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 2015  ottobre 02 Venerdì calendario

GLI ITALIANI SI SONO IMBALSAMATI

[Intervista a Giovanni Negri] –
«Questa vendemmia è meravigliosa. Siamo abituati a sentir dire che è stata un’ottima annata: invece questa è stata proprio me-ra-vi-glio-sa». A dirlo è un vigneron di livello, Giovanni Negri, che nella cantina Serradenari a La Morra (Cn), nelle Langhe, produce un grande Barolo.
Questa intervista non si vuole però occupare di vino ma piuttosto ricordare gli anni, non lontanissimi, in cui Negri, classe 1957, era il giovane segretario del Partito radicale. Correva l’anno 1984. L’occasione la fornisce lui stesso, avendo portato in libreria un romanzo d’ambientazione squisitamente politica, Il gioco delle caste, edito da Piemme: un gustoso affresco in cui si intrecciano vari poteri, dal sottogoverno, alla magistratura, alla Curia romana e, sullo sfondo, il petrolio lucano della Val d’Agri, di cui viene scoperto un altro, grande giacimento.
Domanda. Innanzitutto complimenti, Negri, il plot narrativo, incentrato sul petrolio, è di grandissima attualità.
Risposta. Addirittura di giornata, col premier Matteo Renzi che annuncia un ruolo guida per l’Italia in Libia, dove geopolitica e petrolio c’entrano eccome. E poi, ancora poche settimane fa, la notizia del grande giacimento a largo delle coste egiziane scoperto dall’Eni.
D. Ci sono poi le vicende relative all’oro nero di casa nostra.
R. Esatto, perché per un Pippo Civati che non riesce a trovare le firme per il suo referendum (contro lo Sblocca Italia che dà il via libera alle trivellazioni, ndr), ci pensano le Regioni.
D. Ben dieci, tra l’altro. Lei è informatissimo, il che significa che sì, fa Barolo, ma la politica le interessa ancora molto
R. Ma no, sono solo uno che legge i giornali e segue l’attualità.
D. E quindi avrà anche un’idea su questa vicenda del petrolio e del gas: contro cui si sollevano Regioni di destra, come il Veneto, e di sinistra, come Campania, Puglia, Basilicata?
R. Ho usato il petrolio come sfondo alla mia storia perché ho letto un intervento di Romano Prodi, due anni fa, che spiegava nel dettaglio che l’Italia ha un potenzialità enorme.
D. Prodi che, tra l’altro, le ha fatto in complimenti.
R. Sì, mi ha detto di «averlo goduto con piacere, pagina dopo pagina».
D. Ma torniamo al petrolio.
R. Ne avremmo tanto, fra Basilicata e Adriatico, ma per qualche misterica ragione non lo sfruttiamo. Anzi, come ricordava Prodi, la Croazia, dall’altra parte, ci succhia via il metano dai pozzi.
D. Altolà, lei è stato leader radicale, cosa ne avrebbero pensato gli Amici della Terra, gli ecologisti vicini ai pannelliani? Rosa Filippini, che ne era la leader ai suoi tempi, che avrebbe detto?
R. (Ride). Mi immagino che avrebbero sostenuto un concetto di ecologismo alla canadese o alla norvegese. Se lei va in quei Paesi, vedrà che sanno coniugare le ragioni dell’ambiente a quelle della produzione. Da noi, invece si confonde l’ambientalismo con l’iperprotezione, la difesa con l’immobilismo.
D. Quindi non la pensa come i governatori che hanno chiesto i referendum?
R. Non sono favorevole alle trivellazioni per partito preso, intendiamoci. Vorrei saperne di più e non tollero gli a priori. E mi faccia dire un’altra cosa.
D. Prego.
R. Trovo che anziché occuparsi degli occhioni di Giorgia Meloni o dell’ultimo pensiero di Civati sulla sinistra, i talk show dovrebbero occuparsi di queste vicende, seriamente, visto che c’è in ballo un punto e mezzo di Pil. Poi ci esaltiamo per il fatto che l’Eni trovi il gas in Egitto e ammicchiamo al nostro passato di colonizzatori, sant’Iddio.
D. Però se trovasse il petrolio nelle Langhe, a due passi dalle sue vigne, le che farebbe? Giovanni Negri finirebbe in mezzo ai Nimby riottosi?
R. Guardi, mi hanno messo dei grandi ripetitori per telecomunicazioni molto vicino e non ho esultato, ma così va il mondo.
