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 2015  settembre 12 Sabato calendario

KEANE, NATO PER COMBATTERE KEANE, NULLA È PIÙ BELLO DEL GIOCARE A CALCIO

Io giocavo al centro del campo di battaglia». Centro. Battaglia. Bisogna partire da qui per capire chi è Roy Keane e perché abbia deciso di mettersi nelle mani di Roddy Doyle per raccontare la propria vita ne Il secondo tempo, in uscita da Guanda (di cui pubblichiamo qui sotto un brano in anteprima). Keane e Doyle sono due irlandesi e può anche darsi che le comuni radici abbiano giocato un ruolo importante, che l’intesa sia scaturita più naturale. Intendiamoci, qui la star è Doyle, il suo è un successo che arriva da lontano e non c’è nemmeno bisogno di ricordarne le medaglie, ma per oltre trecento pagine si prende il gusto di fare da uomo assist. Roy Keane è lo stereotipo, se ce ne è uno, del calciatore britannico: duro, rissoso, vendicativo, coraggioso. Aggettivi non necessariamente in questo ordine. L’ultima delle sue qualità è la tecnica. Casualmente, ma neanche troppo, sta in coda anche tra i suoi difetti.
Keane ha giocato con il Manchester United a cavallo tra gli anni novanta e il Duemila, era un centrocampista («lo facevo da quando ero bambino, passare la palla e spostarmi») e con quella maglia ha vinto tutto quello che poteva vincere. In quella formidabile orchestra, però, a suonare il pianoforte erano gli altri, lui lo spostava.
Il secondo tempo è un libro severamente vietato alle donne e non solo perché è la storia di un uomo e dei suoi combattimenti, ma perché del calcio vengono servite le interiora e non il filetto. Devono piacere i sapori forti. E bisogna avere visto giocare almeno una volta Roy Keane.
Uno finito sotto processo (sportivo) e punito con un filotto di squalifica e una multa di 400mila sterline per un vendicativo fallo su un avversario che quattro anni prima gli aveva rotto la gamba. «Nella mia carriera ho fatto un sacco di falli e conosco benissimo la differenza tra entrare duro e fare male a qualcuno. Chi gioca a calcio sa come si spaccano le gambe».
Non è nato per picchiare, Keane. Ma ha sempre saputo come farlo. Per difendere il territorio e i suoi compagni. La maglia e l’onore. Da gregario prima, da capitano poi. «Mai mostrare che sei debole, che stai male, resisti. Non essere debole, gioca anche quando non stai bene»: sembra football delle caverne, ma è solo l’altroieri.
Nello United ci ha giocato per dodici anni fino al 2005 e vinto ogni trofeo, dominavano l’Inghilterra e pure il mondo. In quella squadra c’erano lui e David Beckham: Roy il mastino, David il fighetto, ecco, potete immaginare due tipi più diversi di loro due?
Per uno partito da Cork e diventato grande in Inghilterra, la vita ha sempre avuto un retrogusto nostalgico. Spesso, lo stesso della birra. Doyle si fa raccontare delle bevute neanche troppo clandestine, («mai due sere prima della partita. In qualunque giorno cadesse. Sì, anche bere tre sere prima non è l’ideale, allora pensavo di poter gestire la cosa»), è la fotografia di un calcio che non ci è mai appartenuto, una filosofia che però ammiriamo quando vediamo il campionato inglese in tv, i loro stadi stracolmi e quel modo di giocare così ricco di testosterone. Roy Keane ne è stato attore protagonista e quando ha provato a cambiare copione si è sentito come un pesce fuor d’acqua.
A Doyle confessa quando arrivò in Italia, a Milano, per una cura alimentare disintossicante. In clinica gli tolsero la carne, come a un vampiro il sangue, gli sembrava di stare bene, ma la sensazione durò così poco che appena rientrato in Inghilterra riprese le vecchie abitudini: «Forse stavo cercando di mangiare e vivere come un giocatore italiano o francese, ma io sono un irlandese». Quell’irlandese che fa a botte nei corridoi di un hotel alle due di notte con un compagno di squadra manco fossero in un cortile di Cork, importandogli assai poco delle conseguenze che ci sarebbero state. In squadra come a Cork. «Distruggo le cose e poi ricomincio da capo. Dentro di me c’è sempre stato un pulsante di autodistruzione».
Bere era il suo modo di scappare dal mondo: sono le pagine più calde del libro, il calcio è una musica di sottofondo ma non sono note da zona lounge, è una ballata triste. Con un fondo di aggressività mai sopita. Per Keane, infatti, «la rabbia è un meccanismo di autodifesa». E lui così aggressivo sul campo è come se da qualcosa si fosse dovuto sempre difendere. Da cosa, lo si capisce quando smette di giocare e comincia la seconda vita, il «secondo tempo»: fare l’allenatore, dare ordini anziché prenderli. Gestire una squadra, la stampa, i presidenti, i tifosi anziché solo se stesso. Una nuova vita cui fatica ad abituarsi, dare l’esempio può essere difficile se sei stato anche un cattivo maestro. «C’era la consapevolezza che qualunque cosa avessi fatto, non sarebbe stata bella come giocare a calcio». Un pallone è l’emozione allo stato primordiale, un incredibile oggetto del desiderio. Per Roy Keane, ora vice allenatore della sua Irlanda, continua ad essere il centro di gravità cui ruota la vita. Ma si capisce che niente potrà mai eguagliare quel lungo, rissoso e indimenticabile primo tempo.
Paolo Brusorio, TuttoLibri – La Stampa 12/9/2015