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 2015  settembre 12 Sabato calendario

“UN CONTRATTO PER TORNARE A COMPETERE I SINDACATI FACCIANO SCELTE CORAGGIOSE”

[Intervista a Giorgio Squinzi] –
«Ai sindacati dico: abbiate il coraggio di guardare più lontano. Vi proponiamo una formula innovativa sui contratti di lavoro che serve a tutti per affrontare un mondo che è cambiato e dove le vecchie logiche non valgono più. Vogliamo modernizzare le relazioni industriali perché è assolutamente necessario. E a voi chiediamo una risposta senza timori». Il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi apre così il confronto sulla contrattazione con Cgil, Cisl e Uil.
E a Renzi che vi avverte: «Basta con i piagnistei»?
«A lui rispondo che non mi pare che ci siano piagnistei, ma richieste legittime. E che deve andare avanti con decisione sulle riforme e aiutarci a sconfiggere una burocrazia che spesso è grottesca. A fine luglio ho ricevuto e incorniciato nel mio ufficio milanese della Mapei il permesso per aprire una nuova finestra nella sede dell’azienda. Lo avevamo chiesto nell’aprile 2004, pagando la regolare imposta di 124 euro. È arrivato dopo undici anni».
Finestra a parte, sono giorni importanti per Squinzi. L’altro ieri, in via del tutto riservata, ha incontrato nella foresteria di viale dell’Astronomia i vertici di Cgil, Cisl e Uil. Un disgelo dopo settimane di polemiche.
Con i sindacati avete due nodi da sciogliere. Il primo è quello della rappresentanza: contare chi pesa e quanto pesa nelle fabbriche, in modo che gli accordi fatti con i sindacati che hanno la maggioranza non possano essere ostaggio della minoranza...
«E qui, anche grazie all’incontro di giovedì, siamo arrivati a un risultato. L’Inps avrà il compito non solo di stabilire gli iscritti a ciascun sindacato, ma anche di tenere il conto dei risultati delle elezioni delle rappresentanze sindacali nelle fabbriche. Così potremo avere un quadro esatto, già dal prossimo maggio, di quanto pesa ogni sindacato».
Da lei quanto pesa?
«Nei nostri nove stabilimenti italiani gli iscritti sono circa il 14% dei dipendenti».
Tutto bene, dunque, sulla rappresentanza?
«Sì, se guardo al risultato. No, se penso che per rendere operativo questo accordo, firmato nel gennaio 2014 e che è una basilare operazione di democrazia, c’è voluto oltre un anno e mezzo. Troppo. Adesso tocca alla contrattazione. Per sedersi al tavolo su questo argomento c’è voluto l’intervento di Renzi la scorsa settimana a Cernobbio, quando in sostanza ha detto: “O vi mettete d’accordo tra di voi o interveniamo per legge”».
È il nodo più duro da sciogliere con i sindacati quello sulla contrattazione? Voi volete nuove regole, ma intanto da qui a fine anno scadono molti contratti di categoria, dai tessili ai metalmeccanici, dagli alimentari, ai chimici. Intanto, quali regole proponete?
«Prima di tutto riconfermiamo in pieno il ruolo del contratto nazionale di lavoro, che deve essere il vero motore del cambiamento. Deve essere un contratto innovativo, con il quale pensiamo di dare una risposta al governo anche sul salario minimo legale: pensiamo che sia giusto farlo nascere dalla contrattazione e non per legge».
Sarà un contratto nazionale che continuerà ad anticipare l’inflazione, come accade oggi e come i sindacati chiedono avvenga nel rinnovo dei contratti di categoria?
«Se ci dovessimo basare sull’anticipo e sull’inflazione effettiva sarebbero i lavoratori che dovrebbero ridare i soldi alle aziende. Per i chimici, ad esempio, la differenza tra inflazione programmata e inflazione effettiva ci porta oggi a dare in busta paga circa 80 euro il mese in più di quello che sarebbe dovuto. Per questo occorre cambiare il criterio perché il salario deve crescere se la produttività cresce. E la produttività si misura solo a posteriori».
E come andare incontro, allora, alle richieste di aumenti?
«Il contratto collettivo nazionale non regola solo i minimi, ma anche il tema della flessibilità ed efficienza delle prestazioni: a più flessibilità ed efficienza potrebbe corrispondere maggior salario. Siamo disposti a offrire aumenti salariali in cambio, ad esempio, di maggiore flessibilità nelle mansioni. Ci sono molti temi a cui bisogna mettere mano in maniera costruttiva. Non abbiamo nessuna rivincita da prenderci sul sindacato e io personalmente, da presidente dei chimici, ho firmato sei contratti senza un’ora di sciopero. Ma devono capire anche loro che bisogna cambiare le regole perché viviamo in un mondo diverso».
