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 2015  ottobre 02 Venerdì calendario

«VI RACCONTO UN’ALTRA ROMA»

Roma, quartiere Testaccio. Un ragazzo di colore vende calzini. Sono mesi che lo fa. Si avvicina ad un uomo, fermo in una piazza, che lo guarda e gli dice: «Ah bello! Ancora con questi calzini?» Il giovane annuisce. E l’altro sbotta: «Basta con questi calzini. Devi "delinque". Devi fare carriera». Ecco, per Valerio Mastandrea «anche questa è Roma, un’altra Roma rispetto alla capitale che si studia sui libri di scuola. Quella è per i turisti, la città che invece noi romani percepiamo è un’altra». Una metropoli vissuta dal basso, di cui è impregnato il cinema di Claudio Caligari, il regista scomparso a fine maggio, poco dopo aver terminato il montaggio di "Non essere cattivo". Un film che Mastandrea ha voluto produrre e che ora, dopo tante vicissitudini, è nelle sale ed è stato scelto per rappresentare il cinema italiano agli Oscar.
Piena di Ostia e di personaggi scomodi presi dalla strada, la visione di Caligari ha sempre affascinato Mastandrea, sin da quando il regista, nel lontano 1998, lo scelse come protagonista de "L’odore della notte", ispirato alla banda dell’Arancia meccanica che negli anni ’80 terrorizzava i quartieri bene, con rapine e furti. Mastandrea interpretava un poliziotto in congedo, freddo e razionale, che cercava nell’illegalità un mestiere. Diciassette anni dopo, l’attore si è fatto produttore dell’ultimo progetto di Caligari, che definiva «la fotografia dell’esito finale del mondo pasoliniano»: uno sguardo sul mondo livido della droga e della sopravvivenza. La storia di Vittorio (Alessandro Borghi) e Cesare (Luca Marinelli), due fratelli di vita che cercano un riscatto che non avviene, in un’Ostia di metà anni Novanta non ancora occupata dalla Mafia Capitale. A Mastandrea più dei romanzi criminali interessa la fragilità degli ultimi, la purezza, spesso soffocata e sconfitta dal precariato.
La Roma dei film che lei produce è la metropoli di oggi, divisa tra degrado, mafie e connivenza con la politica.
«Luigi Magni, un grande conoscitore di Roma, mi disse: "Di cosa ti stupisci Valerio? Qui si vendono pure i morti...". Credo che il senso più profondo di questa città sia la capacità di incarnare il simbolo del potere: muta continuamente e non cambia mai. Conosco la Roma che mi piace vivere e conosco quella che non sopporto più per tantissimi aspetti, che non sono rintracciabili nelle inchieste televisive sugli scandali ad uso e consumo del grande pubblico. Questo non significa accettare il male e arrendersi».
Come produttore lei ha cercato storie che raccontassero la periferia o gli immigrati, quasi sempre girate a Roma. Come "La mia classe" di Daniele Gaglianone che, a metà strada tra cinema e documentario, descrive le lezioni di italiano dei ragazzi stranieri e il tentativo di integrarsi nella nostra società.
«Non so cosa vuol dire produrre dal punto di vista tecnico. Mi sono limitato a intendere questo mestiere come l’investimento del mio tempo e dei miei soldi per far vivere una realtà con la quale mi trovavo in sintonia. Credo nei film che hanno una valenza critica e culturale. Come è avvenuto con "Pezzi" di Luca Ferrari (il documentario su Laurentino 38, quartiere della capitale ad alto tasso di criminalità, ndr), uno dei film che mi ha fatto più male. A fine riprese, sono subentrato nella produzione perché credevo nella capacità del regista di narrare un mondo che nessuno racconta. Ed è per questo che con Ferrari abbiamo appena realizzato "Snowbiz" sul lato B de "La Grande Bellezza": gli epigoni capitolini di Jep Gambardella, quelli veri, presi dalle trasmissioni delle tv locali».
Il turista a Roma cerca solo questa bellezza. E lei cosa cerca?
«Lo sguardo dei romani va verso la vita vera, scandita dai tanti disagi quotidiani e da problemi ben più seri. Se si vuole capire qualcosa si va nei quartieri, come Tor Pignattara. Ed è questo in fondo la gioia di un vero romano, conoscere queste realtà trascurate. È un discorso molto complicato, per me il modo migliore di guardare Roma è affrontarla con un senso di responsabilità nello svolgere il mio lavoro. I film permettono di indagare la realtà in modo trasversale. Puoi raccontare tutto e tutti. Anzi. Più racconti quei "tutti" che non ti aspetti, più onori la potenzialità del cinema. Ad esempio penso alle cooperative, protagoniste delle cronache degli ultimi tempi: per descriverne il potere, invece di partire dalla storia di un "capo", da come si forma a come lo diventa, è più forte scegliere la storia di un dipendente, di un "pischello" che a quel lavoro, a quel riscatto ci crede e si batte».
È un cinema che ruba il mestiere del giornalismo.
«Esatto. Cercando una priorità delle notizie. È più importante discutere di un tweet del presidente del Consiglio sugli eventi legati alla chiusura del Colosseo per l’assemblea dei sindacati o è più importante parlare tutti i giorni dell’emergenza abitativa che ha, invece, questa città?»
Sono quei mondi che caratterizzano proprio i film di Claudio Caligari.
«Quello infatti è un cinema che resta dentro, che non si dimentica uscendo dalla sala. Tocca tutti, anche le persone più lontane che non hanno mai vissuto in periferia, come quelle due signore di una certa età che, dopo avere visto "Non essere cattivo", si sono chieste "Ma davvero esiste questa gente?". Sapere che due persone vanno a dormire la sera più consapevoli di quello che succede nella realtà mi rende contento. Ecco perché mi manca e mancherà il cinema di Caligari».
In 32 anni Caligari è riuscito a realizzare soltanto tre film. Nel 1983 "Amore tossico" fu un caso, un nuovo modello di neorealismo: descrivere il tunnel dell’eroina usando attori che si bucavano o si erano drogati. Una pellicola durissima, poetica e spietata. E da allora i suoi progetti sono sempre stati ostacolati.
«Il nemico dei film di Claudio è stato la percezione del lavoro culturale in questo Paese da parte di chi lo gestiva e di chi ne usufruiva. Quando diceva che in Italia gli avevano sbattuto tante porte in faccia, lui voleva farne una questione politica. Il cinema di Caligari, poco rassicurante, non era un omologato e non prometteva un ritorno economico facile».
E gli altri film che ha scritto: rimarranno incompiuti?
«Ci sono ancora tre o quattro sceneggiature. Produrre "Non essere cattivo" è stata una vera impresa, ci sono stati parecchi momenti in cui pensavano che non saremmo arrivati sul set. Abbiamo persino scritto a Martin Scorsese per chiedergli fondi, senza risposta. Ma siamo riusciti a girarlo. E chi lo ha reso possibile, non avrà paura a tentare di realizzare anche gli altri progetti di Claudio. Lui ci ha insegnato a cercare un senso profondo del cinema, anche quando l’ambizione non va di pari passo con le opportunità che ti vengono offerte».