieri di Tsukasa-san. Che racchiudono immensi capitali grondanti sangue: la polizia giapponese ritiene che la Yakuza sia responsabile di una media di 500 assassinii all’anno. Nulla avviene nel mondo della mafia giapponese che non sia esplicitamente o tacitamente approvato dalla Yamaguchi-gumi e dal suo oyabun (padre, capo assoluto). Tsukasa-sun, sesto oyabun nella storia dell’organizzazione, è succeduto a Tadamasa Goto che poteva contare su appoggi diretti dell’Fbi, ma che una volta defenestrato, pensò bene di cambiare radicalmente aria, ritirandosi in un convento dove ha preso i voti di monaco buddhista.
Sono almeno tremila i membri di famiglie che hanno deciso di ribellarsi a questa dittatura del crimine, provocando la prima rivolta in 31 anni all’interno della famiglia-madre. Le maggiori famiglie scissioniste sono la Yamaken-gumi, la Takumi-gumi e la Kyoyu-kai. Cosa li ha spinti ad un passo così estremo che richiederà un prezzo assai alto di vite umane, chiunque esca vincitore dalla guerra annunciata? Soldi. I ribelli ritengono di aver diritto a una fetta più larga della succulenta torta dei guadagni dell’organizzazione. In una dichiarazione fatta pervenire direttamente nelle mani di Shinobu Tsukasa, affermano di voler lasciare la Yamaguchi-gumi perché «l’egoismo estremo del suo oyabun sta portando l’organizzazione alla rovina». In realtà è solo una questione di soldi e di dominio di aree monopolizzate dalla famiglia-madre che oggi può contare su oltre 60mila membri. Tutti lautamente stipendiati e con generosi vitalizi assicurati alle famiglie dei caduti nelle sparatorie con le famiglie rivali.
Le autorità di polizia intervengono il meno possibile. Quando proprio non possono fare a meno di eseguire un ordine di perquisizione di uno dei tanti lussuosi uffici in cui opera la yakuza, li avvertono il giorno prima, precisando anche l’ora in cui si presenteranno alla porta, con regolare codazzo di reporter e cameramen, davanti alla targa tirata a lucido che identifica il luogo come «filiale della Yamaguchi-gumi». Gli agenti suonano, entrano, si inchinano, perquisiscono, facendo bene attenzione a non lasciare carte in disordine, ovviamente non trovano nulla di compromettente perché i documenti scottanti sono stati tempestivamente trasferiti in altre filiali, si inchinano, ringraziano e se ne vanno. «Li avvertiamo» racconta serafico un ufficiale di polizia, «perché cosi non c’è rischio che qualcuno si faccia male in uno scontro fisico o in una sparatoria. La nostra visita è un serio avvertimento. Vuoi dire “Attenzione, vi stiamo tenendo d’occhio”». È il cartellino giallo che l’arbitro estrae davanti al giocatore troppo focoso. Ma è un arbitro che non ha il coraggio di estrarre il cartellino rosso.
Le famiglie scissioniste sono 12, quelle rimaste leali allo storico Lord del crimine sono 20. Il leader del nuovo gruppo è Kunio Inoue, 67 anni, ex braccio destro di Tsukasa e capo della famiglia Yamaken-gumi. Lo Spartaco nipponico pretende libertà, per sé e per le famiglie a lui alleate, di mungere senza restrizioni l’opulenta vacca dell’area metropolitana di Tokyo, il più grande e ricco agglomerato urbano del mondo, con i suoi 30 milioni di abitanti, le sue labirintiche reti di prostituzione, droghe, case da gioco, scommesse clandestine, le macchinazioni finanziarie, le estorsioni, lo strozzinaggio, i contatti diretti e spesso ricattatori con il Palazzo. Con poca fantasia, il gruppo ribelle ha deciso di chiamarsi «Kobe Yamaguchi-gumi» (gumi è una deformazione di kumi che vuol dire gruppo, società, organizzazione).