D. E il vino va venduto. Per farlo si deve pur comunicare.
R. Esatto. In Valpollicella non si vuole un cementificio, mi pare. Tutto legittimo, per carità ma, insomma, il petrolio da estrarre in aperto Adriatico! Negri, con le sue vigne, vorrebbe sapere se può essere fatto e come. E perché in Norveglia lo facciano.
D. Lei, nel libro, cita la norvegese Stavanger, cuore dell’area estrattiva di quel Paese: è stata capitale europea della cultura, come lo sarà Matera nel 2019.
R. Già. I fiordi lassù sono stupendi, ma perché estraggono 70 chilometri a largo e veicolano il greggio in modo ipercontrollato. E perché noi non potremmo? Mi pare di sentire quelli che si oppongono a una nuova metro a Roma, su un piano più basso di quella attuale. Nun se po fa, dicono, per le vestigia romane.
D. Lei non lo crede?
R. Sottoterra potremmo fare cose stupende, una musealità nuova, per chilometri. Si potrebbe fare una seconda Roma, altroché. Ma nun se po’ fa. Salvo poi esaltarsi, come ho già detto, per il gas egiziano dell’Eni.
D. Abbiamo un po’ trascurato il suo libro Ci sono personaggi stupendamente delineati. A cominciare dal sottosegretario, Angelo Predieri, leader del partitino Estremo Centro, definizione esilarante.
R. Eh, Predieri è un politico d’assalto, che vuol lucrare una piccola rendita di posizione col suo partitino, e che ha pure il vizietto della cocaina. È l’emblema, nel libro, della casta politica.
D. Lui verrà travolto da uno scandalo sulle nuove estrazioni petrolifere.
R. Si incapriccia dell’idea di fare della Basilicata il Texas d’Italia e ci rimane fregato.
D. Lo incastra il magistrato Saverio Dioguardi che, in un fiat, dopo i successi giudiziari a danno della politica, entra in politica pure lui. Pare una storia già scritta. Un Luigi De Magistris, le diranno.
R. Non è l’unico: c’è anche quell’altro, che fa il governatore di Puglia.
D. Michele Emiliano, certo. Ma anche Tonino Di Pietro e molti altri.
R. Il mio è un magistrato d’assalto: gli basta un avviso di garanzia per mettere su il “Pool Trivelle”.
D. Un’altra casta, quella giudiziaria.
R. Poi c’è quella degli ecclesiastici, perché un altro protagonista è il cardinale Terenzio Magliana.
D. Non un papabile, lei scrive, ma un pope maker, uno cioè capace di fare i pontefici.
R. Infatti chi è Papa non conta un cazzo, mi scusi, polacco, tedesco o argentino che sia, conta la Curia, chi ha i pacchetti di voti in Conclave.
D. Su questo un po’ dubito ma qui, mi consenta, c’è un pezzo di cultura radicale: le caste in questione ricordano le battaglie pannelliane contro la partitocrazia, quelle per la “giustizia giusta” e l’anticlericalismo storico del Partito radicale.
R. Inevitabile. Ho visto in Parlamento Mauro Mellini che guardava negli occhi Giulio Andreotti e Bettino Craxi, dicendo loro che le leggi speciali approvate, un giorno, gli si sarebbero ritorte contro: «Vi verranno a prendere a casa».
D. Un profeta. Ma a questo romanzo non manca la casta della finanza?
R. Se l’avessi messa, Mps e le altre spinose vicende degli ultimi anni avrebbero finito per predominare, invece ho voluto fuggire il rischio di fare un libro che giustificasse il declino italiano per questo o quel cattivo. Non mi fregava niente incolpare il cattivo Silvio Berlusconi o i cattivi post-comunisti, men che meno la cattiva banca. Questo aspetto dietrologico lo lascio al Fatto o a Libero, che sono complottardi per vocazione.
D. E quindi la colpa di chi è?
R. Il declino del Paese ha gli aspetti miserabili di tutti noi italiani, che ci siamo tutti fermati a 30 anni fa e siamo un popolo di furbetti, alla fine. Per questo, sullo sfondo del libro non c’è House of Cards, ma un’Italia low cost, impoverita, lontana da quella ottava o nona potenza industriale del mondo che era.
D. Beh, certo se ci permettiamo di non estrarre il petrolio che abbiamo...
R. Sa cosa mi ha detto un mio amico, molto di sinistra, dopo aver letto il libro?
D. Mi dica.
R. Ha fatto un paragone cinematografico dicendo che si aspettava qualcosa alla Marco Bellocchio e, invece, ha trovato molto Alberto Sordi.
D. Un complimento?
R. Ho pensato d’esser riuscito a scrivere cose molto decenti, perché Sordi, come già prima Totò, hanno detto e dicono molto di questo Paese.
