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 2015  settembre 12 Sabato calendario

I MIEI ANNI CON OBAMA: «L’HO VISTO INVECCHIARE ALLA MORTE DEGLI OSTAGGI»

WASHINGTON «I momenti più drammatici vissuti con lui? La morte di 17 Navy Seals quando, nel 2011, i talebani abbatterono un elicottero durante una missione in Afghanistan ordinata dal presidente. E, più di recente, il volontario italiano Giovanni Lo Porto e l’ostaggio americano Warren Weinstein uccisi in un attacco di droni deciso per eliminare alcuni terroristi. Ero con Obama quando è arrivata la notizia: l’ho visto letteralmente invecchiare davanti ai miei occhi. Mi sono messo subito a scrivere un comunicato. Ma lui ha deciso di esporsi in prima persona. Mi ha detto: “È successo in seguito a una mia decisione, devo andare io davanti alle telecamere. Spiegare e prendermi le responsabilità”. Ma ci sono stati anche tanti momenti belli: l’alzabandiera nell’ambasciata Usa riaperta a Cuba, l’intesa con la Cina per evitare il disastro ambientale, l’accordo nucleare con l’Iran. Ero nello studio Ovale con Obama quando, due anni fa, parlò al telefono col presidente Rouhani. Un momento emozionante: sentivamo tutto il peso di quanto accaduto dal 1979 in poi, ma vedevamo anche le opportunità che si aprivano».
Al centro degli eventi
A 37 anni Ben Rhodes è già un «grande vecchio» dell’Amministrazione Obama. Vecchio perché è, fin dal primo giorno, a fianco del presidente che sta per entrare nel suo ultimo anno alla Casa Bianca. Anzi, è con lui ancora da prima: dalla campagna elettorale del 2008. Da vicecapo del Consiglio per la Sicurezza nazionale ha contributo più di chiunque altro a dare forma alla politica estera del leader democratico: prima scrivendo i suoi discorsi sui rapporti internazionali a cominciare da quello del Cairo del 2009, poi partecipando in prima persona negoziati, spesso segreti: da Cuba alla Birmania, passando per Cina e Iran.
Rhodes mi riceve nel suo microscopico ufficio nella West Wing della Casa Bianca: meno di dieci metri quadri, zero finestre. Alle sue spalle un’immagine di Obama che gioca con dei ragazzini. Sul tavolo una foto di Emma, nove mesi, figlia di Ben, e della moglie Ann che lavora al Dipartimento di Stato.
Emma forse doveva arrivare prima. Sette anni con Obama, sempre in allarme per le crisi che scoppiano nel mondo. Deve essere stata dura. Eppure lei è l’unico, assieme a Valerie Jarrett e al capo di gabinetto Denis McDonough, ad essere stato con Obama fin dal primo momento. Tutti gli altri collaboratori e consiglieri prima o poi se ne sono andati: per esigenze familiari o per alter scelte professionali. Lei no. Cosa la trattiene?
«Certo, ho dovuto modificare i miei progetti familiari: un lavoro come questo ti sconvolge la vita. Due anni fa, nel mio primo giorno di vacanza, arrivò l’attacco chimico siriano. Cancellai tutto. L’anno scorso le ferie le ho fatte a fianco al presidente, a Martha’s Vineyard: convocato d’urgenza per via della crisi in Ucraina e dell’offensiva dell’Isis. Ma è così tutti i giorni: le crisi in Asia, Africa o Europa vanno affrontate quando esplodono, a qualunque ora. Obama, poi, ama limare i suoi discorsi di notte. A volte mi chiede di tornare alla Casa Bianca dopo mezzanotte. E, certo, chi se ne va da qui dopo un po’ appare in forma assai migliore: pesa venti libbre di meno e sembra più giovane di cinque anni. Ma io rimango in questo sotterraneo senza finestre perché qui sei al centro degli eventi ed hai una possibilità unica di plasmarli in un periodo storico di grande complessità e di profonde trasformazioni. Non esiste un altro lavoro come questo: già so che mi mancherà. E poi restare significa vedere realizzato un progetto, cogliere i frutti del lavoro fatto. L’obiettivo di recuperare l’Iran nello scacchiere internazionale Obama se lo è dato nel 2007: una promessa della sua prima campagna. Me ne fossi andato tre anni fa, non avrei visto l’accordo nucleare realizzato, la battaglia politica per farlo accettare, il voto del Congresso che blocca i tentativi di farlo colare a picco».
C’è chi vi accusa di condurre una politica estera un po’ «naive» perché avete accettato un’intesa basata sulla speranza che Teheran rinunci all’arma atomica avendo sperimentato i benefici del ritorno nella comunità internazionale. Sperare, dicono, è legittimo, ma non è una strategia di sicurezza nazionale.
«Io credo che sia “naive” cercare di smontare un accordo negoziato per anni metodicamente, con grande determinazione e cura per tutti i dettagli, in nome del ritorno a una logica del passato che ha prodotto solo situazioni di stallo. Abbiamo negoziato per anni su tutto, cercando ogni salvaguardia possibile per assicurarci che gli iraniani non imbroglino. Certo, quello di Teheran rimane un regime profondamente diverso, ma è questo il mondo nel quale viviamo. E l’accordo può aprire la strada a scenari e soluzioni politiche un tempo impensabili. Non si può partire dal presupposto che l’Iran non cambierà mai: in politica estera devi considerare le opportunità, non solo le minacce».
