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 2015  ottobre 02 Venerdì calendario

LA CRISI DELLA VERITÀ

Ogni anno, quando arriva l’autunno, mi viene voglia di rileggere Il nome della rosa. Altri libri sono stati importanti nella mia formazione, ma non ho mai provato l’istinto di rileggerli. Il Werther di Goethe ad esempio mi sembra molto lontano nel tempo, e non sono così sicuro sia bene metterlo in mano a un adolescente e contagiarlo con una visione romantica che allontana l’amore dalla terra per confinarlo nell’uranio dell’ideale e di conseguenza dell’inattingibile. Altri classici li tengo sempre sul comodino e vado ogni tanto a rileggerne qualche passo, ad esempio I promessi sposi ma anche le opere di Giorgio Bocca ed Enzo Bettiza, tanto più vive e vere delle astrazioni dei “giovani scrittori”; e ovviamente la saga di Fantozzi di Paolo Villaggio, l’autore che negli ultimi cinquant’anni ha cambiato di più il linguaggio degli italiani. Per farla breve, in questo inizio di autunno ho riletto per l’ennesima volta Il nome della rosa, traendone il consueto piacere intellettuale. È stato, è e sarà un libro importante, non solo per gli infiniti spunti che offre, per i vari campi in cui conduce il lettore: l’interpretazione dei segni, il rapporto tra i nomi e le cose, il fascino del pensiero medievale. All’apparenza libro senza tempo, in realtà Il nome della rosa, pubblicato nel gennaio 1980, apriva il decennio in un momento di svolta della vita pubblica europea, in cui l’Occidente usciva dalla sbornia ideologica post-68 — quando “circolava la persuasione che si dovesse scrivere solo impegnandosi sul presente, e per cambiare il mondo” — e l’uomo di lettere “restituito alla sua altissima dignità” poteva ricominciare a “scrivere per puro amor di scrittura”. Ovviamente la storia di Adso da Melk non è affatto (al contrario di quel che scrive Eco nella premessa fascinosamente ambigua) “gloriosamente priva di rapporto coi tempi nostri, intemporalmente estranea alle nostre speranze e alle nostre sicurezze”. Il nome della rosa, come i successivi libri di Eco — alcuni strepitosi come Il cimitero di Praga —, è incentrato su un tema attualissimo: la crisi della verità. La verità perduta delle ideologie, la verità infiammata dei fondamentalismi religiosi (di cui abbondava la cristianità medievale), la verità inventata dei complotti (di cui abbonda il web).

fine delle ideologie. Il libro è racchiuso tra l’episodio iniziale, in cui Guglielmo indirizza il cellario alla ricerca del cavallo dell’abate e ne indovina anche il nome, Brunello, senza averlo mai visto, a ricordarci che non soltanto la natura ci parla attraverso i suoi segni, ma il monaco medievale vedeva le cose attraverso i libri e le auctoritates che li avevano scritti, “specialmente se è un dotto benedettino”, dice sorridendo il francescano Guglielmo, e lo straordinario dialogo finale con Jorge da Burgos, il cieco che conosce a memoria i libri della biblioteca e non a caso porta un nome che somiglia a quello di Jorge Luis Borges: «E ora io vi dico che, nella infinita vertigine dei possibili, Dio vi consente anche di immaginarvi un mondo in cui il presunto interprete della verità altro non sia che un merlo goffo, che ripete parole apprese tanto tempo fa». La crisi della verità è legata certo alla fine delle ideologie e all’indebolirsi della politica. Ma è un tema che attraversa l’intero nostro tempo, dal complottismo (già al centro del Pendolo di Foucault) alimentato dalla rete al relativismo contro cui Ratzinger ha costruito la sua elezione e il suo papato. È un tema che i “ragazzi di via Po”, come ho chiamato in un libro di vent’anni fa il gruppo di amici cresciuto a Torino tra la scuola di Bobbio e la neonata Rai, avevano ben presente. Ha la stessa radice il “pensiero debole” di Gianni Vattimo, che nonostante le sciocchezze contro Israele e la Tav resta una delle persone più intelligenti che abbia conosciuto. Ho rivisto Umberto Eco e un altro dei ragazzi di via Po, Furio Colombo, intellettuale libero e uomo generoso, una di queste sera a Camogli. Si raccontavano barzellette in dialetto piemontese, loro che hanno insegnato in inglese e in tedesco nelle più importanti università del mondo. Dopo di loro il successo intellettuale e letterario (sia pure in minor misura) ha arriso talora a personaggi che non li valevano, avari di sé, impostori, brutti fuori e dentro come Tersite.