Regole che comunque manterrebbero il doppio livello di contrattazione: nazionale e aziendale.
«Sì. Oggi però chi non ha contratti aziendali deve comunque pagare un elemento compensativo, la perequazione, che si aggiunge al minimo in tutte le aziende. Noi vogliamo che le aziende, in alternativa alla perequazione possano avere altri strumenti e possano scegliere tra una gamma di questi».
E quali strumenti?
«Premi legati alla produttività e ai risultati aziendali, oppure pacchetti di welfare che ad esempio prevedano prestazioni sanitarie e previdenziali, o ancora investimenti in formazione sulle persone per migliorare le loro competenze».
Ma prima delle nuove regole, nel sindacato c’è chi chiede di chiudere i contratti da rinnovare con le vecchie regole. Voi rispondete picche.
«Chiudere un’altra tornata di contratti prima significherebbe rimandare le nuove regole. E questo non è pensabile. I sindacati ci accusano di voler arrivare a una moratoria dei contratti. Ma noi, come Confindustria, non l’abbiamo mai chiesto e non pensiamo che sia la soluzione del problema».
Possibile allora una mediazione con contratti «ponte», magari con durata inferiore ai tre anni, ma che permettano di firmare subito, prima del rinnovo delle regole?
«Significherebbe complicarsi ancora la vita. Se si fa un contratto bisogna fare un nuovo contratto. Ogni associazione di categoria ha la sua autonomia e ovviamente può firmare i contratti che vuole in qualsiasi momento, ma in Confindustria siamo comunque tutti d’accordo che è il momento di cambiare le regole e di applicarle al più presto».
Pensa che i sindacati possano davvero accettare cambiamenti simili?
«Il sindacato non deve avere paura del cambiamento. Se ci ragiona senza pregiudizi vedrà che non facciamo un torto a nessuno. Quando ci siamo lasciati giovedì sera abbiamo deciso di rivederci e intanto di aprire un tavolo “tecnico”».
Il premier Renzi pare stufo delle richieste dell’industria, dalla riduzione delle tasse al costo del lavoro. Intanto arrivano dati abbastanza buoni sulla produzione industriale. Ma lei è tiepido. Non crede nella ripresa o vuole spronare il governo?
«I dati del mio stabilimento di Mediglia, vicino a Milano, che controllo ogni mattina appena alzato, dicono che siamo tornati ai livelli produttivi del ’98-’99. In Italia caliamo mentre – badi bene – il mio fatturato a livello mondiale cresce del 15%. Per questo sprono il governo a proseguire sulla strada delle riforme, che pure hanno consentito ad alcuni settori di cogliere i primi risultati. E i dati di oggi sulla produzione industriale lo provano. A questi dati credo».
Le imprese italiane, come dice il premier, non investono?
«Non si deve generalizzare. Ci sono tantissime imprese, anche quelle manifatturiere, che investono. Ma in Italia il 70% dell’industria si basa sulla domanda interna. E se la domanda interna non riparte non si investe».
Lei è un po’ gufo, insomma?
«Macché. Oggi stiamo godendo di condizioni esterne straordinarie, il ribasso dell’euro, il quantitative easing che abbassa il costo del denaro e il prezzo del petrolio in calo, che non dureranno per sempre. A Renzi dico approfittiamone. E partiamo dalla pubblica amministrazione».
Come?
«Ascolti, per rifare lo stabilimento di Mediglia ci sono voluti nove anni, nei quali si sono succedute tre giunte comunali. A Latina, dove non c’è esattamente la corsa a offrire posti di lavoro, la richiesta di autorizzazione per costruire il nuovo stabilimento è rimasta sette anni ferma, senza che nessuno mi spiegasse il perché. Questo è il Paese».
Immagino il confronto con l’estero...
«Ho aperto 56 stabilimenti Mapei in 34 Paesi diversi e il tempo massimo per le autorizzazioni, ovunque, è stato di 90 giorni. Ovunque tranne che da noi. Dovevamo rinnovare lo stabilimento in Malesia, vicino a Kuala Lumpur. Preoccupazione per i tempi. Beh, in 60 giorni sono arrivati i permessi e a fine novembre vado a inaugurarlo».
Francesco Manacorda, La Stampa 12/9/2015