Lei ha studiato scienze politiche, ma il suo master è in scrittura creativa. Le manca l’esperienza di una carriera diplomatica?
«Prima di andare con Obama ho lavorato per cinque anni per il senatore Lee Hamilton. Con lui mi sono occupato molto di affari internazionali. E lì ho iniziato anche la mia carriera di “speechwriter”».
Dalla fiction al potere
Com’è arrivato alla politica? Dopo l’università sembrava voler fare lo scrittore. Ha lasciato a metà un romanzo, «Oasis of love», su una donna che abbandona il suo «boyfriend» per entrare nella congregazione di una mega-chiesa di Houston. Lo finirà quando lascerà la Casa Bianca?
«No, resterà nel cassetto. Non so cosa farò in futuro. Quella che sto facendo rimarrà un’esperienza unica. Non mi ci vedo a entrare e uscire da incarichi amministrativi. Voglio sicuramente essere un autore, ma non nel campo della fiction. Quanto all’impegno in politica, è una decisione che ho preso esattamente 14 anni fa, il giorno dell’attacco alle Torri gemelle. Ero sul lungomare di Brooklyn, alla manifestazione elettorale di un candidato locale, un consigliere comunale che stavo aiutando. Vidi, al di là della baia, il secondo aereo di Al Qaeda infilarsi nelle torri e poi il primo grattacielo sbriciolarsi e precipitare. Decisi allora di passare dai racconti di fantasia a qualcosa che incidesse sulla realtà politica».
Obama guarda all’Asia, al «free trade», all’ambiente, ma l’emergenza con la quale si deve confrontare ogni giorno è il terrorismo. Una guerra combattuta coi droni: meno vittime che con l’invio di truppe, ma finisci per emettere sentenze di morte senza processo. Perché Obama si è preso questa responsabilità anziché delegarla ai militari?
«Per lui è un macigno, ciò che più lo tormenta. È una cosa terribile, ma sa anche che è il meno cruento degli strumento a sua disposizione. Per questo è diventato molto prudente nell’utilizzo dell’apparato bellico americano. Intanto cerca, anche per il futuro, di codificare un sistema basato il più possibile su dati oggettivi, in modo da ridurre al minimo la discrezionalità dell’intervento presidenziale. Ma la responsabilità finale non può che essere della Casa Bianca».
Il terrorismo che sbriciola gli Stati provoca fenomeni migratori biblici. L’America che promette di prendere diecimila siriani in più non sembra pronta a fare molto.
«Ci impegneremo di più ma, fin dai tempi del Vietnam, abbiamo accolto molti rifugiati. E abbiamo i nostri problemi nelle Americhe: il Salvador, per esempio, è una polveriera dalla quale chi può scappa».
L’ultima stagione
Può raccontare qualcosa delle trattative segrete per Cuba che lei ha condotto in prima persona? E fino a che punto questa ricucitura è merito anche di papa Francesco che nei prossimi giorni sarà all’Avana prima della sua visita negli Stati Uniti?
«Abbiamo negoziato per un anno e mezzo coi cubani, in tutta segretezza. Ci incontravamo in Canada, ad Ottawa. È servito tempo per conoscerci, per costruire un rapporto di fiducia reciproca. C’erano molti nodi difficili. Quando, alla fine, ci è sembrato di avere una buona bozza, siamo andati tutti in Vaticano. Un momento incredibile: noi e i cubani fianco a fianco a trasformare le cose dette fin lì in modo informale in impegni davanti all’autorità della Chiesa. All’improvviso tutto è diventato reale: non si poteva più tornare indietro. Ricordo la sensazione di leggerezza quando sono uscito dal Vaticano con l’altro negoziatore americano. Abbiamo vagato per Roma, poi siamo andati a cena in un ristorante tipico, consapevoli che ormai il dado era tratto: era tutto nelle mani della Chiesa. Il ruolo del Papa è stato fondamentale. E non solo su Cuba: è un leader spirituale, ma anche un personaggio la cui voce è importante nelle sfide che affrontiamo tutti i giorni, dalle diseguaglianze all’ambiente. Il Pontefice è stato spesso fonte di ispirazione su vari fronti per il presidente che lo aspetta a Washington con impazienza».
Il Papa alla Casa Bianca apre una stagione intensa. Obama si gioca buona parte della sua eredità politica.
«È vero: abbiamo la visita del presidente cinese Xi Jinping, l’assemblea dell’Onu, speriamo di chiudere il trattato di “free trade” con l’Asia e di arrivare a un grande accordo sul clima alla conferenza di Parigi, a dicembre: un’intesa che inseguiamo dalla conferenza di Copenaghen del 2009 che non dette i risultati sperati. Un altro motivo per restare alla Casa Bianca a cogliere i frutti, come dicevo prima».
Cosa ha reso così stretto il suo rapporto col presidente?
«Credo sia dipeso dal fatto che ho sensibilità abbastanza simili alle sue. Poi la sua volontà di prendersi rischi, di sfidare il vecchio modo di Washington di affrontare i problemi: voltare pagina e aprire la strada a una generazione più giovane. Ma ha contato molto anche il fatto che ho cominciato a lavorare con lui come “speechwriter”: un’attività che ti porta a stretto contatto col tuo capo. Devi conoscere bene la persona perché fai qualcosa di molto personale: esprimi i suoi pensie-ri, comunichi la sua visione. Un’esperienza unica».