Alessandro Gnocchi, Il Giornale 13/9/2015, 13 settembre 2015
ECCO IL NUOVO GREGGE INTELLETTUALE: I PROFESSIONISTI DEL PRONTO SOCCORSO
A ll’inizio fu il radical chic, il ricco borghese attratto dalle cause rivoluzionarie. In questo tipo umano, il pensiero avanzava su una doppia pista, come spiega Tom Wolfe nel reportage del 1970 (Radical Chic, ora Castelvecchi, 2014) dedicato al party di Leo Bernstein a sostegno delle Pantere nere. «Prima pista: beh, è chiaro che si ha un sincero interesse per i poveri bisognosi e una sincera rabbia rispetto alla discriminazione... d’altro canto - nella seconda pista della mente - si ha un sincero interesse a che la Società newyorchese mantenga uno stile di vita proprio dell’East Side». La borghesia è brutta. Ribelli e diseredati sono belli. Soprattutto se risiedono «a tremila miglia di distanza dall’East Side di Manhattan».
Con il crollo del Muro, il radical chic si trasformò in marxista rococò. Tom Wolfe registra l’evoluzione in un articolo ora nella Bestia umana (Mondadori, 2003). Secondo il marxista rococò il potere andava consegnato nelle mani delle élite «davvero» democratiche (cioè post-comuniste) a causa della loro superiorità morale. Il proletariato si era infatti rivelato una completa delusione. Il marxista rococò continuava a fustigare la borghesia con un fumoso armamentario filosofico imbottito di citazioni da Jacques Derrida o Michel Foucault. Questa moda culturale, che considerava il linguaggio una forma di oppressione da smascherare, ci ha «regalato» il politicamente corretto, la convinzione che spostare l’attenzione dalla realtà alle parole sia la vera soluzione del problema. Pura illusione, come ha spiegato Robert Hughes nella Cultura del piagnisteo (Adelphi, 1994). Il male, il pregiudizio e le differenze non svaniscono «con un tuffo nelle acque dell’eufemismo». Hughes notava l’ampliarsi del parterre di minoranze vittime della società: «L’assortimento disponibile una decina di anni fa - negri, chicanos, indiani, donne, omosessuali - è venuto allargandosi fino a comprendere ogni combinazione di ciechi, zoppi, paralitici e bassi di statura o, per usare i termini corretti, di non vedenti, non deambulanti e verticalmente svantaggiati. Mai, nel corso della storia umana, tante perifrasi hanno inseguito un’identità».
Oggi il paladino politically correct si è evoluto in «socialista umanitario». Ne annunciò l’avvento Jean Raspail nel Campo dei Santi (1973, ora Il cavallo alato, 1998), un romanzo in cui si immaginavano gli effetti disastrosi di un’immigrazione di massa verso l’Europa, invocata da irresponsabili «professionisti del pronto soccorso». Il socialista umanitario non distingue tra profugo e immigrato, non si interroga sugli effetti dell’esodo sulla società aperta, non gli interessa discutere di modelli di integrazione, non si chiede se il welfare sia in grado di reggere all’impatto. Per il socialista umanitario, l’accoglienza indiscriminata è il nostro destino e la vera identità dell’Europa. Chi non la pensa così ha la scabbia mentale.
Seguiamo il ragionamento di Raspail, integrandolo con alcune riflessioni da L’identità infelice (Guanda, 2015) del filosofo Alain Finkielkraut. Il socialista umanitario, in lotta contro la disuguaglianza globale, si ritiene anticonformista ma sfonda «soltanto porte aperte». Crede di sfatare i luoghi comuni ma è «prigioniero delle mode» e inibito «da innumerevoli tabù». Il prezzo della sua indignazione è fissato dal mercato che sogna di abbattere. Il socialista umanitario consente alla borghesia di espiare i propri peccati immaginari, di rammendare i sensi di colpa instillati dal... dal socialista umanitario stesso con i suoi vibranti interventi. Per questo vende e fa vendere, come risaputo da ogni uomo di marketing culturale. Sta bene ovunque lo metti: tra gli scaffali, in forma di pamphlet; in televisione, nelle vesti di opinionista; ai festival, come oratore di richiamo. Mentre il portafogli si gonfia, il socialista umanitario «canta la liberazione dell’uomo mediante la soppressione del profitto», nega la ricchezza «che incatena e insudicia le coscienze», predica l’uguaglianza, invoca «l’abolizione di ogni costrizione sociale». Il socialista umanitario ama tutte le cause disperate e insinua un dubbio nell’opulento Occidente. Se possiamo, attraverso l’accoglienza e la cooperazione, salvare i miserabili del Terzo mondo, perché non estendere tale piano anche ai poveri di casa nostra? È il ritorno dell’utopia sconfitta nel 1989 ma questa volta la rivoluzione vincerà perché sarà la rivoluzione della bontà. Come osserva Finkielkraut, il borghese «catturato» dalla nuova ideologia denuncia la segregazione degli immigrati nelle periferie ed esalta l’abolizione delle frontiere ma pratica l’isolamento quando sceglie la casa in cui vivere; glorifica il «meticciato» ma come massimo contributo all’ibridazione delle culture porta in tavola cibi esotici; apprezza tutte le cucine, tutti i sapori, tutte le musiche senza rendersi conto di trasformare la diversità in merce tra le merci. Il socialista umanitario ha vinto e ha un solo timore: non belare a tono abbastanza alto.