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 2015  ottobre 02 Venerdì calendario

«LE MIE PRIME FOTO? CIMITERI E PAESAGGI SENZA GENTE»

«I Talebani, guerrieri professionisti e padroni del terreno, ci stavano tendendo un’imboscata da tre lati». Oltre ai Talebani, al maggiore Dan Kearney (di 26 anni) e agli uomini del 173 Airborne, i protagonisti della scena sono Elizabeth Rubin (inviata di punta del New York Times) e i fotoreporter Lynsey Addario (americana, voce narrante), Balazs Gardi (ungherese) e Tim Hetherington (inglese). Un po’ come se Martin Scorsese, Istvàn Szabò e Ridley Scott si precipitassero sullo stesso set per raccontare la stessa storia. Che nella realtà dei fatti si svolge nell’agosto del 2007 nella Korengal Valley, il luogo su cui allora cadeva il 70% delle bombe scaricate sull’Afghanistan, la culla della jihad perché proprio da qui era iniziata la rivolta contro i Sovietici negli Anni Ottanta.
È uno degli episodi narrati da Lynsey Addario, la più insigne fotografa di guerra, nella sua autobiografia In amore e in guerra (edito dal Corriere della Sera): il tentativo ben riuscito di raccontare a beneficio di chi non la conosce di persona le dinamiche di un mestiere spericolato, di condividere con amici e familiari le motivazioni delle scelte che hanno provocato infinite apprensioni, e di chiarire a se stessa gli impulsi che giustificano una vita a dir poco alternativa. Un libro, costruito secondo sequenze cinematografiche, che si apre con il rapimento drammatico, in Libia nel marzo del 2011, di Lynsey e di tre esimi colleghi: Tyler Hicks del New York Times, Anthony Shadid, a detta sua il miglior reporter del Medio Oriente, e l’anglo-irlandese Stephen Farrell. Tutti esperti giornalisti di guerra.
Poi un flashback porta subito il lettore al tempo della sua infanzia e giovinezza e sollecita l’interesse verso le questioni personali dell’autrice non meno delle mirabolanti avventure professionali. Nata nel 1973, Lynsey cresce nel Connecticut ed è l’ultima di quattro sorelle figlie di due parrucchieri, proprietari di un salone di bellezza particolarmente apprezzato dal pubblico gay e da travestiti che i fine settimana ravvivano casa Addario: ballano al ritmo dei Bee Gees e Donna Summer, indossano abiti sgargianti, agitano indimenticabili boa di piume e non disdegnano sostanze illecite. Figlio di italiani giunti con altri migliaia a Ellis Island nel 1921, Phillip, questo il nome del papà, fino alla fine degli Anni Settanta si sforza di rispettare le regole di una cultura conservatrice. Poi la svolta. Lascia la famiglia per Bruce, un amico della moglie che i coniugi Addario avevano accolto come apprendista nel loro salone. Durante una delle rare visite della ragazzina alla coppia, Lynsey vede una macchina fotografica, regalo di un cliente. Vuole tenerla in mano e il papà gliela dona. Una Nikon, la macchina che usa ancora oggi: «Sedevo sul tetto e tentavo di fotografare la luna. Ero troppo timida per volgere l’obiettivo verso le persone, così fotografavo i fiori, i cimiteri e i paesaggi senza gente». È la scintilla destinata a deflagrare.
Forte del mantra materno (“Fai ciò che ti piace e avrai successo”), dopo la laurea in relazioni internazionali e un viaggio in Europa dove, cominciando da Bologna, veste i panni della street-photographer, Lynsey sceglie l’America Latina e sfinisce con la sua insistenza i photo editor del Buenos Aires Herald che di lei non ne vogliono sapere. Esasperati, le lanciano una sfida: fosse riuscita a fotografare Madonna sul set di Evita, le avrebbero offerto un lavoro. Le guardie della Casa Rosada diventano le nuove vittime della neo-stalker fino a quando, da paparazzo, scatta una fotografia della star sul balcone presidenziale che raggiunge la prima pagina del quotidiano argentino e le procura un contratto da 10 $ a foto. Da quel giorno non tornerà mai in redazione a mani vuote. Ma ciò non le basta. Scopre le foto di Sebastião Salgado e, folgorata dalla bellezza e dalla dignità con cui il famoso autore documenta la miseria umana, si arrende al demone del fotogiornalismo. «Dubitavo di essere capace di catturare tanto dolore e tanta bellezza in un singolo scatto… visitai la mostra e piansi».
Il libro non è solo una sequenza degli episodi vissuti dall’autrice che sottolineano con che caparbietà impari a leggere la luce, apprenda l’importanza della composizione e alleni l’arte della pazienza. È la generosa condivisione delle incertezze, sia nella vita personale che professionale, e dei pensieri contraddittori che agitano una protagonista indiscussa del giornalismo moderno: quello dopo l’11 settembre, messo in crisi dagli apparecchi digitali che fanno di ognuno un potenziale reporter, castigato da neologismi sgradevoli e subdoli (“embedded”, un termine che designa chi è al seguito di un esercito e da quest’ultimo censurato), soggiogato dal mito della velocità (in questo caso di trasmissione e pubblicazione delle fotografie) che è nemica della riflessione e dell’approfondimento. È il diario di una donna che non smette mai di adattarsi alle variabili del mestiere (“non conoscevo il linguaggio della guerra”) e di coltivare il rispetto per le culture e per le persone che incontra e fotografa.