La trasformazione della Yamaguchi-gumi da piccola azienda famigliare a grande impresa di criminalità organizzata iniziò subito dopo la Seconda guerra mondiale, quando nell’indifferenza degli occupanti americani, il mondo politico appena eletto delegò all’emergente «sindacato» mafioso il mantenimento dell’ordine pubblico, ricambiando con la concessione di un sostanziale monopolio degli appalti edilizi. Il grado di capillare penetrazione dell’organizzazione è ben sintetizzato dalle cifre rivelate in questi giorni dalla polizia: oggi la grande famiglia governata da Tsukasa ha almeno 1.100 filiali sparse in 44 delle 47 prefetture del Paese, attraverso cui controlla direttamente circa il 50 per cento di tutte le attività illegali e «quasi illegali» in Giappone. L’abilità della yakuza di camminare sul filo del rasoio tra illegale e «quasi illegale» spiega in parte un fenomeno unico nella storia mondiale della criminalità organizzata. Contrariamente alla mafie cinesi, russe, latino-americane e italiane, la yakuza non è vista dalle autorità e da gran parte dell’opinione pubblica come un’organizzazione delittuosa. Le famiglie hanno uffici in prestigiosi edifici nel centro delle maggiori città, hanno siti sulla rete web, le gesta di eroi yakuza sono celebrati nei manga, nei film (molto amati e premiati anche in occidente quelli del poliedrico Takeshi Kitano), in romanzi best-seller, in documentari, in reportage televisivi e in popolarissimi video games. I suoi membri esibiscono liberamente biglietti da visita in cui è specificata quale sia la loro attività e non mancano mai di mostrare sulla spiaggia, nelle palestre, nelle interviste a giornali e tv i propri corpi ricoperti di complessi tatuaggi, inequivocabile testimonianza di appartenenza alla yakuza.
La routine giornaliera di un uomo d’affari giapponese prevede un frenetico scambio di meshi (biglietto da visita). Lo si porge tenendolo con entrambe le mani con un inchino la cui profondità è direttamente proporzionale al prestigio della persona a cui viene porto. Nell’inchinarsi bisogna fare attenzione a non incrociare lo sguardo della persona a cui si offre il meshi: sarebbe grave mancanza di rispetto. Tenendo gli occhi bassi nel ricevere il biglietto, lo sguardo inevitabilmente cade su un macabro particolare: una falange del mignolo della mano sinistra di chi sta porgendo il meshi manca. È il segno più concreto che si è di fronte ad un membro di una famiglia mafiosa. Mozzare il proprio mignolo davanti agli occhi del capo-famiglia e donarglielo ancora sanguinante, avvolto in un tessuto prezioso è una sorta di battesimo che ufficializza l’accettazione di un nuovo membro: è lo Yubitsume (taglio cerimoniale). Un gesto di sprezzo del dolore che dona rispetto all’interno e all’esterno della famiglia. Come ebbe a sperimentare di persona l’antropologo orientalista Fosco Maraini che, rinchiuso con la famiglia in un campo in Giappone dopo 1’8 settembre del 1943, quando gli italiani da alleati divennero improvvisamente vili traditori da sottoporre a una durissima prigionia, per ottenere un trattamento più umano si tranciò il mignolo davanti agli occhi del capo del campo, ma anziché porgerglielo glielo gettò in viso. Gesto che gli procurò istantaneamente la stima del suo aguzzino e con essa cibo in abbondanza per se e i propri famigliari (tra cui la futura scrittrice Dacia).
La yakuza afferma di ispirarsi al Bushido, il severo codice d’onore dei samurai ispirato al senso del dovere che implicava l’aiuto ai poveri e agli oppressi. Ben lungi dalla realtà del vero codice yakuza, dove contano solo l’arricchimento e il potere. E tuttavia la gente non dimentica che i primi tempestivi e copiosi aiuti ai disperati superstiti della triplice sciagura di Fukushima nel 2011 furono quelli della yakuza, mentre il governo sembrava incapace di vincere il panico e organizzare un piano di intervento efficace. Questo desiderio di apparire come benefattori, traspare anche dai nomi con cui identificano gli uomini della yakuza (le donne ne sono escluse, almeno fino ad oggi): Gokudo (La via definitiva), o Ninkyo Dantai (antichi cavalieri).
La polizia non nega che si possa usare la yakuza per tenere sotto controllo la microcriminalità. Dopo la guerra vi fece pesante ricorso per debellare le bande di gangsters coreani e cinesi che infestavano il Paese. «La yakuza può ricorrere a metodi convincenti a noi non permessi» ghigna un ispettore di polizia in pensione. Le famiglie hanno un ruolo determinante anche nella scena politica, (nulla, o quasi, di nuovo sotto il sole): dopo oltre mezzo secolo di governo, nel 2009 il partito liberale ha dovuto cedere il passo al partito democratico che aveva ottenuto l’appoggio della yakuza promettendo manica larga nella repressione delle attività criminali. Promessa non mantenuta e immediata perdita del potere appena conquistato, con ritorno delle redini del governo nelle mani del partito liberale e del partito buddhista Komeito.
Uno stimato storico giapponese che preferisce rimanere anonimo («è sempre raccomandabile quando si parla di yakuza»), parafrasando Churchill che alla vigilia della seconda guerra mondiale affermò: «Non so con chi si alleerà l’Italia, ma so che chi si alleerà con l’Italia perderà la guerra», amaramente profetizza: «Non so chi vincerà le prossime elezioni in Giappone, ma so che chi non si alleerà con la yakuza le perderà».
Silvio Piersanti