Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  settembre 12 Sabato calendario

DA AMANDA E RAFFAELE AL MURATORE DI MAPELLO TRA IMPUTATI “PERFETTI” E PESO DECISIVO DEL DNA

Le ultime decisioni della Cassazione sui grandi casi di cronaca nera indicano che nel processo indiziario la valutazione della prova deve essere davvero effettuata al di là «di ogni ragionevole dubbio» e che a prevalere deve essere uno spirito garantista e non di «spasmodica ricerca» di colpevoli «da consegnare all’opinione pubblica». Formula contenuta nelle più recenti motivazioni del processo Knox-Sollecito e che in un certo senso riverberano anche sul dibattimento in cui è imputato Massimo Bossetti, il carpentiere di Mapello accusato di aver ucciso la 13enne Yara Gambirasio nel novembre del 2010.
LE INCHIESTE
Con le dovute differenze. Se nell’inchiesta perugina i due “colpevoli” vennero individuati quasi subito e la rimanente istruttoria venne costruita sulle loro personalità e quasi “viziata” dalle stesse, nelle indagini bergamasche per tre anni gli investigatori hanno lavorato “al buio”, ricostruendo le fasi di un delitto e la possibile personalità dell’assassino senza un’identità precisa, il famoso “Ignoto Uno”. Preservando così la genuinità delle loro ricerche svolte senza pregiudizio: gli investigatori non si sono “innamorati” del colpevole, come purtroppo talvolta accade. Solo una volta individuato il nome di un indiziato, ovvero Bossetti, si è potuto fare un percorso a ritroso per vedere se i risultati delle indagini combaciavano con la sua personalità e i suoi movimenti. Trovando in ciò riscontri più che sufficienti per chiederne il rinvio a giudizio in un processo nel quale il muratore rischia l’ergastolo.
La prova regina dell’inchiesta è un frammento organico nemmeno perfettamente definito (sangue, saliva o sperma) ritrovato sui leggins e su un lembo delle mutandine di Yara, contenente una traccia di Dna che confrontato con quello prelevato al muratore di Mapello, ha dato esito positivo: ha attribuito a Bossetti la paternità di quella traccia. Senza ombra di dubbio stando alla relazione dei periti dell’Università di Pavia, corroborati finora da almeno 5 giudici di merito (Cassazione inclusa) che hanno sempre respinto le istanze contrarie della difesa, la quale ha invece contestato questo risultato su almeno due piani. Il primo relativo all’incertezza del Dna estratto dai mitocondri, gli organi di respirazione della cellula che non hanno dato un riscontro sicuro sull’appartenenza al muratore di Mapello. Va però considerato che il Dna mitocondriale non è utile per l’identificazione quanto quello nucleare che ha fornito senza dubbio l’identità di Bossetti e che è l’unico ad avere peso legale in un processo. L’altro punto contestato dalle difese è l’esiguità del reperto biologico trovato sul corpo di Yara e l’irripetibilità dell’esame del Dna. Circostanza che apparentemente sembra stagliarsi anche nel caso Meredith, dove i giudici supremi scrivono che «la sola traccia biologica» rinvenuta su un gancetto del reggiseno della vittima, «non offre certezza alcuna», «giacché quella traccia è insuscettibile di seconda amplificazione, stante la sua esiguità…». In altre parole, sembrerebbero affermare i giudici, se il reperto biologico è troppo piccolo e un esame non è ripetibile, è «privo di valore indiziario». Ma vale solo per il caso Meredith. Non per Bossetti, visto che le sue difese non hanno mai chiesto una nuova perizia del Dna, avendo rinunciato a un incidente probatorio o una perizia prima che si concludesse l’inchiesta. La Cassazione ha poi già stabilito che l’esame del Dna svolto dagli inquirenti è stato legittimo e dunque con tutti i crismi delle “fonti di prova”. Infine a rendere complicata la difesa di Bossetti ci sono almeno altri tre elementi indiziari.
GLI INDIZI
Il primo: la fibra dei sedili del furgone del muratore trovata sulla parte posteriore dei leggings di Yara, che dimostrerebbe che la ragazzina salì sull’Iveco cassonato. Il secondo: le telecamere della zona intorno alla palestra di Brembate filmarono il furgone mentre si aggirava nelle strade adiacenti nell’ora in cui Yara scomparve. Il terzo: un testimone descrisse il furgone di Bossetti mentre faceva una manovra spericolata per posizionarsi davanti alla palestra da cui da lì a poco sarebbe uscita Yara. E poi c’è lui, “il Favola” come lo chiamavano in cantiere, che rischia di restare impiccato alle sue stesse parole e alle contraddizioni emerse dagli interrogatori.
Paolo Colonnello, La Stampa 12/9/2015