Il castello del marito. Le sue prime aspirazioni subiscono una svolta all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle. Era stata a lungo in India e anche in Afghanistan già dominato dai Talebani. Ma mai prima di allora aveva pensato che la guerra fosse parte integrante della sua vocazione. La prima tappa è Peshawar, Pakistan. Usa il suo genere per intrufolarsi nell’universo femminile, recluso e inaccessibile, e con sua sorpresa scopre i tanti pregiudizi che gravano su quel mondo: «Ero affascinata dalla possibilità di dissipare gli stereotipi attraverso le mie fotografie… imparai velocemente ad agire come un messaggero, latore delle idee delle persone che fotografavo».
A poco a poco si avvicina sempre di più al fronte. È in Iraq, nel 2003, che impara a riconoscere dal suono i missili cruise, le granate e i mortai. Oramai è un combat photographer, alto poco più di un metro e mezzo, accolta con diffidenza dai soldati che considerano la presenza di una donna, oltretutto così minuta, un sicuro intralcio alle loro manovre. Il libro, scritto da una mente brillante e sensibile alle sfumature antropologiche, non teme di svelare la superficialità dei suoi connazionali: «Gli americani non capivano il valore dell’onore e del rispetto nella cultura araba… Per un uomo arabo il fatto che degli stranieri possano vedere la loro moglie con il capo scoperto è un disonore e una vergogna che merita vendetta…Sotto Saddam (l’Iraq) aveva proprie infrastrutture… Gli arabi attraversavano il Medio Oriente per frequentare l’Università di Baghdad… Gli americani volevano portare la democrazia in Iraq, ma una forma conveniente di democrazia che permettesse loro di censurare i media… A noi era concesso di riprendere solo ciò che la gente coi fucili voleva che vedessimo».
Sempre in Iraq sperimenta il suo primo rapimento e la morte di alcuni colleghi. Dal 2003 al 2009 si divide tra il Medio Oriente, il Sud Sudan e la Repubblica Democratica del Congo, dilaniati dalla guerra civile, dove incontra le donne la cui vita è distrutta dalla violenza subita dai soldati che considerano lo stupro un’arma di guerra come tante altre. In Africa per sei anni gode di un accesso privilegiato grazie alle grandi testate che la sostengono: Time, New York Times e National Geographic. Le appare chiaro che il percorso intrapreso la porterà sempre più lontano da una vita tradizionale e che nessun partner potrà mai accettare le lunghe assenze, le partenze improvvise e le apprensioni intrinseche al suo mestiere. L’autobiografia dedica pagine e pagine alle sue storie d’amore fallite, ai tradimenti inferti e subiti, fino all’accettazione dolorosa di una vita votata alla sua passione e quindi alla solitudine. Poi accade l’imprevedibile: a Istanbul conosce Paul de Bendern, caporedattore della Reuters. È affascinato dal lavoro di Lynsey ed è orgoglioso dei suoi successi. È persino più ostinato di lei tanto da riuscire a debellare le più grandi resistenze della fotografa: prima al matrimonio e poi alla maternità. Dopo gli avvenimenti della Korengal Valley, dove in seguito all’imboscata il Sergente Rougle trova la morte (le sue fotografie di quell’evento, che si discostano dalla rappresentazione ufficiale, incontreranno la censura dei giornali americani), dopo aver afferrato il Pulitzer per una lavoro di squadra realizzato per il New York Times (Talibanistan), dopo essere scampata a un incidente, sposa Paul. In un castello nel sud della Francia che appartiene al neo suocero. Perché, come nelle migliori fiabe, scopriamo che lo sposo è un conte. Esilarante la descrizione della cerimonia, dove i conti de Bendern si fondono con gli eccentrici Addario, Bruce incluso (ancora oggi compagno di Phillip), che la mamma di Lynsey, abbracciata all’uomo che le aveva rubato il marito, definisce “una vera regina”.
Poco dopo riceve il MacArthur “genius” Grant: una telefonata le comunica il premio da 500 mila dollari (erogato in 5 anni). E pensare che per acquistare il primo kit fotografico e affrontare le spese dei primi viaggi aveva impegnato la dote che il papà aveva pattuito per ogni figlia.
La fede al dito non è un deterrente. Il mondo è preso in contropiede dalle “Primavere Arabe” e lady Lynsey non resiste al richiamo della polvere da sparo. In Libia è rapita, picchiata, molestata, infine rilasciata con i suoi compagni. Al ritorno a casa la notizia: Chris Hondros e Tim Hetherington sono morti a Misurata. La morte di Tim, scampato con lei nella Korengal Valley, vincitore con un documentario del Sundance Film Festival, nominato agli Oscar quello stesso anno, amico di chi si occupa in vario modo di fotogiornalismo, lascia tutti attoniti. La sua risposta al dolore è la maternità. Nove mesi dopo nasce Lukas, il suo capolavoro. L’unico in grado di tenerla lontana dalla linea del fronte per quanto, dall’inizio della guerra in Siria, Lynsey Addario abbia seguito l’odissea dei profughi in Iraq, Turchia, Giordania, Libano. Il re del cinema pop impegnato, Steven Spielberg, si è precipitato ad acquistare i diritti dell’autobiografia. D’altra parte la storia di Lynsey narrata da Lynsey è vera quanto Schindler’s List, più avvincente di Indiana Jones e più emotiva di Always. Chi, dopo aver letto il libro, riuscirà a dar torto al regista?