D. L’Italia ottava potenza mondiale, cui faceva riferimento prima, è quella di quando lei faceva politica. Nostalgia?
R. Nessuna. Ho preso qualche chilo e ho smesso di fumare. E poi la politica è finita da un pezzo, andiamo.
D. In che senso?
R. Insomma, andavo in Parlamento e incontravo Enrico Berlinguer, Giorgio Almirante e i dc, che erano dei colossi.
D. Adesso?
R. Adesso pare il circolo del sigaro toscano, anzi un golf club. Suona pure bene: Golf Club Montecitorio.
D. Nel senso che contano poco?
R. Un cazzo, mi permetta, non contano proprio. Il potere vero sta a Berlino, a Bruxelles, oggi contano i poteri umbratili e nascosti. Vede, è come aver mangiato da Chez Maxime, e doversi trovare alla pizzeria all’angolo.
D. Beh faccia un esempio dei suoi tempi.
R. E allora le dico un ristorantaccio che ora non c’è più, doveva andavamo spesso: Dar Boiaccaro. Ecco, tornare a far politica oggi sarebbe come passare dagli chef stellati alla trattoria un po’ andante.
D. Via su non mi dica che non ha nostalgia di via di Torre Argentina, mitica sede radicale a Roma, della radio. Non mi dica che non ascolta la conversazione domenicale di Marco Pannella con Massimo Bordin?
R. Noo, con Bordin che si fa menare? Anzi propongo un comitato per la sua liberazione.
D. Allora non la sente più davvero: Bordin non si fa affatto menare. E poi ora c’è anche Valter Vecellio con cui si alterna.
R. Vabbé fra un po’ Marco s’attaccherà da solo. Dopo Emma (Bonino, ndr) è quello che c’è da aspettarsi: Pannella che attacca Pannella (e imita perfettamente un’invettiva del leader radicale, ndr).D. Allora è vero che Pannella è stato il Crono che divorava i suoi figli politici, da Geppi Rippa a lei, a Francesco Rutelli, a Daniele Capezzone?
R. No, mi piace paragonare Pannella all’Okavango.
D. Prego?
R. Massì, è un fiume del Botswana, il quarto più lungo d’Africa. Bellissimo, ma sfocia nel deserto del Kalahari. Marco non lascia niente, non vuole lasciare nulla. Il suo percorso, la sua avventura finiscono con lui.
D. Perché scrive, Negri?
R. Posso dirlo? Per non rompermi i coglioni.
D. Ma come, un vigneron?
R. Eh, un vigneron si spacca le palle con le bolle di accompagnamento, con le fatture e, a volte, deve distrarsi. E non mi chieda, per favore, quando e come scrivo.
D. E invece lo faccio.
R. Ricordo per il mio precedente libro, uscito per Einaudi, che mi trovai al Festival del noir, a Courmayeur (Aosta) e c’era anche il povero Giorgio Faletti, che mi stupì
D. Nel senso?
R. Nel senso che eravamo a cena, con alcuni finalisti e c’era un gelo che si tagliava a fette, perché nessuno sapeva cosa dire. Fu un ragazza dell’ufficio stampa, brillantissima che chiese: «Ma voi, a che ora della giornata scrivete?»
D. E Faletti?
R. Faletti squadernò un timing perfetto, del tipo dalle 9,30 alle 12,45, quindi riposino, quindi ripresa pomeridiana.
D. E lei che disse?
R. Mi fregò un francese, di cui non ricordo il nome che disse, appunto, che scriveva quando si rompeva i santissimi.
D. E a lei succede lo stesso?
R. Esatto, quando sono in coda sul Grande raccordo anulare, in treno col Frecciarossa in ritardo, sul taxi col tassinaro romano che ti parla quando invece vorresti un po’ pensare.
D. I tassisti sono particolari.
R. Meriterebbero un libro a parte: quando avresti voglia di far due chiacchiere ti ringhiano contro, quando vorresti un po’ di silenzio, ti raccontano la loro vita.
D. E quindi lei, quando va in giro, scrive?
R. Mi appunto dei dettagli: le scarpe di una signora, l’imprecazione di un tizio, il modo di gesticolare di un altro: tiro fuori un libretto e mi appunto tutto. Roma, dove vado spesso, è una miniera dell’invettiva per esempio: l’altro giorno c’era un automobilista, muscoloso e pelato, che bloccava il traffico e un camionista, dal finestrino, gli ha urlato: «Ah Mastrolindo, quanno te va, se movemo».
Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 2/10/2015